Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza  22 novembre 2013, n. 26204

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello di Roma, sezione minorenni, confermando la pronuncia di primo grado dichiarava lo stato di adottabilità di D..M.K. , figlio di M.K.T. . Il minore risultava essere stato affidato e coolocato fin dalla nascita presso la comunità “(omissis)” in considerazione delle condizioni di salute della madre sulla quale erano state riscontrate gravi lesioni cerebrali. Venivano contattati i familiari e i parenti residenti in … e si constatava che uno zio materno si dichiarava disponibile a prendere con sé la nipote e suo figlio in …. Quest’ultimo dopo essersi recato presso la nipote ed aver effettuate alcune visite al minore e a sua madre ripartiva per il …, senza confermare la volontà in precedenza espressa. Il Tribunale per i minorenni, persistendo gravi condizioni di salute della madre e constatate notevoli difficoltà da parte della madre nell’instaurare un proficuo rapporto con il minore ne dichiarava l’adottabilità, tenuto conto dell’incapacità materna a cogliere le problematiche ed il ritardo evolutivo del minore. Veniva proposto appello avverso questa pronuncia e la Corte, a sostegno del rigetto dell’impugnazione affermava,dopo aver svolto consulenza tecnica d’ufficio:
– le capacità fisiche dell’appellante non le consentivano di occuparsi da sola del bambino e le possibilità di miglioramento erano modeste;
– le difficoltà cognitive e di controllo dovute al danno cerebrale del sistema nervoso centrale determinavano nell’appellante un’elevata carica impulsiva non gestita dalla sfera cognitiva oltre ad un’affettività labile ed immatura caratterizzata principalmente dalla scarica emotiva e non dalla ricerca di un legame; l’appellante dimostrava incapacità a comprendere i bisogni psico affettivi del bambino considerandolo un prolungamento di sé senza chiara distinzione tra i propri e gli altrui bisogni;
– la mancata diretta osservazione dei rapporti tra madre e figlio da parte del CTU non aveva rilievo tenuto conto, da un lato dell’avanzato stato d’inserimento del medesimo nel nucleo affidatario, e dall’altro della convergenza tra le conclusioni delle relazioni della casa famiglia e la diagnosi clinica;
– la mancanza di un mediatore culturale in sede di CTU non poteva dirsi rilevante essendo l’appellante in grado di capire il significato delle domande che le venivano poste, tanto più che all’esame era presente un familiare in grado di comprendere la lingua italiana;
– La mancanza d’indicazioni, provenienti dal mediatore, riguardanti le potenzialità del gruppo di appartenenza nel recuperare un’autentica e profonda integrazione tra madre e minore erano del tutto superabili in considerazione del fatto che il CTU aveva osservato che le difficoltà non erano di ordine culturale ma erano legate alla condizione fisiopsichica della donna, essendo indiscusso il suo attaccamento al figlio;
– L’esclusione di una strada diversa, caratterizzata dall’affidamento e da una forma di adozione mite che salvaguardasse la possibilità d’incontro tra madre e minore era stata determinata dall’assenza di una figura paterna e dalla circostanza che lo zio materno aveva comunque condizionato il suo sostegno al rientro in …;
– In ordine a questa prospettiva, le differenze relative alla appartenenza familiare ed i legami tra membri del gruppo in Italia ed in Kenia, in assenza di certezze sulla sostenibilità e permanenza delle risorse necessarie, inducevano a ritenere preferibile l’inserimento del minore in una nuova famiglia come stava già avvenendo;
– Lo zio materno, infine, pur rientrando nella cerchia dei parenti che vanno considerati al fine di escludere lo stato di abbandono, non aveva autonomamente impugnato la sentenza del tribunale per i minorenni, ponendosi più come un aiuto che come affidatario del minore, sula base di una concezione della famiglia propria del paese di appartenenza, ritenuta meno favorevole per un corretto ed adeguato sviluppo del minore.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la K. , affidandosi a cinque motivi. Hanno resistito con controricorso il curatore speciale del minore ed il Sindaco del Comune di Roma, in qualità di tutore provvisorio del medesimo.

