cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 26 febbraio 2015, n. 8569

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORTESE Arturo – Presidente
Dott. CAIAZZO Luigi Pietro – Consigliere
Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere
Dott. ROCCHI Giacomo – rel. Consigliere
Dott. BONI Monica – Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

nei confronti di:

(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 7297/2013 GIUD. SORVEGLIANZA di VENEZIA, del 06/02/2014;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI;

lette le conclusioni del PG Dr. CANEVELLI Paolo, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 6/2/2014, il Magistrato di Sorveglianza di Venezia, all’esito della procedura prevista dall’articolo 35 bis ord. pen. cosi’ come introdotto dal Decreto Legge n. 146 del 2013, provvedendo sul reclamo avanzato da (OMISSIS), rigettava l’istanza di assegnazione ad una cella avente uno spazio individuale di almeno 7 metri quadrati, ma disponeva che il richiedente fosse collocato nell’attualita’, ma anche nel prosieguo della detenzione, presso una stanza di pernottamento avente una superficie calpestabile media pro-capite non inferiore a 3 metri quadrati; rigettava nel resto il ricorso, ritenuto infondato.
Il detenuto aveva chiesto di essere assegnato ad una cella nella quale godere di uno spazio individuale di almeno 7 metri quadrati, con servizi igienici separati, e di essere autorizzato a permanere fuori dalla propria cella per almeno otto ore al giorno.
Il Magistrato riteneva infondata l’eccezione di illegittimita’ costituzionale della nuova normativa sollevata dal Ministro della Giustizia; con riferimento alla questione dello spazio minimo riservato ad ogni detenuto – da interpretarsi come spazio minimo di fruibilita’ di una superficie collettivamente goduta, in caso di stanza di pernottamento a piu’ posti, ovvero come spazio minimo vitale, nel caso di cella singola occupata da un solo detenuto – il magistrato richiamava la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo secondo cui, al di sotto di una certa metratura, individuata in mq. 3, la detenzione deve essere considerata trattamento inumano e degradante.
Nel caso di specie, lo spazio minimo riservato al detenuto era inferiore a 3 metri quadrati: in effetti, tale spazio doveva essere calcolato al netto del mobilio presente; le altre questioni sollevate dal detenuto in ordine alle caratteristiche della cella e alla possibilita’ di restare per alcune ore fuori dalla cella erano ritenute infondate.
Di conseguenza, in forza dell’articolo 69, comma 5, ord. pen., il Magistrato di Sorveglianza impartiva all’Amministrazione Penitenziaria l’ordine di non allocare il reclamante in celle avente una superficie calpestabile media pro capite non inferiore a 3 metri quadrati.
2. Ricorre per cassazione il Ministro della Giustizia, deducendo violazione degli articoli 3 e 46 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, 6 ord. pen. nonche’ all. C d.P.R. 138 del 1998.
Il ricorrente contesta che il limite minimo di 3 mq come spazio pro’ capite all’interno della cella debba essere conteggiato al netto della superficie occupata dal mobilio, richiamando la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 5 marzo 2013, Tellissi contro Italia, che l’aveva conteggiata al lordo, includendo sia la superficie degli arredi, sia quella del locale adibito a bagno, trattandosi di spazi comunque fruibili dal detenuto e dei quali, in assenza di apposita previsione normativa, non e’ possibile prescindere.
La Corte Europea ha stabilito tale principio di diritto per la prima volta in maniera esplicita proprio con tale sentenza.
Il ricorrente ricorda che spetta alla legislazione nazionale definire le condizioni minime e sottolinea che il citato Decreto del Presidente della Repubblica n. 138 del 1998 fa riferimento alla superficie lorda, e non a quella netta.
In un secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge in punto di omessa statuizione sulla richiesta, formulata dalla difesa erariale, di condanna alle spese di lite e degli onorari della difesa. Il Magistrato di Sorveglianza aveva ritenuto di non poter pronunciare sulla domanda, atteso che si trattava di procedimento penale camerale latu sensu riconducibile a quello di esecuzione.
