cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 8 gennaio 2015, n. 302

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 25 febbraio 2013 la Corte d’Appello di Ancona confermava i contenuti della decisione di primo grado, emessa in data 3 aprile 2012 dal G.M. presso la Sezione Distaccata di S. Elpidio a Mare del Tribunale di Fermo, nei confronti di D.A.I. .
Con tali conformi decisioni di merito è stata dunque affermata la penale responsabilità dell’imputata per il reato di cui all’art. 2 legge n. 1423 del 1956 – inottemperanza al foglio di via obbligatorio emesso dal Questore di Ascoli Piceno e notificatole il 23 luglio 2009 – per fatto avvenuto il 18 giugno 2010 in Porto Sant’Elpidio (con condanna a giorni venti di arresto).
Il giudice di primo grado ritiene integrata la fattispecie in virtù della constatazione obiettiva del rientro nel comune e della legittimità del provvedimento amministrativo posto a monte.
La pericolosità della D. era stata ritenuta sussistente in virtù del fatto che costei era stata più volte controllata in località (omissis) , mentre esercitava la prostituzione in atteggiamenti definiti “adescatori e scandalosi”, nonostante la presenza in loco di civili abitazioni.
Tale motivazione dell’atto amministrativo viene ritenuta fondata in fatto e comunque insindacabile in punto di valenza del giudizio di pericolosità.
La Corte d’Appello, nel valutare i contenuti a lei offerti, affermava, in sintesi, che l’atto amministrativo posto a monte non poteva essere oggetto di disapplicazione da parte del giudice penale in quanto non si limitava a parificare l’esercizio dell’attività di prostituzione ad una condotta in sé pericolosa per la pubblica sicurezza o tranquillità, ma evidenziava specifiche modalità del fatto (ora, forme e luogo dell’offerta sessuale) tali da far ragionevolmente presumere la violazione di norme penali o comunque idonee a sostenere la valutazione di pericolosità di cui alle norme regolatrici. Si riteneva altresì adeguata l’entità della sanzione.
2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione – a mezzo del difensore – D.A.I. , deducendo erronea applicazione delle norme regolatrici e vizio di motivazione.
Nel ricorso si ribadisce che in realtà il provvedimento amministrativo violato era illegittimo e il giudice penale avrebbe dovuto disapplicarlo. Ciò perché l’esercizio della prostituzione non è di per sé un reato e dunque non può dar luogo alla emissione – da parte dell’autorità amministrativa – del foglio di via obbligatorio.
Né risultano – in concreto – indicate condotte tali da integrare una o più ipotesi di reato commesse durante l’esercizio di detta attività dall’imputata.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato, per le ragioni che seguono.
Questa Corte, con orientamento cui il Collegio presta adesione (da ultimo sent. n. 41738 del 16.9.2014, rv 260515) ha affermato che lì dove il provvedimento amministrativo di cui all’art. 2 legge n.1423 del 1956 (foglio di via obbligatorio) sia motivato con esclusivo riferimento all’attività di prostituzione – esercitata dall’imputata – è doverosa la sua disapplicazione da parte del giudice penale chiamato a pronunziarsi sulla ricorrenza dell’ipotesi di reato di cui all’art. 2 co. 2 l. 1423/’56 (v. anche Sez. I n. 4426 del 5.12.2013, rv 259015).
Ciò perché la stessa norma dell’art. 2 pone come presupposto dell’ordine di allontanamento non un qualsivoglia comportamento “pericoloso per la sicurezza pubblica” (nozione che aprirebbe il varco a forme incontrollabili di discrezionalità) ma una condotta pericolosa che sia espressione delle riconosciute categorie criminologiche di cui al precedente articolo 1 (n. 1 soggetti abitualmente dediti, sulla base di elementi di fatto, a traffici delittuosi/ n.2 soggetti che per condotta e tenore di vita debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, produttori di proventi derivanti da attività delittuose con cui si sostengono, almeno in parte /n.3 soggetti dediti, sulla base di elementi di fatto, alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, sicurezza o tranquillità pubblica).
Ora, come è stato già ritenuto nelle precedenti decisioni sul tema, è del tutto pacifico che l’esercizio della prostituzione in sé non rientra tra le categorie delle persone pericolose ai sensi della vigente normativa (già in base alla L. n. 327 del 1988 che ebbe ad eliminare il riferimento a coloro che svolgono abitualmente attività contrarie alla morale pubblica ed al buon costume).
Né può ritenersi condotta di reato quella consistente in fatti di “adescamento”, stante la depenalizzazione operata con art. 81 della legge n. 689 del 1981 della fattispecie originariamente prevista dall’art. 5 co. 1 legge n.75 del 1958.
Va poi rilevato come sia anche del tutto certo che, pur nell’ambito delle categorie contemplate dalla legge, il provvedimento amministrativo non possa essere motivato con indicazione generica della categoria di pericolosità ritenuta presente nel caso specifico, ma debba indicare gli elementi concreti in fatto, riferibili al soggetto interessato, sui quali il provvedimento è fondato.
Non può ritenersi, dunque, che l’esercizio della prostituzione – in sé attività non costituente reato – possa fondare l’emissione di un provvedimento di allontanamento basato sulle ipotesi di cui al numero 1 dell’art. 1 (traffici delittuosi) o numero 2 (vivere con provento di attività delittuose).
Ma neanche tale attività può dar luogo alla “iscrizione” del soggetto nella categoria di cui all’art. 1 numero 3 della legge in parola, evocato nel provvedimento posto a base della successiva condotta illecita (in termini di inottemperanza).
È del tutto evidente, sul punto, che l’offesa o la messa in pericolo dei beni indicati in detta norma (l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, sicurezza o tranquillità pubblica), per essere rilevante ai fini in parola, deve discendere da veri e propri reati ascrivibili al soggetto, e non da condotta in sé non costituente reato.
Ritenere diversamente finirebbe invero, in modo del tutto inammissibile, per ripristinare surrettiziamente, a questi fini, la categoria già soppressa dalla L. n. 327 del 1988.
Dal chiarissimo testo di legge è poi rilevabile, in modo del tutto piano, che eventuali reati, o comportamenti pericolosi, commessi da terze persone, sia pur occasionati dall’offerta prostitutoria, non possono ricadere ai sensi di legge sul soggetto che si prostituisce, a meno che l’offerta stessa non si concretizzi in condotte di reato.
Ciò posto, meramente ipotetica risulta essere – nel caso in esame – la commissione di reati “correlati” all’attività esercitata e posti in essere dall’imputata (coinvolgimento di minori o realizzazione di atti osceni in luogo pubblico).
Sul punto, la motivazione della decisione impugnata risulta del tutto carente e inadeguata proprio perché affronta il tema muovendosi sul terreno della “probabilità”, e dunque valorizzando indicatori generici e non soggettivizzati, posto che dagli atti non era dato scorgere alcuna condotta diversa dalla ordinaria attività di offerta delle prestazioni sessuali.
In ciò le critiche mosse nel ricorso risultano fondate, posto che l’illegittima emissione del provvedimento amministrativo – disapplicabile per violazione di legge e vizio di motivazione – rende insussistente la fattispecie di reato oggetto di contestazione.
Da ciò deriva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto di reato non sussiste.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

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