Motivi della decisione

1. Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 8 della legge n. 184 del 1983 nonché degli art. 2 e 3 della Costituzione e degli art. 3,5,7,18,29 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 ratificata con l. 176 del 1991, per avere la Corte d’Appello disatteso il principio fondamentale secondo il quale il minore ha il diritto di crescere di essere allevato in seno alla sua famiglia, dovendosi attivare tutte le risorse per aiutare la famiglia naturale e favorire i legami i sangue. In particolare, secondo la parte ricorrente la sentenza impugnata non ha tenuto conto degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità secondo i quali deve preferirsi la crescita del minore nella propria famiglia di origine e, di conseguenza, alla dichiarazione di adottabilità può pervenirsi solo quando, dopo aver sperimentato adeguati interventi di sostegno da parte dei servizi sociali e constatato l’impossibilità d’inserimento presso i prossimi congiunti, si accerti tale impossibilità. Nel caso di specie il rapporto madre-figlio è stato immediatamente interrotto non per cause attribuibili alla ricorrente ma per impedimento dovuto a malattia, la quale non può essere sintomo d’inadeguatezza. Lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità non può essere dichiarata quando la mancanza di assistenza sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio, come è accaduto nel caso di specie. La ricorrente non ha mai inteso abbandonare il figlio né ha dimostrato di tenere comportamenti pregiudizievoli nei confronti del minore. La lieve limitazione all’arto superiore destro non può essere la causa della valutazione d’incapacità ed inadeguatezza genitoriale.
Inoltre, nella specie, è stato violato il principio fondamentale del diritto di difesa del minore, sancito dall’art. 8 comma quarto della l. n. 184 del 1983, secondo il quale il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dall’apertura con l’assistenza legale del minore. Tale necessità, non può essere soddisfatta con la nomina di un curatore speciale che ha solo la rappresentanza in giudizio ma non ne cura la difesa, ben potendo trovarsi in conflitto con il minore medesimo.
Nel secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione sul fatto controverso e decisivo riguardante lo stato di abbandono del minore e l’incapacità genitoriale della madre, in quanto la Corte d’Appello si è limitata a scegliere per il minore, una situazione familiare ritenuta migliore, con una valutazione fondata sul maggiore apprezzamento dello stile monofamiliare Europeo, rispetto alla cultura di appartenenza della ricorrente. Tale valutazione si è fondata su apprezzamenti provenienti dalla consulenza tecnica non condivisibili e non pertinenti all’oggetto dell’indagine.
In conclusione la dichiarazione di adottabilità si è fondata, sostanzialmente sul nuovo presunto forte legame tra il minore alla famiglia affidataria presso la quale, tuttavia, quest’ultimo è stato collocato solo in via temporanea ai sensi dell’art. 10, comma terzo, della l. n. 184 del 1983 così come modificata dalla l. n. 149 del 2001. Secondo la parte ricorrente in questa valutazione si può riscontrare una violazione della legge sull’adozione dal momento che un istituto destinato ad una soluzione provvisoria diventa un elemento illegittimamente decisivo ai fini del riscontro della condizione di abbandono.
Nel terzo motivo di ricorso viene censurata la violazione degli artt. 12 e 15 della l. n. 184 del 1983 nella parte in cui si sancisce che quando vi siano parenti fino al quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore, questi debbano comparire in giudizio e se sono residenti all’estero debba essere delegata l’autorità consolare e che la sentenza debba essere loro notificata. La Corte d’Appello ha omesso tali adempimenti e, di conseguenza, non ha vagliato l’esistenza di misure alternative alla dichiarazione di adottabilità. Nello specie lo zio materno aveva manifestato la propria disponibilità ad occuparsi del minore ed aveva richiesto ed ottenuto al riguardo la possibilità di frequentare il minore durante la permanenza in Italia, mentre quest’ultimo era ospitato in casa famiglia con la madre.
