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Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 28 marzo 2014, n. 7410

Svolgimento del processo

Con sentenza del 14.7.2010, il Tribunale di Nuoro dichiarava la separazione dei coniugi A.T. (ricorrente nel 2005) e C.M., genitori di quattro figli, respingendo le reciproche domande di addebito; affidava, inoltre, le due figlie della coppia, ancora minorenni (F. e L. della rispettiva età di 16 e 14 anni nel Luglio 2010) alla madre, alla quale anche assegnava la casa coniugale, nonostante che il marito avesse locato l’immobile ad una società e che la moglie già da tempo vivesse stabilmente altrove con altro uomo; disponeva, ancora, che il M. contribuisse al mantenimento sia della moglie con la somma di € 5.000,00 mensili fino all’agosto 2008 e di € 2.000,00 mensili per il periodo successivo e sia delle due figlie versando al coniuge la somma di € 700,00 mensili per ciascuna di loro.
Avverso la sentenza del Tribunale il M. proponeva appello, resistito dalla T., col gravame instando per la dichiarazione di addebito della separazione alla moglie, per l’affido a sé delle figlie minori con conseguente assegnazione della casa coniugale, per l’abolizione dell’assegno in favore della moglie e per la riduzione di quello per il mantenimento delle due figlie.
Con sentenza del 7.06-4.07.2011 la Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in parziale accoglimento del gravame, addebitava la separazione alla T., revocava l’assegnazione alla stessa dell’alloggio coniugale e l’assegno per il suo mantenimento nonché disponeva l’affido congiunto ai genitori delle due figlie minorenni, con collocazione delle medesime presso la madre, confermando nel resto l’impugnata sentenza e compensando integralmente le spese del secondo grado del giudizio.
La Corte rilevava e riteneva che:
– ai fini del chiesto addebito alla T. era rilevante accertare quale fosse stata l’epoca in cui si era concretata la crisi del matrimonio, escludendo da ogni indagine i gravi fatti posti in essere successivamente, quando la comunanza di vita tra i coniugi era già venuta a mancare;
– il primo Giudice aveva ritenuto che nell’anno 2003, anno da considerarsi cruciale, stante il manifestarsi della prima relazione extraconiugale della T., la crisi dal matrimonio fosse già in atto, ma tale valutazione non appariva esaurientemente motivata;
– tutti i testi escussi avevano indicato nell’anno 2004 quello in cui si erano manifestati i dissidi tra i coniugi, collocando in tale periodo l’abitudine degli stessi di dormire in camere separate. Non poteva, perciò, ritenersi la preesistenza della cessazione dell’affectio familiaris per il semplice fatto che i testi L. e S. avevano dichiarato che tra le parti esisteva “tensione” fin dall’anno 2003, posto che un dissidio non poteva coincidere con la vera crisi di coppia;
– era stato ammesso da entrambe le parti che tra la fine dell’anno 2002 e l’inizio del 2003 esse avevano concordato l’interruzione della gravidanza fino ad allora portata avanti dalla T. e non vi era prova che tale decisione fosse stata conseguenza di un contrasto tra i coniugi, mentre la gravidanza stessa denunziava la costanza di normali rapporti di coppia;
