Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 18 aprile 2014, n. 9044
Ritenuto in fatto
l. – Con ricorso in data 10 dicembre 2010 l’attuale controricorrente (G.R.N.) si rivolse alla Corte d’appello di Bari per ottenere la dichiarazione di efficacia ed esecutività nell’ordinamento italiano della sentenza emessa dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Pugliese in data 28 novembre 2006, che aveva dichiarato nullo il matrimonio concordatario dallo stesso contratto con A.D.A. il 6 maggio 2000 per impotentia coeundi relativa dell’attore, e che era stata ratificata dal Tribunale Ecclesiastico Beneventano il 26 maggio 2010, e resa esecutiva il 2 ottobre 2010 con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Si costituì in giudizio la A. chiedendo il rigetto della domanda, per la non delibabilità della sentenza per contrarietà all’ordine pubblico interno sotto tre profili:per essere seguita alla celebrazione del matrimonio, in data 6 maggio 2000, la convivenza fino al 25 aprile 2001; per violazione della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole in quanto l’attore, in base all’ordinaria diligenza, doveva sapere di essere impotente e tuttavia non lo aveva comunicato alla donna dandole ad intendere che la sua astinenza fosse ispirata dall’intento di preservarla integra fino al momento del matrimonio; ed ancora perché sarebbe in contrasto con i principi della nostra civiltà giuridica la richiesta dell’attore di delibazione per un impedimento riferibile a se stesso. In subordine, la A. chiese la liquidazione di una provvisionale in suo favore ai sensi dell’art. 8, n.2, dell’Accordo 18 febbraio 1984, nella misura di euro 200.000 o nella misura ritenuta dalla Corte, riservandosi di chiedere, ai sensi dell’art. 129-bis cod.civ.,il risarcimento dei danni subiti, consistenti, oltre che nei costi della organizzazione del matrimonio, nella lesione irreversibile del suo diritto fondamentale a realizzarsi nella famiglia a causa della impotenza del coniuge, oltre agli alimenti, ai sensi dell’art. 129 cod.cív.
2. – Con sentenza depositata il 26 giugno 2012, la Corte d’appello di Bari dichiarò l’efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica di cui si tratta, rigettando la domanda riconvenzionale della A.. Il giudice di merito ritenne infondati tutti i motivi addotti da quest’ultima a sostegno della tesi relativa alla non delibabilità della sentenza. Quanto alla pretesa incompatibilità con l’ordine pubblico interno derivante dalla convivenza, l’argomento era, secondo la Corte, inconferente avuto riguardo al preesistente stato di impotentia coeundi dell’uomo, con conseguente insussistenza di alcuna esigenza di tutela del rapporto matrimoniale, che, peraltro, non era stato connotato da alcuna comunione di vita materiale e spirituale. Quanto alla asserita mancanza di previsione nel nostro ordinamento della impotentia coeundi come causa di nullità del matrimonio, osservò la Corte che la mancata corrispondenza normativa non si risolve in una violazione dei principi fondamentali che regolano il matrimonio secondo la legge italiana, poiché anche nell’ordinamento nazionale l’esistenza di una anomalia psichica di uno dei coniugi che impedisca lo svolgimento della vita matrimoniale, se ignorata dall’altro, è causa di nullità del matrimonio per vizio del consenso del coniuge caduto in errore su di una qualità personale dell’altro a norma dell’art. 122 cod.civ. Per quanto riguarda l’asserito contrasto con l’ordine pubblico per la violazione del principio di affidamento incolpevole, la Corte osservò che non può essere richiesta la delibazione della sentenza ecclesiastica per impotentia coeundi da parte di colui che a tale nullità ha dato causa sempre che questa non fosse conosciuta o conoscibile da parte dell’altro coniuge con la ordinaria diligenza. Al riguardo, il giudice di merito ritenne che dalle emergenze processuali si evincesse che la A. non poteva non accorgersi, nel lungo periodo del fidanzamento, che mancavano le condizioni per un rapporto sessuale completo.
Quanto alla ritenuta mancanza di legittimazione in capo all’attore a chiedere la delibazione della sentenza ecclesiastica, la Corte rilevò che non esiste nell’ordinamento nazionale un principio di ordine pubblico per cui il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato, e nella specie non ricorreva il caso in cui l’altro coniuge non sia a conoscenza o non abbia potuto conoscere con l’ordinaria diligenza l’impotenza del compagno.Quanto alla richiesta di provvisionale, avanzata dalla A., essa fu rigettata per assenza del fumus, in considerazione della mancanza in capo alla stessa della ordinaria diligenza nell’ignorare le circostanze da cui è dipesa la nullità, e del periculum in mora, non sussistendo i requisiti di bisogno economico in capo alla A., la quale presta attività lavorativa retribuita che le permette una dignitosa indipendenza economica. 3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre la A. sulla base di sei motivi. Resiste con controricorso il coniuge. Le parti hanno depositato memorie.