Nel quarto motivo la medesima censura viene formulata sotto il profilo del vizio di motivazione per avere la Corte d’Appello escluso lo zio materno dal novero dei parenti che avrebbero potuto occuparsi del minore sul rilievo che quest’ultimo non avrebbe impugnato in proprio la sentenza del tribunale per i minorenni, pur non essendo previsto a suo carico tale onere dalla legge. Peraltro la sentenza di primo grado non gli è stata mai notificata, né gli è stato concesso un termine per costituirsi.
Nel quinto motivo di ricorso viene dedotta l’illegittimità costituzionale della l. n. 184 del 1983 in relazione agli art. 2 e 24 Cost. per non aver previsto la obbligatoria partecipazione del mediatore culturale e dell’interprete nel procedimento volto alla dichiarazione dello stato di abbandono e adottabilità quando siano coinvolti cittadini stranieri non comunitari. Tale figura consentirebbe di mettere in grado il giudice di conoscere la cultura e i modelli di familiari di riferimento al fine di una valutazione il più possibile oggettiva.
2. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di nullità della sentenza impugnata per la mancanza della nomina officiosa di un legale del minore, contenuta nell’ultima parte del primo motivo di ricorso.
La Corte di Cassazione con orientamento costante ha stabilito che “In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all’accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l’assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico”. (Cass. 3804 del 2010). Alla luce dei principi sopra esposti, l’esigenza di garantire al minore l’esercizio autonomo del diritto di difesa in caso di potenziale conflitto d’interesse con il proprio od i propri genitori, viene assicurata dalla nomina del curatore speciale, quando non sia stato già nominato un rappresentante legale. Il principio, confermato nelle pronunce successive, è stato esaurientemente chiarito nella pronuncia n.7281 del 2010 secondo la quale, in mancanza della nomina di un tutore al momento dell’apertura del procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità e, verificatasi in re ipsa una situazione di conflitto d’interessi con i genitori biologici, “sia le disposizioni degli art. 15 c.p.c., comma 2 e art. 18 c.p.c., comma 2, quanto i principi costituzionali in tema di protezione dell’infanzia, di giusto processo e di diritto di difesa nonché i principi generali sia della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989 (artt. 1, 3, 9 e 12), ratificata e resa esecutiva con la L. 21 maggio 1991, n. 116, e sia della Convenzione Europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con la L. 20 marzo 2003, n. 11 (artt. 1, 2, 3, 4, 9 e 14), rendono indubitabile la nomina di un curatore speciale, affinché l’interessato sia autonomamente rappresentato in giudizio e tutelato nei suoi preminenti interessi e diritti in funzione dei quali il procedimento si era aperto”. Il principio ha avuto integrale conferma nella successiva pronuncia n. 12290 del 2010. Ne consegue la piena idoneità della nomina del curatore speciale ad integrare il diritto all’assistenza legale del minore previsto dal citato art. 8 l. n. 184 del 1983.
3. In ordine di priorità logica, deve essere disattesa la dedotta eccezione d’illegittimità costituzionale delle norme che regolano il procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità per non aver previsto in caso di genitori stranieri la nomina necessaria di un mediatore culturale o di un interprete. Al riguardo è sufficiente osservare che la necessità costituzionale e convenzionale (art. 10, secondo comma, e 24 Cost. artt. 3, 9, 12, 14, 18, 21 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge 27 maggio 1991 n. 176; artt. 9 e 10 della Convenzione Europea sui diritti del fanciullo, conclusa a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con legge 2 marzo 2003, n. 77; art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) della difesa tecnica in favore dei genitori, prevista dall’art. 8, ultimo comma, l. n. 184 del 1983, unita alla prescrizione normativa della nomina di un interprete nell’ipotesi di non comprensione e conoscenza della lingua italiana (art.122 cod. proc. civ.) costituiscono strumenti costituzionalmente adeguati al fine di porre le parti del procedimento in oggetto nella condizione di tutelare i propri interessi nel giudizio. Inoltre la facoltà del giudice di richiedere un’indagine tecnica al fine di integrare mediante contributi provenienti da diverse discipline gli elementi di giudizio necessari, completano il quadro attuativo dei principi del giusto processo nel procedimento in questione. Nell’ipotesi in cui si ritenga, come sostenuto nel caso di specie dalla parte ricorrente, che il giudizio sull’idoneità sia culturalmente orientato da un disvalore verso modelli familiari non “occidentali”, la nomina di consulenti di parte e, come avvenuto, la diretta contestazione dell’erroneità e parzialità della valutazione comparativa svolta nella sentenza impugnata, escludono qualsiasi vulnus al diritto di difesa. Va osservato, infine, che la ricorrente è stata posta in grado di comprendere anche con l’ausilio di terzi da lei prescelti, le scansioni del procedimento.