– doveva parimenti ritenersi accertato che la relazione tra la donna ed il R. era stata scoperta nel maggio del 2003, ma che era già in corso da un certo tempo. Su questo punto non poteva disattendersi la dichiarazione della teste M., di aver ricevuto a maggio 2003 la confidenza della T., circa l’esistenza di detta relazione, essendo deposizione confermata da quelle dei testi L., P. e A.. Il sospetto manifestato dal Tribunale circa l’attendibilità di tali testimonianze, in quanto provenienti da persone dipendenti dal M., non era condivisibile. Anzitutto il L., marito della sorella della T., non poteva considerarsi in posizione di subordinazione. Inoltre, risultava che il teste P. aveva interrotto nel 2003 il rapporto di lavoro con il M. e che era stato escusso in epoca successiva;
– le risultanze probatorie dimostravano perciò che fino ai primi mesi dell’anno 2003, non essendosi manifestati dissapori, non era in atto alcuna crisi coniugale e che nel maggio del medesimo anno si era accertato che la T. aveva da tempo iniziato una relazione con il R., amico del marito. La vicenda appariva anche gravemente ingiuriosa per il M., dal momento che in essa era stata coinvolta la teste M., cameriera al servizio della famiglia, che in occasione degli incontri clandestini era stata incaricata di controllare con la telecamera l’eventuale ritorno a casa del marito e di avvisare la T., che nel frattempo si trovava assieme al compagno nella camera da letto coniugale;
– così ricostruito il corso degli eventi, ossia in sintesi la normalità dei rapporti delle parti antecedenti al maggio 2003 e la scoperta della relazione in tale data, sarebbe spettato alla T. dimostrare di essere venuta meno all’obbligo di fedeltà in epoca in cui era già in atto la crisi coniugale, mentre invece al riguardo la stessa nulla aveva mai dedotto; conseguentemente la separazione doveva essere a lei addebitata;
– circa l’affido delle due figlie minorenni e però ormai prossime alla maggiore età, doveva privilegiarsi la volontà dalle stesse manifestata di essere affidate alla madre, posto anche che i cattivi precedenti dell’attuale compagno della T. non risultava che si fossero risolti in pregiudizio delle ragazze. D’altra parte, il M. risiedeva in un villaggio turistico sardo e non appariva giovevole agli interessi delle figlie trasferire la loro residenza da Roma in quel diverso luogo. Inoltre, non erano stati provati comportamenti materni contrari al benessere delle figlie e di contro, pur dando atto che il M. aveva avuto scontri (anche fisici) con altro figlio, ormai maggiorenne, non erano emersi a suo carico contegni contrari agli interessi delle figlie minori, tali da indurre ad affidarle esclusivamente alla madre. In riforma della sentenza appellata, appariva quindi, equo affidare le medesime figlie congiuntamente ai genitori, fissandone, però, la collocazione presso la madre;
– andava inoltre revocata l’assegnazione alla T. della casa coniugale, costituita da una villa con piscina sita in un prestigioso complesso edilizio in Roma, considerando non tanto che nel corso del giudizio era sopravvenuta una sentenza che aveva riconosciuto la proprietà dell’immobile in capo al solo M. e non a lei né che la stessa ormai viveva in altro lussuoso immobile in compagnia del nuovo compagno, quanto che si era accertato che ella, rientrata per breve tempo in possesso dell’immobile in contestazione, non lo aveva occupato con i figli, ma locato a terzi, per cui era evidente che non intendesse destinare il bene ad abitazione familiare, ma unicamente ricavare da esso un reddito;
– doveva inoltre escludersi l’assegno a favore della moglie e confermarsi invece, quello disposto a favore delle figlie delle parti.
Avverso questa sentenza la T. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi e notificato il 30.11-2.12.2011 al M., che il 9-10.01.2012 ha resistito con controricorso. Le parti hanno anche depositato memorie.

