CASSAZIONE

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 5 novembre 2014, n. 23624

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente
Dott. BENINI Stefano – rel. Consigliere
Dott. GIANCOLA Maria C. – Consigliere

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 31088-2007 proposto da:

(OMISSIS) (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso l’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI MARINO (P.I. (OMISSIS)), in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4348/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/10/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/10/2014 dal Consigliere Dott. STEFANO BENINI;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato (OMISSIS), con delega, che si riporta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con atto di citazione notificato il 26.2.1998, la (OMISSIS) s.a.s. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Velletri il Comune di Marino chiedendo dichiararsi risolto contratto di appalto di servizi per la realizzazione di un sistema informatico dei tributi, e conseguentemente condannarsi parte convenuta al risarcimento del danno.
Si costituiva in giudizio il Comune di Marino, contestando che vi fosse stato inadempimento e spiegando domanda riconvenzionale per la risoluzione per colpa dell’appaltatore.
2. Avverso la sentenza di primo grado, dell’11.4.2002, che dichiarava risolta la convenzione per fatto e colpa del Comune, con condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni, liquidati in euro 721.456,21, proponeva appello il Comune di Marino, e in via incidentale la s.a.s. appellata, che lamentava la quantificazione del danno. In corso di causa, a seguito dell’estinzione dell’appellata, interveniva in giudizio il socio (OMISSIS), facendo proprie le domande gia’ formulate dalla disciolta societa’.
3. Con sentenza depositata il 16.10.2006, la Corte d’appello di Roma, rigettava entrambi i gravami, ritenendo in particolare, riguardo all’impugnazione incidentale, che la pretesa lesione all’immagine professionale, era rimasta completamente destituita di prova.
4. Ricorre per cassazione (OMISSIS), affidandosi a due motivi, al cui accoglimento si oppone con controricorso il Comune di Marino.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo di ricorso, (OMISSIS), denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 1375, 2059 e 1126 c.c., in relazione all’articolo 2 Cost. (articolo 360 c.p.c., n. 3), censura la sentenza impugnata per aver ritenuto congruo il danno liquidato in primo grado, senza riconoscere l’esistenza di un danno non patrimoniale all’immagine della societa’.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso, (OMISSIS), denunciando violazione e falsa applicazione dell’articolo 91 c.p.c. e articolo 75 disp. att. c.p.c., nonche’ della Legge 7 novembre 1957, n. 10051, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, e della Legge 13 giugno 1942, n. 794 in relazione al Decreto Ministeriale 5 ottobre 1994, n. 585, nonche’ difetto di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver liquidato gli onorari di avvocato in misura inferiore ai minimi tariffari senza tener conto della gravita’ e del numero delle questioni trattate, della specialita’ della controversia, del pregio del risultato dell’opera.
2.1. Il primo motivo e’ inammissibile.
L’impugnazione e’ articolata, mediante il richiamo ad alcuni passi di una pronuncia di questa Corte, sulla configurabilita’ di un danno all’immagine nei confronti delle persone giuridiche, e nella liquidabilita’ del danno, in tali casi, mediante il ricorso a criteri equitativi. Viene invocata la violazione di legge, nella quale sarebbe incorso il giudice di merito, nel non riconoscere tale voce di danno, con la conseguenza che la liquidazione, nel suo importo complessivo, non risulterebbe adeguata. Il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’ esterna all’esatta interpretazione della norma di legge ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura e’ possibile, in sede di legittimita’, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) e’ segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, e’ mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 1.10.2007, n. 20649).
La sentenza impugnata non ha negato a priori la configurabilita’ di un danno all’immagine delle persone giuridiche, ma non ne ha riconosciuta l’esistenza nel caso di specie, essendone mancata la prova (come gia’, del resto, aveva ritenuto il Tribunale). Ha anche escluso la correlazione tra la pendenza della controversia e l’estinzione della societa’, aggiungendo che la perdita di occasioni professionali apparirebbe indice di intrinseca debolezza della societa’ piuttosto che effetto della lite giudiziaria.
