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Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza del  9 gennaio 2013, n. 319

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza del 29 luglio 2004, il Tribunale di Rovereto accolse l’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento della C. Servizi S.r.l. nei confronti di D.I. , già amministratore della società fallita, convalidando il sequestro conservativo autorizzato ai sensi dell’art. 146, terzo comma, del rgio decreto 16 marzo 1942, n. 267 sui beni del convenuto, e condannando quest’ultimo al risarcimento dei danni nella misura di Euro 8366,60.
2. – L’impugnazione proposta dal D. è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Trento con sentenza del 23 novembre 2005 la quale ha accolto il gravame incidentale proposto dal curatore del fallimento, rideterminando l’importo dovuto dall’appellante in Euro 12.942,67, oltre rivalutazione ed interessi legali con decorrenza dalla domanda.
Premesso che la sentenza penale di assoluzione pronunciata nei confronti del D. non spiegava efficacia di giudicato in sede civile, non essendo stata trasferita in sede penale l’azione civile precedentemente intrapresa, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ha osservato comunque che le questioni trattate nel giudizio civile erano sovrapponibili solo limitatamente a quelle affrontate nel giudizio penale, parte delle quali riguardava fatti non riferibili all’appellante o non dedotti in sede civile, mentre altre avevano ad oggetto non già l’inosservanza dei doveri dell’amministratore, ma l’imputazione di falso in bilancio ed alterazione della contabilità. Quanto alla vendita fittizia di immobili della società alla P. Costruzioni, la rilevanza dell’assoluzione era esclusa dalla scelta compiuta dal curatore all’atto della richiesta del sequestro conservativo, di considerare il D. estraneo al fatto generativo del danno, riducendo corrispondentemente l’entità del risarcimento preteso nei suoi confronti, e dalla conseguente novità della relativa domanda, proposta per la prima volta in appello.
La Corte ha invece confermato la responsabilità dell’appellante per il danno derivante da un’operazione posta in essere con la F. S.r.l. consistente nel trasferimento in favore della stessa delle quote della C. Servizi in possesso dei soci contro la cessione a questi ultimi di venticinque appartamenti costruiti su un terreno di proprietà della società fallita. Tale operazione si era risolta in un vero e proprio prosciugamento dell’attivo della C. Servizi, avendo comportato, in sostanza. l’assegnazione ai soci di una parte del patrimonio sociale al di fuori di ogni ipotesi di liquidazione, senza che alla società fosse corrisposto il controvalore degl’immobili, pur riportato nella contabilità. Nessun rilievo, al riguardo, poteva assumere la circostanza, accertata in sede penale, che l’appellante non avesse concorso alla falsificazione delle scritture contabili, in quanto egli, lungi dal vigilare perché l’operazione non avesse luogo, si era reso garante dell’esito della stessa, essendo stata prevista proprio a tal fine la sua permanenza nel consiglio di amministrazione della società. Non era pertanto condivisibile l’assoluzione del D. dal reato di falso in scritture contabili, in quanto la circostanza che egli non avesse il controllo diretto della contabilità non escludeva la sua responsabilità per la falsità ideologica, prevista dal capo d’imputazione, avendo egli avallato un’operazione nell’ambito della quale l’alterazione della contabilità costituiva l’artificio volto a far risultare l’avvenuto versamento del controvalore degli appartamenti da parte dei soci.
