La massima

Nell’ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti a effetto speciale, previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dai commi quarto e sesto dell’art. 416-bis cod. pen., si applica, ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non la regola generale di cui all’art. 63, comma quarto, cod. pen., bensì l’autonoma disciplina derogatoria di cui al citato sesto comma dell’art. 416-bis, che prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata ai sensi del precedente quarto comma.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

SENTENZA 26 giugno 2012, n.25231

Ritenuto in fatto

 

1. Con ordinanza del 6 luglio 2011 il Tribunale di Catania, costituito ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.; ha respinto l’appello proposto nell’interesse di S.G.P. avverso l’ordinanza del 28 aprile 2011 del G.i.p. del Tribunale di Catania, che aveva rigettato l’istanza di declaratoria di inefficacia della misura cautelare in atto per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare.

1.1. Il Tribunale premetteva che:

– l’appellante, che era sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere perché gravemente indiziato del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., aggravato ai sensi dei commi quarto e sesto dello stesso articolo, aveva avanzato in data 22 aprile 2011 istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare ai sensi degli artt. 278 e 303, comma 1, lett. b-bis, n. 2, cod. proc. pen.;

– l’istanza era fondata sul rilievo che, in caso di contestazione di reato con plurime circostanze aggravanti a effetto speciale, come nella specie, la pena, ai fini del calcolo della durata della custodia cautelare, doveva essere determinata, ai sensi degli artt. 278 cod. proc. pen. e 63, comma 4, cod. pen., considerando solo l’aumento di pena previsto per la circostanza più grave, aumentato fino a un terzo;

– secondo tale indicazione, considerando il massimo edittale previsto per l’associazione armata ai sensi dell’art. 416-bis, comma 4, cod. pen., pari ad anni quindici, e applicando l’aumento ulteriore di un terzo della pena, alla astratta ipotizzabilità della pena finale di anni venti di reclusione conseguiva che il termine massimo di durata della custodia cautelare – relativamente alla fase compresa tra l’emissione dell’ordinanza del 14 ottobre 2010, che aveva disposto il giudizio abbreviato, e la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado – era pari a sei mesi, ai sensi del richiamato art. 303, comma 1, lett. b-bis, n. 2, cod. proc. pen., e che tale termine, anche tenuto conto dei tredici giorni di sospensione per l’astensione degli avvocati dalle udienze, era scaduto il 28 aprile 2011;

– il G.i.p. adito aveva rigettato l’istanza ritenendo che il termine massimo per l’indicata fase sarebbe scaduto solo il 14 luglio 2011 (senza tener conto degli indicati giorni di sospensione), essendo pari a nove mesi, ai sensi dell’art. 303, comma 1, lett. b-bis, n. 3, cod. proc. pen., poiché la pena massima ipotizzabile, per il reato contestato era di anni ventidue è mesi sei, dovendo tenersi conto del trattamento sanzionatorio specificatamente disciplinato dall’art. 416-bis cod. pen., e quindi del massimo edittale previsto per l’associazione di stampo mafioso armata (da nove a quindici anni) e del massimo aumento di detta pena previsto per la contestata aggravante di cui al sesto comma (da un terzo alla metà).

1.2. Tanto premesso il Tribunale, a ragione della decisione, rilevava che, in coerenza con il pacifico approdo interpretativo di questa Corte circa i criteri di calcolo dei termini di custodia cautelare nel caso di contestazione del reato associativo aggravato, il calcolo della pena a tal fine doveva essere effettuato secondo i criteri stabiliti dallo stesso art. 416-bis cod. pen., aventi carattere speciale rispetto a quelli dettati in via generale dall’art. 63 cod. pen., e contenuto risolutivo di ogni profilo attinente al trattamento sanzionatorio nelle varie forme circostanziate previste.