La censura correttamente formulabile riguardo alla decisione di merito potrebbe al piu’ rivolgersi al ragionamento condotto dal giudice nella ricostruzione delle circostanze di fatto e nell’apprezzamento della valenza lesiva dell’immagine dell’ente.
La convinzione del giudice sull’assenza di tale danno appare motivata, pur se il ricorrente non ha svolto autonoma censura sul ragionamento che ha indotto il giudice a negare un danno all’immagine nel caso specifico, ne’ ha lamentato la idoneita’ delle prove eventualmente dedotte, a dimostrare una ripercussione dell’inadempimento del committente sulla pubblica reputazione del committente. A meno di non dover riconoscere l’esistenza di un danno in re ipsa, la cui riparazione sia automaticamente dovuta a seguito della risoluzione del contratto di appalto.
La configurabilita’ di una lesione alla reputazione di un ente collettivo, con conseguente risarcibilita’ del danno non patrimoniale, proprio alla luce della dimensione sociale che l’invocazione dell’articolo 2 Cost., operata dal ricorrente, sottintende, deriva dalla diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere, o di settori o categorie di essi con le quali l’ente interagisca, allorquando l’atto lesivo che determina la proiezione negativa sulla reputazione dell’ente sia immediatamente percepibile dalla collettivita’ o da terzi (Cass. 1.10.2013, n. 22396; 25.7.2013, n. 18082).
La stessa pronuncia citata dal ricorrente a supporto della pretesa, presuppone che il danno esista, argomentando che riconosciuta la configurabilita’ di un danno non patrimoniale all’immagine della persona giuridica, esso, come ogni danno non patrimoniale, dovra’ essere liquidato in via equitativa (Cass. 4.6.2007, n. 12929).
Il potere di cui all’articolo 1226 c.c. riguarda solo la liquidazione del danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare, occorrendo tuttavia che un danno esista e sia provato (Cass. 19.12.2011, n. 27447; 11.10.2013, n. 23194; 22.5.2014, n. 11361).
2.2. Anche il secondo motivo non si sottrae ad una pronuncia di inammissibilita’.
La Corte d’appello di Roma ha disatteso la doglianza riguardo all’incongruita’ della liquidazione degli onorari, operata dal Tribunale, poiche’ a fronte di una regolamentazione delle spese del giudice di primo grado, apparentemente conforme alle tariffe professionali, l’appellante incidentale aveva solo genericamente contestato la precedente liquidazione, senza indicare in dettaglio le voci non ritenute congrue.
La decisione appare corretta, tenendo conto che l’impugnazione del capo di sentenza relativo alla liquidazione delle spese giudiziali non puo’ essere accolta se con essa non vengono specificate le singole voci che la parte assume come alla stessa spettanti e non riconosciute, non essendo il giudice del gravame vincolato in alcun modo da eventuali determinazioni quantitative formulate dalla medesima parte impugnante in difetto della individuazione degli specifici errori che essa attribuisce al giudice come commessi nella decisione impugnata (Cass. 21.10.2009, n. 22287).
Con il presente mezzo d’impugnazione, il ricorrente non smentisce la qualificazione di genericita’ della doglianza della sentenza di appello, limitandosi ad osservare di aver eccepito la non congruita’ degli onorari complessivamente liquidati (euro 10.969,54), con riferimento agli onorari indicati nella nota spese ritualmente depositata. In tema di controllo della legittimita’ della pronuncia di condanna alle spese del giudizio, e’ inammissibile il ricorso per cassazione che si limiti alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilita’ della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonche’ le singole spese asseritamente non riconosciute (Cass. 26.6.2007, n. 14744).
La scomposizione, operata in sede di ricorso per cassazione, dell’importo reclamato in primo grado a titolo di onorario, e asseritamente pretermessa dal giudice, in relazione alle varie voci, non e’ allegato sia stata prospettata, mediante testuali richiami al tenore del gravame, alla Corte d’appello in comparazione all’importo liquidato dal Tribunale.
Riguardo poi alla compensazione delle spese del grado di appello, come consentito dall’articolo 92 c.p.c. per l’ipotesi di reciproca soccombenza, la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimita’, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalita’ fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Cass. 31.1.2014, n. 2149).
3. Alla dichiarazione di inammissibilita’ del ricorso segue la condanna del ricorrente alle spese, come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente alle spese, liquidate in euro 7.000 per compensi, euro 200 per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge.

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