4. Rivolti a censurare la validità della pronuncia impugnata sono anche il terzo ed il quarto motivo, nella parte in cui affermano rispettivamente la necessità della nomina di un difensore d’ufficio in primo grado per lo zio materno della ricorrente, comparso in tale fase di giudizio e ne denunciano la illegittima mancata notificazione della pronuncia di primo grado. Le censure, formulate per la prima volta nel presente grado di giudizio devono essere ritenute tardive, dal momento che l’invalidità dedotta non ha ad oggetto un’ipotesi di litisconsorzio necessario predeterminata in via generale ed astratta dalla norma ma il diritto alla partecipazione al giudizio, in mancanza dei genitori, dei parenti entro il quarto grado, “che abbiano rapporti significativi con il minore” (art. 10, secondo comma, e 12, primo comma, l. n. 184 del 1983), Ne consegue che, se, come nella specie, la valutazione del giudice di primo grado sia stata negativa all’esito dell’audizione e non sia stato nominato un difensore d’ufficio o concesso un termine per munirsi di un legale di fiducia, la dedotta lesione del diritto di difesa può astrattamente determinare soltanto una nullità della sentenza di primo grado che deve essere oggetto di specifica impugnazione. Al riguardo la giurisprudenza di questa sezione con orientamento fermo (ex multis Cass. 1840 del 2011) ha affermato che l’audizione dei predetti parenti è doverosa solo se risulti un significativo rapporto con il minore. Ne consegue che deve escludersi nella specie una nullità processuale rilevabile in ogni stato e grado del giudizio ai sensi degli artt. 102 e 354 cod. proc. civ., dal momento che l’audizione e la partecipazione dei parenti fino al quarto grado è condizionata dalla sussistenza di una condizione soggettiva da verificarsi caso per caso. Peraltro, l’art. 10, secondo comma sopra citato e l’art. 12 espressamente richiedono la partecipazione in senso tecnico in giudizio dei parenti predetti soltanto “in mancanza” dei genitori. Nella specie, la ricorrente, genitore del minore è sempre stata parte del giudizio, con conseguente non necessità di una concorrente partecipazione processuale dello zio materno, opportunamente contattato, messo in condizione di essere ascoltato prima dai servizi sociali e successivamente dal giudice di primo grado.
5. Rimangono da esaminare i primi due motivi del ricorso, correlati con il quarto, nella parte in cui viene contestata, sotto il profilo sostanziale, la mancata considerazione del sostegno offerto dallo zio materno alla ricorrente.
L’art. 1 della l. n. 184 del 1983 contiene due decisive affermazioni di principio al primo ed all’ultimo comma. Nel primo comma è stabilito il diritto del minore di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia, nell’ultimo che tale diritto è assicurato senza distinzione di sesso, etnia, età, lingua religione e nel rispetto dell’identità culturale del minore.
Nel successivo art. 8 viene indicato il limite alla capacità espansiva del diritto sopra indicato mediante la qualificazione giuridica rigorosa della condizione di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità. Sono in stato di abbandono, secondo la norma, i minori privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio.