Secondo il ricorrente, il principio della soccombenza doveva invece essere applicato. Il reclamo era di carattere giurisdizionale e la pretesa del detenuto aveva sicuramente natura patrimoniale, non solo in considerazione della possibilita’, per l’Amministrazione della Giustizia, di essere condannata – anche se in un secondo momento – al pagamento di somme di denaro, ma anche in relazione alla competenza riconosciuta al giudice di assicurare ottemperanza ai suoi provvedimenti, indicando alla parte che li deve attuare modalita’ e tempi di adempimento. Secondo il ricorrente, deve pertanto trovare applicazione la regolamentazione di cui all’articolo 90 c.p.c. e ss. e, in base all’articolo 158 Testo Unico spese di giustizia, il soccombente deve essere condannato al pagamento delle spese prenotate a debito, cosi’ come previsto quando parte e’ un’Amministrazione pubblica.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
3. Il Procuratore generale, nella requisitoria scritta, conclude per il rigetto del ricorso.
4. Con successiva memoria il ricorrente ha ripreso e sviluppato il primo motivo di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ inammissibile per le ragioni che seguono. Come presupposto anche dal ricorrente, il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza e’ ammesso solo per violazione di legge: l’articolo 236 disp. coord. c.p.p., comma 2, che esclude l’applicazione del capo 2 bis dell’ordinamento penitenziario “nelle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza”, non reca alcun riferimento alle materie di competenza del Magistrato di sorveglianza. Di conseguenza per dette materie trova applicazione la Legge n. 354 del 1975, articolo 71 ter che limita il ricorso per cassazione alla violazione di legge (Sez. 1, n. 25468 del 05/06/2012 – dep. 28/06/2012, Slimani, Rv. 253040) che, come noto, in relazione alla motivazione si realizza solo in caso di motivazione inesistente o meramente apparente.
Ora, sul piano formale nessuna norma stabilisce con precisione lo spazio vitale minimo al di sotto del quale sussiste un trattamento penitenziario inumano: ne’ l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che si limita a vietare “pene o trattamenti inumani o degradanti”, ne’ l’articolo 27 Cost., comma 2, che stabilisce anch’esso che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita’”, ne’, infine, la Legge n. 354 del 1975, articolo 6, in base al quale “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente …” e “i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o piu’ posti”; una dimensione minima non e’ specificamente indicata nemmeno in sede regolamentare.
Piuttosto esiste una elaborazione giurisprudenziale da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha indicato alcuni canoni e standard di riferimento, individuando in particolare, il limite di 3 mq. quale spazio minimo vitale inderogabile pro’ capite (v. sentenze Sulejmanovic e Torreggiani c. Italia).
In questo quadro la valutazione in concreto operata dal Magistrato di Sorveglianza al fine di verificare se la carcerazione – in base alle indicazioni della Corte EDU – possa ritenersi svolta in spazi cosi’ ristretti da violare il divieto di pene inumane e degradanti, laddove sia ritenuto violato tale divieto in relazione ad uno spazio disponibile per persona inferiore al limite dei 3 mq., tanto piu’ se calcolato (conformemente alla indicazione di un passaggio della sentenza “pilota” Torreggiani) al netto dell’ingombro costituito da letto, armadio e lavabo, non e’ certamente incorsa in un caso di assenza o apparenza della motivazione.
Non sussiste, quindi, alcuna violazione di legge (v. in senso conforme, Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014).
Manifestamente infondato e’ il motivo di ricorso concernente la condanna alle spese, sia per le considerazioni svolte dal Magistrato di Sorveglianza circa la riconducibilita’ del procedimento camerale de quo a quello di esecuzione, sia perche’, nel caso di specie, parte delle rimostranze avanzate dal detenuto erano state, in sostanza, accolte.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso

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