Né, secondo il Tribunale, era pertinente il richiamo fatto dall’imputato ai principi affermati da questa Corte a Sezioni unite con sentenza del 1998 (ric. Vitrano), relativa alla diversa ipotesi di concorso di circostanze a effetto speciale aventi ‘autonomia sanzionatoria’, mentre derivava da mancata lettura del contenuto della sentenza n. 21233 del 2007 l’affermazione difensiva che il principio in essa affermato poteva trovare applicazione solo nel caso della contestazione di tutte e tre le circostanze aggravanti previste dall’art. 416-bis cod. pen., oltre a essere tale affermazione priva di logico fondamento giuridico, paradossale nelle immotivate conseguenze derivabili quanto ai criteri di calcolo della decorrenza dei termini di custodia cautelare, e non in linea con ulteriore intervento di questa Corte con sentenza n. 29770 del 2009, riferito, ai fini della determinazione della pena nel caso di concorso delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto e sesto dell’art. 416-bis cod. pen., alla disciplina derogatoria prevista in detta norma e non a quella generale di cui all’art. 63, comma 4, cod pen..

2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, S.G.P. , che ne chiede l’annullamento, con sua immediata liberazione, per intervenuta scadenza dei termini di custodia cautelare, sulla base di unico motivo con il quale denuncia violazione e/o erronea applicazione degli artt. 303, comma 1, lett. b-bis, n. 2, cod. proc. pen. e 416-bis, commi 4 e 6 cod. pen., in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), d) ed e), cod. proc. pen..

Il ricorrente, ricostruita la vicenda e richiamato il contenuto delle svolte censure e dei provvedimenti emessi dal G.i.p. e dal Tribunale, deduce che dal rilievo che le circostanze contemplate dall’art. 416-bis cod. pen. sono tutte ad effetto speciale derivano l’applicazione della regola posta dall’art. 63, comma 4, cod. pen., alla luce dell’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte del 1998, e la conseguenza che, per effetto del temperamento dettato dalla detta norma, il termine di durata massima della custodia cautelare deve essere riferito al tetto massimo di pena ipotizzatale, nella misura di anni venti.

La diversa opinione avallata da altre sentenze di questa Corte non può, ad avviso del ricorrente, essere condivisa per le differenze sussistenti tra la contestazione delle circostanze e tenuto conto della struttura concatenata delle tre aggravanti previste dall’art. 416-bis cod. pen., mentre la norma di portata generale è finalizzata a individuare un chiaro meccanismo di computo degli aumenti di pena e ad evitare eccessi sanzionatori conseguenti alla mera sommatoria di pene di specie diversa o autonomamente determinate, quando manca una contestuale disciplina del concorso delle aggravanti speciali.

3. All’udienza odierna il difensore del ricorrente ha chiesto, in subordine all’accoglimento del ricorso, la rimessione degli atti alle Sezioni unite penali per dirimere il già esistente contrasto giurisprudenziale.

All’esito della discussione si è data, quindi, lettura, dopo la deliberazione, del dispositivo riportato in calce alla presente sentenza.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è infondato in ogni sua deduzione.

2. Questa Corte ha costantemente affermato che nell’ipotesi di concorso t.a le circostanze aggravanti a effetto speciale, previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dai commi quarto e sesto dell’art. 416-bis cod. pen., si applica, ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non la regola generale di cui all’art. 63, comma quarto, cod. pen., bensì l’autonoma disciplina derogatoria di cui al citato sesto comma dell’art. 416-bis, che prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata ai sensi del precedente quarto comma, in particolare rilevandosi che ‘le regole dettate in via generale dall’art. 63, comma 4, cod. pen., non hanno ragione di essere evocate in tutti i casi in cui la questione circa l’entità della pena applicabile, derivante dal concorso di più circostanze aggravanti è diversamente risolta dal legislatore nell’ambito della singola fattispecie criminosa, così come avviene nell’art. 416-bis cod. pen.’, e rimarcandosi che detta norma ‘racchiude in sé e autonomamente disciplina ogni profilo attinente al trattamento sanzionatorio nella varie forme circostanziate contemplate’, ed espressamente prevede, in particolare, che ‘per effetto della previsione del comma 6 la pena stabilita nel comma 4 (quindici anni) è aumentata da un terzo alla metà’, così derogando alla norma generale (tra le altre, Sez. 6, n. 41233 del 24/10/2007, dep. 08/11/2007, Attardo e altro, Rv. 237671; Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, dep. 17/07/2009, Vernengo e altri, Rv. 244460).