La giurisprudenza di legittimità ha costantemente ritenuto che la forte valorizzazione del legame del minore con la famiglia di origine ed il richiamo alla necessità d’intervento e di sostegno al fine di rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’equilibrato sviluppo di tale rapporto, contenuti nel citato art. 1, impongano un particolare rigore (Cass.10126 del 2005) nella valutazione dello stato d’abbandono. Tale valutazione, secondo la Corte “non può discendere da un mero apprezzamento circa la inidoneità dei genitori (o congiunti) del minore cui non si accompagni l’ulteriore, positivo accertamento che tale inidoneità abbia provocato, o possa provocare, danni gravi ed irreversibili alla equilibrata crescita dell’interessato, dovendo, invece, la valutazione di cui si tratta necessariamente basarsi su di una reale, obiettiva situazione esistente in atto, nella quale soltanto vanno individuate, e rigorosamente accertate e provate, le gravi ragioni che, impedendo al nucleo familiare di origine di garantire una normale crescita, ed adeguati riferimenti educativi, al minore, ne giustifichino la sottrazione allo stesso nucleo“. (Cass.8877 del 2006; 15011 del 2006;11019 del 2006). La situazione deve essere accertata in concreto sulla base di riscontri obiettivi, non potendo essere rimessa ad una valutazione astratta, “compiuta ex antea, alla stregua di un giudizio prognostico fondato su indizi privi di valenza assoluta“.

Ne consegue che in linea prioritaria, quando si verifichi una situazione di disagio che possa compromettere la crescita e lo sviluppo psico fisico equilibrato del minore il compito dei servizi sociali “non sia solo quello di rilevare le insufficienze in atto del nucleo familiare, ma, soprattutto, di concorrere, con interventi di sostegno, a rimuoverle, ove possibile, e che, per altro verso, ricorre la situazione di abbandono sia in caso di rifiuto ostinato a collaborare con i servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico cosicché la rescissione del legame familiare è l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva. (Cass. 7115 del 2011). Ulteriore elemento di valutazione ma non in ordine d’importanza è la necessità che la situazione critica non dipenda da causa di forza maggiore ovvero da “un ostacolo esterno posto dalla natura, dall’ambiente, da un terzo che s’impone alla volontà del genitore” (Cass.9949 del 2012) di carattere transitorio. La transitorietà deve, tuttavia, essere correlata alle esigenze di sviluppo del minore. L’esistenza di patologie fisiche o psichiche a carico dei genitori non costituisce di per sé un fattore inequivocamente rivolto ad integrare la condizione di abbandono, essendo stato confermato di recente dalla giurisprudenza di questa sezione che tale positivo accertamento “non può fondarsi di per sé su anomalie non gravi del carattere e della personalità dei genitori, comprese eventuali condizioni patologiche di natura mentale, che non compromettano la capacità di allevare ed educare i figli senza danni irreversibili per il relativo sviluppo ed equilibrio psichico“. (Cass. 18563 del 2012).
I parametri di valutazione della situazione di abbandono sulla quale fondare la dichiarazione di adottabilità, elaborati dalla giurisprudenza di legittimità possono, in conclusione, essere sinteticamente individuati:

a) nel netto favor per la crescita del minore nella propria famiglia;

b) nella verifica dell’apprestamento di servizi e strumenti di sostegno al fine di rimuovere o migliorare la situazione di criticità della famiglia del minore; c) nella rigorosa valutazione dell’impossibilità di prestare assistenza materiale e morale al minore al fine di escluderne la transitorietà, e la riconducibilità a fattori causali derivanti da forza maggiore in modo da acquisire la certezza della continuità, stabilità, definitività delle condizioni obiettive e soggettive accertate, anche alla luce della mancata risposta o del rifiuto di accettare gli interventi di sostegno provenienti dai servizi territoriali;

d) nell’esigenza di non considerare in astratto l’interesse del minore ma di collegarlo anche in funzione di bilanciamento, con quello dei genitori a conservare il legame filiale, ove tale scelta non determini danni irreversibili nello sviluppo psicofisico del minore medesimo.