La Corte territoriale ha altresì confermato la responsabilità dell’appellante per l’avvenuta contabilizzazione quali versamenti eseguiti dai soci in conto finanziamenti di somme già appartenenti alla società, in quanto derivanti da pagamenti effettuati da clienti in adempimento di obbligazioni con la stessa contratte o da mutui concessi alla società, ritenendo non contestata tale provenienza e non fondata l’affermazione del D. di essere all’oscuro della vicenda, in quanto parte delle somme provenivano da un finanziamento bancario del quale l’appellante sarebbe stato tenuto a seguire le vicende. La Corte ha peraltro ritenuto che il danno derivante da tale operazione non fosse costituito dalle modalità di contabilizzazione di tali versamenti, comunque affluiti nelle casse della società, né dall’utilizzazione degli stessi per ripianare perdite, bensì dall’avvenuta restituzione in favore dei soci d’importi superiori a quelli effettivamente versati. Tale restituzione, avvenuta senza che si procedesse neppure all’individuazione del socio percettore, non era stata oggetto di una specifica delibera consiliare, risolvendosi in una manovra di svuotamento delle casse sociali di proporzioni tali che un amministratore appena attento avrebbe potuto percepirla ed evitarla.
3. – Avverso la predetta sentenza il D. propone ricorso per cassazione. articolato in due motivi, illustrati anche con memoria. Il curatore del fallimento resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e l’errata applicazione dell’art. 652 cod. proc. pcn. e degli artt. 2909, 2392 e 1710 cod. civ., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto illecita l’operazione di scambio delle quote sociali con gli appartamenti, quantificando in misura pari al controvalore di questi ultimi, detratta la somma versata dai soci, il depauperamento patrimoniale subito dalla C. Servizi, senza considerare che quest’ultima era proprietaria soltanto del terreno, e trascurando i vantaggi che la società aveva tratto dall’operazione, avendo incrementato il proprio patrimonio senza versare alcuna somma per la costruzione degli appartamenti.
Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello non ha tenuto conto della documentazione prodotta e degli accertamenti compiuti in sede penale, dai quali era emersa la sua assoluta estraneità ai fatti contestatigli, essendo risultato che egli non era in possesso di elementi tali da indurlo a sospettare il carattere pregiudizievole delle operazioni compiute dagli altri amministratori, in quanto questi ultimi lo avevano completamente estraniato dall’amministrazione e dal controllo della società. Nell’affermare la sua responsabilità per l’alterazione della contabilità, essa non ha considerato da un lato che la stessa era nella disponibilità materiale degli altri amministratori e che egli non vi aveva accesso diretto, e dall’altro che i soci erano liberi di cedere le proprie quote anche gratuitamente, senza intaccare il capitale della società, mentre il controvalore delle stesse sarebbe stato pagato mediante il trasferimento degli appartamenti.
2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e l’errata applicazione degli artt. 2392 e 1710. primo comma, seconda parte, cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ., nonché l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, ribadendo che, nel ritenere violato il dovere di vigilanza connesso alla carica di amministratore, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della documentazione prodotta, dalla quale risultava che egli aveva svolto un ruolo assolutamente marginale nell’amministrazione della società, non essendo titolare di deleghe e non avendo accesso ai conti, ma avendo partecipato soltanto ad alcune riunioni del consiglio di amministrazione, nelle quali non erano stati deliberati atti pregiudizievoli.
Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello non ha tenuto conto che gli stessi componenti del collegio sindacale non avevano sollevato rilievi in ordine alla gestione sociale, portando ad esempio dell’alterazione della contabilità il mancato versamento del corrispettivo degli appartamenti da parte dei soci, senza considerare che l’operazione posta in essere con la F. comprendeva due distinti contralti, aventi ad oggetto rispettivamente la cessione delle quote della C. Servizi alla F. ed il trasferimento degli appartamenti dalla C. Servizi ai soci contro il pagamento del prezzo che la F. avrebbe dovuto versare alla C. Servizi a titolo di conguaglio per l’acquisto delle quote.
3. – Le predette censure, da esaminarsi congiuntamente in quanto aventi ad oggetto la comune problematica relativa all’inadempimento dei doveri gravanti sull’amministratore di società, sono infondate.
