Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza  20 luglio 2015, n. 31406

Ritenuto in fatto

1. Il 23 gennaio 2014, all’esito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Trento, in composizione monocratica, dichiarava K.O. e B.M. colpevoli del reato previsto dall’art. 4 l. n. 110 del 1975 per avere portato fuori della propria abitazione, senza giustificato motivo, il B. una pietra e il K. un bastone.
2. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite il comune difensore di fiducia, gli imputati, i quali lamentano violazione di legge e carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, travisamento della prova in ordine agli elementi posti a base dell’affermazione di penale responsabilità, alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato e ritenuto in sentenza, all’esclusione della legittima difesa.

Osserva in diritto

Il ricorso proposto dai due ricorrenti è manifestamente infondato.

Il suo esame impone una triplice premessa.
1. Il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (Sez. U., n. 25080 del 28 maggio 2003).
2. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606, lett. e), c.p.p., così come novellato dall’art. 8 della 1. 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia “effettiva” e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 6, n. 10951 del 15 marzo 2006). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.
Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi “atti del processo” e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
3. La categoria logico-giuridica del travisamento della prova deve essere tenuta distinta da quella concernente il vizio di travisamento del fatto. La prima, infatti, a differenza del secondo, implica non una rivalutazione del fatto, che è incompatibile con il giudizio di legittimità, ma la constatazione che esiste una palese divergenza del risultato probatorio rispetto all’elemento di prova emergente dagli atti processuali e che, quindi, una determinata informazione probatoria utilizzata in sentenza, oggetto di analitica censura chiaramente argomentata, è contraddetta da uno specifico atto processuale, pure esso specificamente indicato. La recente riformulazione dell’art. 606 lett. e) c.p.p. ad opera dell’art. 8 della l. n. 46 del 2006, non confermando l’indeclinabilità della regola preclusiva dell’esame degli atti processuali ed ammettendo un sindacato esteso a quelle forme di patologia del discorso giustificativo riconoscibili solo all’esito di una cognitio facti ex actis, colloca il vizio di travisamento della prova, cioè della prova omessa o travisata, rilevante e decisiva, nel peculiare contesto del vizio motivazionale, attesa la storica inerenza di esso al tessuto argomentativo della ratio decidendi (Cass. Sez. VI, 20 marzo 2006, rv. 233621; Cass., Sez. I, 9 maggio 2006, rv. 233783; Cass., Sez. II, 23 marzo 2006, rv. 233460; Cass., Sez. V, 11 aprile 2006, rv. 233789; Cass., Sez. IV, 28 aprile 2006, rv. 233783; Cass., Sez. Ili, 12 aprile 2006, rv. 233823).
In virtù della novella legislativa del 2006 viene ad assumere, pertanto, pregnante rilievo l’obbligo di fedeltà della motivazione agli atti processuali/probatori, risultandone valorizzati i criteri di esattezza, completezza e tenuta informativa e, al contempo, rafforzato quell’onere di “indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto” a sostegno del singolo motivo di ricorso, che già gravava sul ricorrente ai sensi dell’art. 581 lett. c) c.p.p.. Il vizio di prova “omessa” o “travisata” sussiste, peraltro, soltanto quando l’accertata distorsione disarticoli effettivamente l’intero ragionamento probatorio e renda illogica la motivazione, per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio trascurato o travisato, secondo un parametro di rilevanza e di decisività.
3. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse dai ricorrenti che hanno denunciato, da un lato, la carenza, l’illogicità e l’intrinseca contraddittorietà della motivazione e, dall’altro, hanno ricondotto alla categoria logico-giuridica della prova “omessa” o “travisata” non l’omessa pronunzia su un significativo dato processuale o probatorio né la palese divergenza del risultato probatorio rispetto all’elemento di prova emergente dagli atti processuali, bensì l’erronea valutazione di attendibilità e concludenza dell’elemento probatorio, avvenuta in violazione delle regole ermeneutiche che devono presiedere la struttura logica della motivazione in fatto.
Il provvedimento impugnato, con motivazione all’evidenza esente da manchevolezze, evidenti incongruenze o da interne contraddizioni e con puntuale e corretto richiamo alle risultanze processuali, ha illustrato il complesso degli elementi (verbali di perquisizione e sequestro, indagini di polizia giudiziaria) posti a base dell’affermazione di penale responsabilità degli imputati.
In realtà, i ricorrenti, pur denunziando formalmente una violazione di legge in riferimento ai principi di valutazione della prova di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p., non critica in realtà la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, bensì, postulando un preteso travisamento del fatto, chiedono la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, inammissibile invece in sede d’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia – come nella specie – una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del quadro probatorio, indicative univocamente della coscienza e volontà dei ricorrenti di portare, senza giustificato motivo, l’uno (K. ) un bastone e l’altro (B. ) una pietra.
4. La sentenza impugnata è, all’evidenza, esente da censure anche nella parte in cui ha ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi della contravvenzione contestata, tenuto conto delle caratteristiche degli oggetti portati dai ricorrenti e della loro naturale destinazione all’offesa alla persona, avuto riguardo alle circostanze di tempo e di luogo (Sez. 1, n. 503 del 3 dicembre 1993; Sez. 5, n. 43348 del 10 luglio 2008).
5. Del tutto in conferenti, avuto riguardo alla tipologia del reato contestato, è la prospettazione dell’esimente della legittima difesa, fondata su di una non consentita lettura alternativa dei fatti a fronte di un coerente impianto motivazionale.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento ciascuno della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento ciascuno della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.

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