La sentenza impugnata non sembra aver tenuto conto delle rigorose indicazioni provenienti dagli orientamenti illustrati. Le ragioni che hanno indotto la Corte d’Appello di Roma a riconoscere l’esistenza della condizione di abbandono del minore sono: a) la stabilizzazione di una condizione di parziale inabilità; b) un deficit cognitivo collegato alla patologia insorta con il parto; c) “un’affettività labile ed immatura caratterizzata dalla scarica emotiva e non dalla ricerca di un legame” (…) un rapporto caratterizzato da “movimenti impacciati (…) da un’ inadeguatezza emotiva nello scambio con il figlio”, dall’incapacità di coglierne gli stati soggettivi ed i bisogni psicoaffettivi; d) la migliore condizione di vita del minore presso la famiglia affidataria, sia con riferimento all’attualità, sia sulla base di un giudizio prognostico futuro potendo quest’ultimo con l’adozione contare su entrambe le figure genitoriali e non solo sulla madre e su un sostegno proveniente dallo zio materno, tenuto anche conto della concezione della famiglia del paese di appartenenza della ricorrente.
Deve osservarsi che la valutazione della Corte d’Appello si fonda sull’integrazione di tutti i fattori sopra indicati, in quanto confluenti verso un giudizio comparativo finale rivolto verso la soluzione più favorevole alla realizzazione dell’interesse del minore. Tuttavia, l’esame analitico dei predetti fattori, da qualificarsi tutti ugualmente decisivi ai fini dell’individuazione dei requisiti della condizione di abbandono, pone in evidenza sia il mancato rispetto sostanziale dei parametri indicati dagli artt. 1 e 8 della l. n. 184 del 1983 sia l’insufficiente percorso motivazionale che ha condotto alla valutazione finale. Le condizioni fisiche della ricorrente sono solo genericamente indicate. Non è comprensibile né la localizzazione dell’invalidità parziale (dall’esame degli atti difensivi si desume sia l’arto superiore destro) né il grado di limitazione funzionale. Non può, di conseguenza, essere valutabile in che misura tale condizione, del tutto non imputabile alla ricorrente, in quanto conseguente ad una patologia insorta con il parto e largamente migliorata con il tempo, incida sull’impossibilità di provvedere ai bisogni morali e materiali del figlio minori. Le condizioni neurologiche e cognitive sono del pari solo genericamente indicate senza alcuna distinzione dell’eziologia e delle conseguenze da esse provenienti. Per quanto riguarda la negativa valutazione della situazione relazionale sia sul piano affettivo che su quello della capacità di comprendere i bisogni del minore, deve osservarsi che essa si rivela carente per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo perché non si fonda su un esame attuale della relazione madre figlio, non effettuata neanche in sede di consulenza tecnica d’ufficio per non turbare l’equilibrio di vita attuale del minore nella famiglia affidataria. In secondo luogo perché non tiene conto della peculiare condizione della ricorrente, separata dalla nascita dal figlio minore per causa ad essa non imputabile e, conseguentemente, obbligata dalle circostanze ad una condizione d’incontro e scambio con il figlio precaria e presumibilmente tensiva, non dovendosi ignorare che gli incontri sono avvenuti e sono stati osservati in una fase di non definitiva stabilizzazione della situazione di salute della ricorrente. L’assenza di coerenza temporale nella valutazione della relazione madre figlio, desunta “de relato” da osservazioni pregresse e la mancata valutazione dell’incidenza della grave situazione verificatasi alla nascita del minore, caratterizzata dall’immediata separazione con la madre, hanno determinato una conclusione sulla condizione di abbandono carente perché non fondata sul rigoroso esame di tutti i criteri che compongono il parametro normativo di cui agli artt. 1 e 8 l. n. 184 del 1983. In particolare, risulta lacunoso il percorso logico motivazionale che ha condotto ad un giudizio di definitività ed irreversibilità dell’incapacità ed inidoneità materna, anche in correlazione con le misure di sostegno attivate nella specie. Inoltre, pur dovendosi dare