La Corte d’Appello ha infatti accertato che l’operazione posta in essere con la F., originariamente concepita come scambio del terreno di proprietà della C. Servizi con gli appartamenti che la società acquirente vi avrebbe costruito, non fu attuata secondo i progetti, in quanto le parti, per motivi fiscali, raggiunsero un nuovo accordo, il quale prevedeva il trasferimento in favore della F. delle quote della C. Servizi in possesso dei soci, contro la cessione a questi ultimi degli appartamenti da costruire sul suolo di proprietà della società fallita. La Corte d’Appello ha ritenuto che tale operazione abbia determinato un depauperamento del patrimonio della società, essendosi tradotta nell’assegnazione ai soci di una parte del patrimonio sociale al di fuori di ogni ipotesi di liquidazione della società in quanto al trasferimento della proprietà degli immobili non ha fatto riscontro il versamento dell’intero controvalore da parte dei soci, ma di un’esigua parte di esso, sebbene dalla contabilità sia stato l’atto risultare il contrario.
Tali conclusioni, sorrette da un iter argomentativo giuridicamente ineccepibile ed immune da vizi logici, non appaiono scalfite dalle obiezioni del ricorrente, le quali trascurano la circostanza, avente portata determinante ai fini della corretta ricostruzione della fattispecie, che, non essendosi perfezionato l’accordo originario, qualificabile come permuta di cosa presente con cosa futura, la F. non è mai divenuta proprietaria del terreno sul quale sono stati costruiti gli appartamenti, avendo provveduto alla realizzazione degli stessi in qualità di appaltatrice; il suolo è pertanto rimasto di proprietà della C. Servizi, la quale ha conseguentemente acquistato per accessione anche la proprietà degli appartamenti, ai sensi dell’art. 934 cod. civ. Il successivo trasferimento degli immobili in favore dei soci, senza che questi ultimi abbiano corrisposto l’intero prezzo alla società fallita, ha dunque comportato un duplice depauperamento del patrimonio di quest’ultima, rimasta priva sia del terreno che degli appartamenti, non assumendo alcun rilievo la circostanza che, attraverso la concessione della disponibilità del suolo, essa abbia potuto ottenere la costruzione dell’edificio senza versare alcun corrispettivo, in quanto beneficiari dell’operazione sono risultati, sotto il profilo economico, esclusivamente i soci e la F. la quale ha ottenuto la cessione delle quote sociali in luogo del corrispettivo della costruzione. L’intervenuto acquisto della proprietà degli appartamenti da parte della C. Servizi, in aggiunta a quella del suolo, fa poi apparire corretta anche la commisurazione del pregiudizio subito dalla società fallita al valore complessivo degl’immobili, detratto soltanto il parziale versamento eseguito dai soci, non potendosi in alcun modo giustificare, sotto il profilo logico, la detrazione del valore degli appartamenti, il cui corrispettivo avrebbe dovuto essere iscritto tra le poste passive del bilancio come oggetto di una distinta obbligazione della società nei confronti dell’appaltatrice.
3.1. – Quanto al profilo soggettivo della responsabilità, è opportuno premettere che l’azione esercitata dal curatore del fallimento, ai sensi dell’art. 146 della legge fall., ha natura contrattuale e carattere unitario ed inscindibile, risultando frutto della confluenza in un unico rimedio delle due diverse azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 cod. civ.; pertanto, l’attore è tenuto a fornire esclusivamente la prova delle violazioni commesse e del nesso di causalità tra le stesse ed il danno verificatosi, mentre incombe ad amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (Cass. Sez. I, 29 ottobre 2008. n. 25977; 24 marzo 1999, n. 2772).
Nella specie, nonostante tale onere sia rimasto inadempiuto da parte del ricorrente, la Corte d’Appello non ha mancato di farsi carico dell’individuazione degli aspetti antidoverosi della condotta dell’amministratore, idonei a giustificare l’imputazione del fatto dannoso. Pur prendendo atto che in sede penale era stato escluso il concorso del D. nella falsificazione materiale dei registri contabili, essa ha ritenuto non condivisibile tale decisione: premesso che al ricorrente era stata ascritta non già la falsità materiale, ma quella ideologica, ha ritenuto infatti che il, contributo da lui consapevolmente fornito alla produzione del danno potesse desumersi dal ruolo di garante dell’intera operazione, svolto dal D. a seguito della cessione delle quote sociali in qualità di componente del nuovo consiglio di amministrazione della C. Servizi, nonché dalla rilevanza che nell’ambito dell’operazione doveva essere riconosciuta all’iscrizione in bilancio di versamenti pari al controvalore degli appartamenti, quale artificio contabile volto a far risultare pagamenti in realtà non avvenuti.
