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Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 20 novembre 2014, n. 48264

Ritenuto in fatto

1. Con la decisione in epigrafe la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza in data 17 novembre 2008 del Tribunale di Monza, sezione di Desio, appellata dalla parte civile C.M.T. , che aveva assolto con la formula il fatto non costituisce reato Co.Sa. e S.S. dal reato di cui agli artt. 134 e 1540 r.d. n. 733 del 1991, loro contestato come commesso da (OMISSIS) a (omissis) per avere eseguito attività investigativa, di pedinamento, ricerca e raccolta di informazioni nei confronti della C. , moglie del Co. , di cui S. era cognato.
A ragione osservava, citando tra molte Cass. sez. 1, n. 3032 del 28/04/1997, che per la configurabilità del reato è necessario che l’attività di vigilanza o di investigazione sia esercitata in forma imprenditoriale, ovvero professionale. Nel caso in esame tale esercizio non era invece configurabile, posto che i due imputati avevano realizzato le condotte al limitato fine di sorvegliare la C. , mediante controlli semplici e saltuari, anche se in ipotesi protratti per più mesi, senza alcun supporto organizzativo.
2. Ha proposto ricorso la parte civile C.M.T. , a mezzo del difensore e procuratore speciale avvocato Massimo Borgi, chiedendo l’annullamento ai fini degli interessi civili della sentenza impugnata.
Denunzia violazione degli artt. 134 e 140 r.d. n. 773 del 1941 e vizi della motivazione sostenendo che nessun dato normativo consentirebbe di restringere la previsione dell’art. 134 T.U.LP.S. all’attività imprenditoriale (cita Sez. 1 n. 371 del 07/01/1978, rv. 137622 a proposito del fatto che la previsione si riferisce anche ad attività di singoli individui e Sez. 3, n. 1710 del 30/12/1969, rv. 114647 a proposito dell’affermazione che quel che si richiede è che l’attività abbia una durata apprezzabile).
Evidenzia quindi, con dettaglio di brani delle dichiarazioni dei protagonisti della vicenda, che nel caso in esame le attività di pedinamento e controllo sarebbero state svolte per molti mesi con cadenze almeno bisettimanali.

Considerato in diritto

1. Osserva il Collegio che il ricorso appare manifestamente infondato.
2. Secondo giurisprudenza assolutamente consolidata, ciò che caratterizza l’attività di vigilanza o custodia (di proprietà mobiliari od immobiliari) e di investigazioni, ricerche o raccolta di informazioni per conto di privati, di cui tratta l’art. 134 r.d. n. 733 del 1931 (T.U.LP.S.), è che detta attività sia svolta, per conto terzi, in forma professionale.
Come rimarcato da Sez. 3, n. 42204 del 17/12/2002, Montelli, Rv 223600, richiamando altresì quanto concordemente affermato dal Consiglio di Stato, sia in sede consultiva sia in sede giurisdizionale, “la sottoposizione a controllo amministrativo dell’attività di vigilanza e custodia, svolta in forma imprenditoriale, è qualificata dal fatto che essa è suscettibile di interferire con la funzione di polizia, in quanto costituente attività integrativa di essa”. La subordinazione dell’attività di vigilanza al rilascio dell’autorizzazione prefettizia dipende, quindi, “dal pericolo di compromissione della sicurezza pubblica e della libertà dei cittadini, pericolo che può derivare anche dall’attività – integrativa – diretta alla segnalazione dei reati contro il patrimonio mobiliare o immobiliare e non solo dall’esercizio di attività professionali svolte con l’impiego di armi”.
Tanto ineludibilmente postula, perciò, da un lato che essa sia svolta in forma professionale, o imprenditoriale che dir si voglia (e non sembra doversi qui ricordare che l’impresa può essere anche individuale); dall’altro che sia rivolta alla protezione o al soddisfacimento di interessi di un numero indeterminabile a priori di “terzi”, giacché solo la potenziale diffusione della attività e il generico coinvolgimento di qualsivoglia terzo consente di ritenere configurabile quell’astratto pericolo per la “pubblica sicurezza” che integra l’oggettività giuridica della violazione sanzionata ai sensi, appunto, del “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” (nello stesso senso, segnalando che deve comunque trattarsi di “attività imprenditoriale di vigilanza e custodia di beni per conto di terzi”, Sez. 3, Sentenza n. 1605 del 16/12/2009 Provvidenti, Rv. 245868). È dunque la natura stessa del complesso normativo in cui le disposizioni incriminatrici sono inserite, che esclude che possano essere ricondotte a tale ambito comportamenti di controllo e ricerca di informazioni svolte da un privato nel suo particolare interesse e nei confronti di una singola persona, come è avvenuto nel caso di specie: di marito che, facendosi aiutare da un affine, ha controllato per un certo periodo la moglie, e solo lei.
3. Può solo aggiungersi che, alla luce di quanto evidenziato, la formula di assoluzione “il fatto non costituisce reato” adottata dal Tribunale non corrisponde alla ragione del proscioglimento e dovrebbe essere intesa alla stregua di una assoluzione perché “il fatto non sussiste”, giacché ciò che si è nella sostanza accertato sin dalla sentenza di primo grado è che la condotta realizzata non integra dal punto di vista materiale alcuna fattispecie incriminatrice (cfr. sulla irrilevanza della formula adottata a fronte della chiara portata dell’accertamento Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815). Ma alla formale correzione non ha evidentemente interesse la ricorrente.
4. La manifesta infondatezza del ricorso, che ripete censure assolutamente prive di consistenza, nonostante la indiscutibile correttezza dei rilievi, in fatto e in diritto, delle conformi decisioni del merito comporta in conclusione la sua inammissibilità.
E all’inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (C. cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione, delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.

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