preminenza all’interesse del minore ad una crescita equilibrata e serena, la condizione soggettiva ed oggettiva del genitore e la sua idoneità non deve essere valutata alla stregua di un giudizio comparativo con la famiglia collocataria. Il procedimento di adottabilità non può che sorgere da una condizione difficile di esercizio della genitorialità da valutare non mediante il confronto con una soluzione alternativa concreta, quale quella della collocazione temporanea, prevedibilmente non problematica, ma esclusivamente sulla base di un giudizio prognostico, di natura definitiva, relativo alla possibilità od impossibilità per il genitore sub judice di del prestare “assistenza materiale e morale” (art. 8 l. n. 184 del 1983) al minore, con riferimento alle sue condizioni personali, di salute, economiche e culturali. Il risalto dato alla collocazione attuale, peraltro caratterizzata da una interruzione completa della relazione tra il minore e la madre, comporta l’inserimento di un elemento di comparazione non previsto dal parametro normativo ed una valutazione dell’interesse del minore compiuta prevalentemente considerando le migliori condizioni di vita e le maggiori opportunità connesse alla continuazione del rapporto con la famiglia collocataria. A tale riguardo si deve osservare che nella sentenza impugnata, la drastica interruzione di rapporti madre-figlio, spinta al punto da escluderne l’osservazione anche in sede di consulenza tecnica d’ufficio, viene spiegata esclusivamente con “lo stato avanzato d’inserimento nel nuovo nucleo affidatario” e non sulla prefigurabilità di effetti negativi sullo sviluppo psico fisico del minore riconducibili direttamente a tali contatti. Infine, un’evidente violazione dell’art.l, primo ed ultimo comma della l. n. 184 del 1983, oltre che degli artt. 2, 3, 29 Cost., si rinviene nella comparazione finale effettuata nella sentenza impugnata tra il modello familiare di appartenenza della ricorrente, fondato su una concezione allargata dei doveri di solidarietà conseguenti dai vincoli di parentela e quello nucleare appartenente ai paesi occidentali. Il diritto del minore di vivere, crescere ed essere educato nella propria famiglia si coniuga con quello al rispetto dell’identità culturale sua e dei suoi genitori. La preferenza verso un modello familiare diverso da quello prospettato dalla ricorrente (ritorno in Kenia per poter ricevere il sostegno anche economico dai propri parenti ed in particolare dallo zio materno) non può avere alcuna incidenza su una decisione che sia volta ad accertare esclusivamente l’esistenza di un’irreversibile condizione di abbandono del minore da parte dei genitori o del genitore. Nella specie, al contrario, è stato proposto un progetto d’inclusione che può essere contestato nel merito ove non siano indicate o condivise le condizioni di fattibilità, anche in considerazione dell’idoneità soggettiva del genitore a svolgere il proprio ruolo ma non in virtù di opzioni culturalmente orientate.
In conclusione, l’accertamento eseguito sulla situazione di abbandono del minore non risulta rispettosa del parametro normativo stabilito agli artt. 1 ed 8 della l. n. 184 del 1983, oltre che non sostenuta da motivazione esauriente ed adeguata, alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, perché fondata in parte su valutazioni non strettamente correlate alla natura dell’accertamento richiesto ed in parte perché sorretta da elementi solo genericamente indicati senza uno scrutinio analitico della loro incidenza causale ed in mancanza di un riscontro attuale del rapporto tra la madre ed il minore. Pertanto, previo accoglimento dei primi due motivi di ricorso, deve essere cassata, per quanto di ragione, la sentenza impugnata e rinviata la causa alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione anche per le spese del presente procedimento.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso.
Accoglie i primi due motivi per quanto di ragione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente procedimento alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

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