Corte di Cassazione bis

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 30 luglio 2014, n. 33781

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza resa l’8 maggio 2013 la Corte militare di Appello riformava la sentenza del Tribunale militare di Napoli del 15 settembre 2012 ed assolveva l’imputato L.G. perché il fatto non costituisce reato dal delitto di ingiuria continuata ad inferiore, contestatogli perché, maresciallo capo della G.d.F., già comandante della sezione operativa pronto intervento di Monopoli, offendeva il prestigio, l’onore e la dignità dell’appuntato D.L.A. , fatto commesso in (omissis) nel corso di una conversazione intercorsa tra l’imputato ed il sottordinato. A fondamento della decisione la Corte Di Appello rilevava che il dialogo, di cui si era acquisita la registrazione e la relativa trascrizione integrale, era stato captato per iniziativa della parte lesa all’insaputa dell’imputato e con maliziosa e provocatoria introduzione di temi per questo sensibili, quali il permesso per ragioni di studio ottenuto dal D.L. a scapito della piena funzionalità del servizio e dei carichi di lavoro dei colleghi, aveva riguardato argomenti attinenti al servizio stesso e contenuto espressioni oggettivamente lesive e triviali, ma pronunciate in un contesto confidenziale e cameratesco, nonché di reciproca volgarità, in assenza della volontà di ledere il patrimonio morale altrui, quanto per convincere l’interlocutore e fare appello alla sua ragione, tanto che l’episodio si era concluso pacificamente.
2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la parte civile D.L.A. a mezzo del suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti motivi:
a) violazione di legge in relazione all’art. 196, comma 2, c.p.m.p. e degli artt. 42 e 43 cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione. La Corte di Appello aveva assolto l’imputato senza considerare che per l’integrazione del delitto di ingiuria non è richiesto il dolo specifico, inteso quale volontà di utilizzare espressioni offensive, sicché si prescinde dai motivi a delinquere e dall'”animus nocendi vel iniuriandi”; né assume rilievo il contesto asseritamente amicale della conversazione perché le frasi lesive, e ritenute tali anche dalla Corte di Appello, erano state pronunciate da superiore gerarchico in violazione delle regole di disciplina nella coscienza e volontà di offendere il sottoposto.
b) Violazione di legge in relazione all’art. 196, comma 2, c.p.m.p. ed all’art. 228 c.p.m.p., in quanto la Corte di Appello aveva inteso dare applicazione alla norma riguardante la provocazione, che ritiene non punibile il delitto di ingiuria per uno o entrambi gli offensori se le offese siano reciproche e così quello di diffamazione se commesso in stato d’ira determinato da altrui fatto ingiusto, ma la disposizione è applicabile alla ed. ingiuria reale, che colpisce soltanto la persona e non la disciplina militare ed il rapporto gerarchico. Inoltre, in modo illogico la sentenza non aveva considerato che il D.L. aveva cercato di sottrarsi a quel confronto, ma l’imputato gli aveva imposto di continuare ad ascoltarlo.
c) Violazione dell’alt. 4 D.Lgs. 186/2003: la ritenuta illegittimità della registrazione, sia sotto il profilo della disciplina militare, sia della compromissione della riservatezza, era irrilevante, dal momento che il ricorrente aveva fatto uso del registratore a tutela dei propri diritti, mentre la registrazione non era stata utilizzata quale prova, ma soltanto per formulare il capo d’imputazione, dal momento che l’imputato aveva ammesso di avere pronunciato quelle frasi.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
1. La ricorrente parte civile contesta ai soli fini dell’accoglimento della propria domanda risarcitoria la sentenza impugnata sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione per avere escluso la Corte di Appello l’elemento soggettivo del delitto di ingiuria, ascritto all’imputato, sulla scorta di un’interpretazione ed applicazione erronee della norma incriminatrice e di un percorso giustificativo illogico.
1.1 La sentenza impugnata, premesso che non sussisteva alcun contrasto tra le parti circa la ricostruzione in punto di fatto della condotta materiale, perpetrata nel corso di un colloquio registrato dalla persona offesa e comunque oggetto di ammissione da parte del suo autore, ha ritenuto di dissentire dal giudizio di responsabilità, espresso dal Tribunale militare, e di escludere la volontarietà delle offese rivolte al sottordinato per il contesto complessivo confidenziale e cameratesco dello scambio di battute tra i due dialoganti, caratterizzate dal ricorso ad espressioni colorite e volgari da parte di entrambi e per la valenza argomentativa delle locuzioni impiegate dall’imputato, animato dal proposito di indurre il D.L. a desistere dall’intenzione di partecipare ad un corso di formazione in criminologia per le ricadute negative che la sua assenza dal servizio ordinario avrebbe cagionato al reparto e per quelle positive sulle valutazioni relative alle sue note caratteristiche personali. Inoltre, ha considerato che la condotta tenuta dal D.L. , subdola e diretta ad orientare la conversazione, non aveva giustificazione nel presunto accanimento morale, umano e professionale del L. in suo danno, ricondotto nel corso della sua deposizione esclusivamente alla frequentazione del corso di criminologia ed all’innalzamento delle note caratteristiche, mentre il comportamento del L. poteva integrare al più un illecito disciplinare al pari di quello del D.L. , che, in quanto inferiore non aveva mostrato rispetto ed educazione nel rivolgersi al suo superiore ed aveva violato le prescrizioni di cui agli artt. 49 comma 1 lett. b) e allegato nr. 37 del regolamento di disciplina militare in materia di detenzione ed uso di apparecchiature per la registrazione fonica in luoghi militari.
