Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 20 novembre 2014, n. 48314
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. Il Tribunale di sorveglianza di Roma, con ordinanza del 9 gennaio 2014, applicava nei confronti di B.L. , in espiazione del cumulo di pene di cui al provvedimento del P.M. del 7.1.2013 con fine pena al 7.8.2016, la misura della detenzione domiciliare, in sostituzione della sospensione della pena, ai sensi degli artt. 146 n. 1 c.p. e 47-ter co. 1 O.P., perché condannata in stato di gravidanza.
Precisava il tribunale che la detenuta aveva già goduto di analoga misura perché madre di una bambina di età inferiore all’anno e che, al compimento di tale età minima, la stessa aveva provato di essere nuovamente in stato di gravidanza. Argomentava ancora il tribunale di dover provvedere nel senso detto in luogo della sospensione della esecuzione della pena giacché lontano il fine pena, socialmente pericolosa la detenuta e gravi i reati in espiazione.
2. Ricorre avverso detto provvedimento la B. , assistita dal difensore di fiducia, il quale nel suo interesse sviluppa un solo motivo di impugnazione, con il quale denuncia violazione di legge e vizio della motivazione, in particolare osservando: la legge prescrive, in costanza di soggetto in stato di gravidanza con pericolo di aborto, il rinvio secco della esecuzione della pena, salva la ricorrenza di necessità eccezionali collegate al contenimento della libertà del condannato; il tribunale è pervenuto alla decisione impugnata illogicamente motivando tale eccezionale necessità; non ha considerato il giudice di prima istanza l’esigenza di tutelare la salute della madre e del nascituro; la ricorrente non è socialmente pericolosa, ha già scontato oltre metà della pena in esecuzione, non è gravata da ordinanze restrittive della libertà ed i reati in espiazione sono per lo più bagatellari e risalenti nel tempo; il regime detentivo indicato dall’ordinanza impugnata, in relazione al particolare stato della detenuta, si appalesa contrario al senso di umanità e contrario ai principi costituzionali in materia di diritto alla salute e di trattamento carcerario.
3. Con argomentata requisitoria scritta il P.G. in sede ha concluso per il rigetto della impugnazione.
4. Il ricorso, a giudizio della Corte, non può trovare accoglimento.
Giova prendere le mosse dalla precisa delimitazione della fattispecie concreta portata all’esame della Corte e del quadro normativo di riferimento.
Orbene, la ricorrente sta espiando pene inflitte con numerose condanne ed il cumulo sanzionatorio per esse determinato dal P.M. contempla un fine pena al 7.8.2016. Alla stessa ricorrente è già stata concessa la misura della detenzione domiciliare dappoiché madre di una bambina di età inferiore all’anno ed al compimento del primo anno di vita di quest’ultima, la detenuta è risultata in stato di gravidanza. In siffatta situazione il tribunale ha riconosciuto la ricorrenza, nella fattispecie, della ipotesi di sospensione obbligatoria della esecuzione della pena ed ha, nel contempo, applicato, ai sensi dell’art. 47-ter O.P., co 1-ter, la misura della detenzione domiciliare.
Tanto esposto quanto alla situazione fattuale e processuale portata alla delibazione di legittimità, osserva il Collegio che, ai sensi dell’art. 146 c.p., co. 1, n. 1, l’esecuzione della pena, quando deve aver luogo nei confronti di donna incinta, deve essere differita. Tale disposizione è stata completata in termini molto significativi con la modifica all’ordinamento penitenziario approvata con l. 10 ottobre 1986, n. 663, che ha introdotto (art. 13 della novella) l’art. 47-ter, il cui comma I-ter ha riconosciuto al tribunale di sorveglianza la possibilità, ricorrendo le ipotesi di cui agli artt. 146 e 147 c.p. eppertanto le ipotesi del rinvio obbligatorio ovvero facoltativo della pena, di disporre l’applicazione della detenzione domiciliare. La conseguenza dell’inserimento nel sistema normativo di questa nuova regola è che il differimento obbligatorio ha perso questo suo carattere, giacché ormai superato il quadro iniziale collegato alla disciplina codicistica, la quale, come è noto, prevedeva l’alternativa secca tra carcerazione e libertà. Questo attraverso il riconoscimento di un potere discrezionale al tribunale di sorveglianza di concessione della misura penitenziaria della detenzione domiciliare in luogo della sospensione della esecuzione della pena, senza peraltro alcuna indicazione dei criteri di valutazione applicando i quali il tribunale dovrà decidere il caso concreto, salva comunque la considerazione, attesa la natura delle disposizioni in esame, che il legislatore ha inteso fornire la giurisdizione di sorveglianza di uno strumento flessibile, tale da consentire il superamento di circostanze negative collegate alla pericolosità sociale del soggetto, comunque in ogni caso bilanciando il diritto alla salute del condannato con le esigenze di tutela della collettività.
Ed è quanto ha fatto, correttamente, il tribunale capitolino, allorché ha valorizzato, con giudizio di merito coerente con le regole della logica in quanto tale non sindacabile per cassazione, la gravità dei reati in espiazione ed il lontano fine pena.
Né può convenirsi con le considerazioni lodevolmente e diffusamente svolte dalla difesa ricorrente sulla incidenza della misura impugnata sul diritto alla salute della ricorrente e del nascituro, dappoiché la permanenza presso il domicilio familiare non pregiudica affatto tali diritti, sulla cui assoluta rilevanza concorda del tutto la corte. Non solo, oltre l’affermazione di principio,non pare al Collegio che la difesa istante abbia dimostrato in quale modo e per quali ragioni la detenzione presso il domicilio domestico e la limitazione della libertà che essa comporta, possa risolversi in danno alla salute della detenuta e della creatura raccolta nel suo grembo, né tampoco perché sia, essa misura, contraria al sentimento di umanità che, anche in questo concorda senza riserve in collegio, sempre deve caratterizzare la concreta espiazione della pena.
5. Alla stregua delle esposte considerazioni il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente condannata, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.
P.T.M.
la Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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