3.2. – Il dissenso in tal modo manifestato nei confronti della decisione adottata in sede penale non si pone affatto in contrasto con l’efficacia da riconoscersi al giudicato penale nel giudizio civile avente ad oggetto il risarcimento dei danni, in quanto dalla sentenza impugnata risulta che l’azione civile di responsabilità, esercitata in epoca anteriore a quella penale, non era stata trasferita nel giudizio penale; trova pertanto applicazione l’art. 652 cod. proc. pen., espressamente richiamato dalla Corte territoriale, il quale prevede che nel giudizio civile per il risarcimento del danno la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento spiega efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, a meno che, come è accaduto nella specie, il danneggiato non abbia proseguito l’azione in sede civile, a norma dell’art. 75, comma secondo.
3.3. – Le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata non possono ritenersi inficiate neppure dalla circostanza, accertata in sede penale, che il ricorrente non avesse il controllo diretto della contabilità, trattandosi di un elemento che è stato opportunamente vagliato dalla Corte d’Appello, la quale l’ha ritenuto idoneo ad escludere soltanto il concorso del D. nella falsificazione materiale dei registri contabili, e non anche il suo contributo alla produzione del danno, emergente dalla posizione da lui assunta nell’ambito della società.
Peraltro, nel rilevare che il D. , in qualità di amministratore, era tenuto a vigilare affinché l’operazione in esame, che comportava un depauperamento del patrimonio sociale, non fosse mai realizzata, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dell’art. 2392, secondo comma, cod. civ. (nel testo, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) il quale pone a carico degli amministratori il dovere di vigilare sul generale andamento della gestione sociale, nonché di attivarsi per impedire il compimento di atti pregiudizievoli per la società o comunque per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. Come già precisato da questa Corte, tale dovere prescinde dalla delega di determinate funzioni al comitato esecutivo o a singoli amministratori, e la sua violazione comporta pertanto il riconoscimento della responsabilità per i predetti atti, a meno che non sussista la prova, nella specie mai offerta, che l’amministratore, pur essendosi diligentemente attivato a tal fine, non abbia potuto in concreto esercitare la dovuta vigilanza a causa del comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio di amministrazione (cfr. Cass., sez. I, 27 aprile 2011, n. 9384: 11 novembre 2010, n. 22911: 15 gennaio 2005, n. 3032).
3.4. – Insufficiente, ai fini dell’esclusione della responsabilità dell’amministratore, è infine la circostanza, peraltro non menzionata nella sentenza impugnata e della quale non risulta l’avvenuta deduzione nel giudizio di merito, che il collegio sindacale non abbia sollevato rilievi in ordine alla regolare tenuta della contabilità: tale condotta, infatti, avrebbe potuto giustificare, al più il riconoscimento della concorrente responsabilità dei sindaci, tenuti a loro volta a vigilare sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e sull’adeguatezza dell’assetto contabile della società, ai sensi dell’art. 2403 cod. civ. ma non avrebbe consentilo di trasferire a carico degli stessi le conseguenze della condotta illecita degli amministratori.
4. – Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo, ai sensi del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, trovando quest’ultimo applicazione, in virtù della disposizione transitoria contenuta nell’art. 41, ogni qualvolta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché la stessa abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando erano ancora in vigore le tariffe professionali abrogate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna D.I. al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 4.700.00, ivi compresi Euro 4.500.00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.

Depositata in Cancelleria il 09.01.2013

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