2.1. L’affermazione di tale principio, che il Collegio condivide e riafferma, non ha prescisso dal coerente confronto sistematico con la disciplina normativa e con gli arresti giurisprudenziali di questa Corte, e in particolare con il caso esaminato dalla sentenza delle Sezioni unite n. 16 del 2008 (Sez. U, n. 16 dei 08/04/1998, dep. 11/06/1998, Vitrano e altro, Rv. 210709), che ha rilevato che, ai fini della determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare, nel caso concorrano più circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o circostanze ad effetto speciale, si deve tener conto, ai sensi dell’art. 63, comma 4, cod. pen., della pena stabilita per la circostanza più grave, aumentata di un terzo, e tale aumento costituisce cumulo giuridico delle ulteriori pene e limite legale dei relativi aumenti per le circostanze meno gravi del tipo già detto che mantengono la loro natura. Si è osservato che tale sentenza, che ha riguardato il rapporto tra la circostanza aggravante speciale di cui all’art. 628, comma 3, cod. pen. e quella comune e meno grave, ma “ad effetto speciale’ di cui all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, e che ha ritenuto applicabile il meccanismo di cui all’art. 63, comma 4, cod. proc. pen., conforta l’opzione interpretativa, poiché essa ha avuto cura di precisare che tale meccanismo si impone nei caso di concorso di circostanze che, per la loro natura, ‘interrompono il collegamento con la pena stabilita per il reato cui accedono’ e, per la loro autonomia sanzionatola, non hanno una base sulla quale apportare gli aumenti successivi.

3. Di tali principi il Tribunale ha fatto esatta interpretazione e corretta applicazione, adeguatamente illustrando che l’ipotesi tipica contemplata dall’art. 416-bis cod. pen., con le previste aggravanti di cui ai commi quarto e sesto, integra una fattispecie aggravata a effetto speciale per essere per essa contemplata una pena determinando in modo indipendente dalla pena del reato base, e rendendo risposte logiche ed esaustive alle deduzioni difensive, che da un lato avevano operato un improprio richiamo, a proprio conforto, alla sentenza a Sezioni unite del 1998 relativa ad un caso differente, come già rilevato in questa sede di legittimità, e dall’altro avevano fornito una infondata interpretazione della sentenza di questa Corte n. 41233 del 2007 (prima richiamata), ravvisando una insussistente necessità di concatenazione cumulativa di tutte le circostanze aggravanti ad effetto speciale, previste dall’art. 416-bis cod. pen. (commi 2, 4 e 6), per l’applicazione della ritenuta disciplina speciale, non affermata con la sentenza, priva di alcun fondamento giuridico e irragionevole per le conseguenze derivabili a seconda della contestazione all’indagato dei ruolo di promotore o di semplice appartenente alla medesima associazione mafiosa.

3.1. Alla stregua di tali considerazioni, alle quali il ricorrente oppone le stesse deduzioni, già esaustivamente esaminate e valutate, e che rendono inaccoglibile, in mancanza di contrasto interpretativo, la richiesta di rimessione degli atti all’esame delle Sezioni unite, deve ritenersi che, ai fini della individuazione del termine massimo della custodia cautelare, si applicano le disposizioni richiamate dal Tribunale, che ha tenuto conto della fattispecie di cui all’art. 416-bis, cos. pen., doppiamente aggravata, e quindi di una pena superiore ad anni venti, cui corrisponde un termine di fase di nove mesi, non decorso al momento della presentazione della istanza di scarcerazione.

4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

Al rigetto del ricorso segue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La Cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al Direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..

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