Motivi della decisione

A sostegno del ricorso la T. denunzia:
1. “Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – Art. 360 n. 5 c.p.c..”.
La ricorrente deduce i rubricati vizi motivazionali in riferimento allo statuito addebito a lei della separazione dal coniuge ed in particolare in relazione alle argomentazioni sottese alla conclusione che la crisi del rapporto coniugale era intervenuta non prima del maggio 2003. Assume al riguardo che i giudici d’appello hanno omesso di dare rilievo al comportamento del marito, il quale aveva reso la convivenza insopportabile a lei ed ai figli, tramite anche vessazioni, intimidazioni, continue liti, ossia contegni prepotenti e prevaricatori manifestatisi sin dai primi anni del matrimonio, i quali erano stati giustamente valorizzati dal tribunale ed in atti trovavano copiosi riscontri documentali. Sostiene ancora che le assunte deposizioni testimoniali provavano invece che il rapporto matrimoniale si era incrinato già da tempo anteriore al maggio 2003, che non si sarebbe dovuta attribuire decisiva rilevanza alle dichiarazioni rese dalla teste M. prive di ulteriori e seri riscontri, che non si sarebbe dovuto omettere di dare conto delle contestazioni da lei mosse in ordine all’inaccettabile contegno tenuto dal coniuge ed espungere le risultanze emerse in merito ai motivi d’insorgenza della crisi di coppia.
2. “Violazione di legge – Art. 360 n. 3 c.p.c. “.
Di nuovo con riguardo al disposto addebito a lei della separazione, la ricorrente si duole sia dell’accertata esistenza della sua relazione extraconiugale col R., sostenendo che essa certa non era e che comunque non presentava i necessari caratteri della stabilità e della continuità, e sia della mancata valutazione comparativa delle sue condotte con quelle tenute dal marito, dal carattere violento, irascibile e prepotente.
Conclusivamente assume che la ricostruzione complessiva della vicenda giudiziaria, ed il suo incredibile esito in secondo grado, fanno piuttosto ritenere, vista la evidente superficialità e sbrigatività delle stesse motivazioni rese, che l’intento della Corte sia stato dettato da un atteggiamento “moralista”, volto a condannarla e penalizzarla fortemente, dato che sul suo comportamento si è concentrato in via esclusiva il giudizio del Collegio, senza alcuna preventiva valutazione comparativa delle condotte e dei rispettivi comportamenti tenuti dai coniugi.
I primi due motivi del ricorso, suscettibili di esame unitario, non hanno pregio.
Prevalentemente le censure involte dai motivi in esame si risolvono in inammissibili, generici rilievi di errori valutativi in ordine agli elementi assunti, in parte pure carenti sotto il profilo dell’autosufficienza, in quanto non correlati ad ulteriori, specifiche, emerse risultanze istruttorie atte a confortarli, e, dunque, essenzialmente in critiche volte ad un diverso apprezzamento dei medesimi dati, non consentito in questa sede di legittimità. L’avversata statuizione di addebito della separazione appare, infatti, aderente al dettato normativo, oltre che logicamente e puntualmente argomentata col richiamo anche all’esito delle emerse prove pure testimoniali, irreprensibilmente riesaminate e rivalutate anche in rapporto alla specifica efficacia dei singoli mezzi nonché alla reciproca interferenza e complessiva valenza dimostrativa. D’altra parte non appare nemmeno imputabile ai giudici d’appello la mancata valutazione comparativa delle reciproche condotte dei due coniugi. La ricorrente, infatti, non ha né efficacemente contrastato il rilievo esaustivo dei giudici d’appello secondo cui non aveva fornito alcuna prova delle sue asserzioni sul punto né temporalmente contestualizzato la sua tesi. Nell’impugnata sentenza si è poi irreprensibilmente ed ulteriormente sottolineato che dall’indagine dovevano essere esclusi i gravi fatti successivi al momento in cui era emersa la compromissione del rapporto coniugale a causa dell’infedeltà della moglie, connotata da peculiare offensività per il marito. Inoltre, non essendo stato appellato dalla T. il diniego di addebito della separazione al M., da lei chiesto in ragione delle asserite intemperanze del coniuge, risalenti a periodo anche concomitante e precedente il maggio 2003, il giudicato interno a lui favorevole formatosi sul punto precludeva di rivalutare in contrario senso i medesimi contegni, anche rimasti privi di qualsiasi prova.
3. “Errata valutazione del quadro istruttorio – Affidamento delle figlie minori – Violazione di legge (art. 360 n. 3 c.p.c.) – Contraddittorietà della motivazione.” Censura la statuita riforma del regime di affidamento delle figlie, ossia l’attuata opzione per il loro affidamento congiunto in luogo di quello esclusivo a lei, stabilito dal Tribunale. La censura è inammissibile per sopravvenuto difetto d’interesse con riguardo alla figlia delle parti F. , divenuta nel frattempo maggiorenne, ed infondata invece relativamente all’altra figlia L., ormai anche lei a pochi mesi dal raggiungimento della maggiore età, dato che già in sé sconsiglierebbe la modifica del regime imposto dai giudici d’appello, regime peraltro ineccepibilmente aderente al dettato normativo che lo privilegia, ove non risulti contrario all’interesse del minore, come la Corte d’appello ha accertato con congrue e puntuali argomentazioni, solo genericamente contrastate dalla T. e non smentite da oggettive e decisive risultanze contrarie, considerando pure che i desideri espressi dalle figlie avevano trovato adeguata rispondenza nel disposto loro collocamento presso la madre.
4. “Sulla revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla moglie affidataria delle figlie minori. Violazione di legge (art. 360 n. 3 c.p.c.) – Motivazione contraddittoria (art. 360 n. 5 c.p.c.).”.
Il motivo è inammissibile, risolvendosi in generici rilievi di errori valutativi, non involgenti anche la ratio dell’impugnata decisione, secondo cui l’iniziativa assunta dalla T. nel breve tempo in cui era ritornata in possesso dell’immobile già adibito a casa coniugale, di locarlo a terzi, escludeva, dato anche il complessivo contesto, che l’assegnazione di esso da lei chiesta potesse assolvere alla sua funzione legale di tutela dell’interesse della prole al mantenimento dell’habitat familiare.
Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con condanna della soccombente T. al pagamento in favore del M. delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la T. al pagamento in favore del M. delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in € 3.500,00 per compenso ed in € 200,00 per esborsi, oltre agli accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 52, comma 5, del D.Lgs. n. 196 del 2003, in caso di diffusione della presente sentenza si devono omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.

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