1.2 Ritiene questa Corte che la decisione impugnata non tenga adeguatamente conto della configurazione astratta della fattispecie di ingiuria ad inferiore, che ripete dal reato comune di ingiuria le sue caratteristiche di delitto a dolo generico, che si realizza allorché l’agente rivolga al destinatario, in questo caso un militare di grado inferiore, una frase lesiva del decoro e dell’onore dello stesso, senza che sia necessaria la volontà di offendere o umiliare, trattandosi di delitto plurioffensivo, volto a tutelare, sia il patrimonio morale della persona, sia il bene indisponibile della disciplina militare (Cass. sez. 1, n. 12997 del 10/02/2009, Ottaviano e altro, rv. 243545; sez. 1, n. 42367 del 16/11/2006,, P.G. in proc. Toraldo, rv. 235569; sez. 1, n. 58 del 16/11/2006, Rizzi, rv. 235335). Pertanto, ad integrare la fattispecie contestata è sufficiente la cosciente volontà di pronunciare espressioni di univoco significato offensivo, perché dispregiative, mortificanti ed avvilenti, senza che assumano rilievo, eventuali moventi e finalità individuali di volta in volta perseguite.
1.3 Ebbene, nel caso in esame, il L. non si è limitato, per quanto desumibile dal capo d’imputazione, ad esprimere un rimprovero in forma vivace e colorita, oppure a ricorrere con convinzione e forza dialettica ad argomenti capaci di convincere l’interlocutore, ma ha fatto ricorso a locuzioni che la stessa Corte riconosce come “oggettivamente” lesive del prestigio dell’inferiore, fatto oggetto di disprezzo, di scherno, di insulti volgari, che ne hanno pregiudicato l’autostima e l’onore sia come militare, che come persona ed al tempo stesso hanno violano le regole di disciplina ed i principi che devono regolare i rapporti gerarchici in contesto militare. Che poi esistesse un rapporto confidenziale tra i due e l’abitudine a far uso di un linguaggio scurrile, ciò non poteva autorizzare l’imputato a rivolgersi al sottoposto in termini così denigrativi.
2. Vanno altresì condivise le ragioni di critica al percorso motivazionale della sentenza impugnata, espresse nel secondo motivo di ricorso. La Corte di merito ha ritenuto di assegnare rilievo alla condotta provocatoria, tenuta dal D.L. , il quale avrebbe sollecitato il L. ad affrontare argomenti che già sapeva motivo di contrasto e di possibili esternazioni scomposte da parte del superiore. Ebbene, per quanto tale rilievo trovi rispondenza nel testo della trascrizione della conversazione, riportato nella sentenza stessa, tale constatazione non avrebbe potuto condurre all’assoluzione dell’imputato ed all’esclusione della sua responsabilità, dal momento che la disposizione di cui all’art. 228 c.p.m.p., comma 2, che rende non punibile la condotta offensiva quando commessa per effetto dello stato d’ira, suscitato da altrui fatto ingiusto, è applicabile soltanto in riferimento al delitto di ingiuria previsto dall’art. 226 c.p.m.p., ossia per fatti non inerenti al servizio ed alla disciplina militari, situazione che non ricorre nella presente fattispecie.
3. Infine, si rileva che l’eventuale scorrettezza, doppiezza e maliziosità del comportamento della parte lesa, che pure traspare dagli atti, pur potendo assumere rilievo disciplinare e persino penale in riferimento alla pronuncia di espressioni pesantemente offensive in danno di alcuni superiori, citati nel corso del dialogo e diversi dal L. , potrà essere oggetto di considerazione nelle opportune sedi ed eventualmente all’atto della quantificazione del danno da risarcire, ma non consente di giustificare razionalmente e legalmente alla stregua della disciplina vigente un giudizio assolutorio.
4. Infine, reputasi del tutto irrilevante l’eventuale violazione da parte del D.L. delle disposizioni riguardanti l’impiego di materiale tecnico per la registrazione in contrasto con le prescrizioni militari, che anch’essa potrà costituire motivo di valutazione e di assunzione di iniziative punitive nelle sedi appropriate, ma non assume alcuna refluenza sulla ricostruzione della condotta penalmente rilevante, ascritta all’imputato.
La sentenza impugnata, per essere incorsa nella violazione dell’art. 196 c.p.m.p., comma 2, e per essere supportata da motivazione illogica, va annullata ai soli effetti civili con rinvio al giudice civile competente in grado di appello per un nuovo giudizio sulla domanda proposta dalla parte civile in esito al quale si provvederà eventualmente, anche sulle spese da questa sostenute.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

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