Considerato in diritto
1. – Con il primo motivo di ricorso si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, relativo alla circostanza della conoscenza, o conoscibilità, da parte della attuale ricorrente – circostanza ritenuta comprovata dalla Corte di merito sulla base dell’esame delle emergenze processuali – della disfunzione sessuale del N., tale da escludere uno dei borea matrimoni!. La motivazione al riguardo adottata dal giudice di merito si risolverebbe in una serie di enunciazioni tautologiche, inidoneee a cogliere la ratio decidendi della pronuncia e comunque contraddittorie, fondate sulla valorizzazione di risultanze istruttorie, ed in particolare deposizioni testimoniali, per ammissione della stessa Corte territoriale insufficienti e non puntuali in ordine al foro interno, in ordine alla conoscibilità di detta disfunzione.
2. – La censura non è meritevole di accoglimento.
In realtà, la Corte di merito ha adeguatamente motivato il proprio convincimento in ordine alla conoscibilità da parte della A., nel corso del suo fidanzamento con il N., del problema che affliggeva quest’ultimo, facendo riferimento alla accertata sussistenza di occasioni di intimità tra i due, alla lunga durata del fidanzamento, alla condizione soggettiva della donna, laureata in giurisprudenza e dotata di carattere volitivo e determinato.
3. – Il secondo motivo ha ad oggetto la ritenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 108 e 160 in riferimento all’art. 122 cod.civ., e degli artt. 112/116 cod.proc.civ. Il giudice di merito non avrebbe ottemperato all’obbligo di riscontro delle circostanze assunte dal giudice ecclesiastico forzando i relativi esiti probatori ed interpretando in modo sommario la fattispecie. La Corte di appello barese avrebbe violato l’ordine pubblico interno per avere negato la palese contrarietà della sentenza ecclesiastica di cui si tratta all’ordine pubblico italiano non accordando alla attuale ricorrente la tutela che il legislatore nazionale attribuisce al coniuge in buona fede. Nel riesame del materiale probatorio acquisito nel corso del giudizio ecclesiastico in ordine alla effettiva esistenza della riserva mentale, il Collegio avrebbe, al contrario, desunto la conoscenza o conoscibilità da parte della A. della disfunzione dalla quale era affetto il N. sulla base di un generico richiamo agli interrogatori resi da entrambi, tra loro contrastanti, ed alle deposizioni testimoniali, pur ritenuti dallo stesso giudice non dirimenti.
4. – La doglianza non può trovare ingresso nel presente giudizio. Essa, infatti, al di là della denunciata violazione di legge, si sostanzia in una critica della interpretazione che delle risultanze probatorie ha operato la Corte di merito: interpretazione incensurabile in sede di giudizio di legittimità, siccome motivata in modo – per quanto già rilevato sub 2. – congruo e plausibile.
5. – Con il terzo motivo si deduce violazione degli artt. 183, 184, 202 e 228 e segg. cod.proc.civ. Avrebbe errato la Corte di merito nell’assumere come confessione le dichiarazioni rese dall’attuale ricorrente in sede ecclesiastica senza l’osservanza delle norme poste dall’ordinamento nazionale. In particolare – rileva la ricorrente – non si conosce il capitolato proposto in quella sede e se esso fosse ammissibile in base al nostro ordinamento ovvero non lo fosse, come sembrerebbe dalle risposte fornite, dalle quali si desumerebbe che le domande riguardassero stati psicofisici personalissimi.
6. – La censura è infondata.
Essa muove dall’erroneo presupposto che la decisione impugnata sia motivata alla stregua delle dichiarazioni della A., assunte come confessione, laddove, in realtà, per quanto già riferito sub 2, il percorso argomentativo della Corte di merito si articola in una serie di considerazioni, fondate su elementi non collegati meramente alle predette dichiarazioni, ma essenzialmente desunti dalle circostanze del caso concreto.
7. – Con il quarto motivo si denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia nonché violazione degli artt. 123 e 1338 cod.civ. Si osserva che non può essere richiesta la delibazione della sentenza ecclesiastica .
8. – Anche tale motivo è infondato.
A prescindere dalla considerazione che, come già ritenuto da questa Corte in materia di invalidità del matrimonio per incapacità di intendere e di volere, non disciplinando l’ordinamento italiano in modo uniforme la legittimazione a proporre l’azione di nullità del matrimonio (v. Cass., sent. n. 8151 del 1987), deve negarsi l’esistenza di un principio di ordine pubblico secondo cui il vizio che inficia il matrimonio può essere fatto valere soltanto dal coniuge il cui consenso sia viziato, va rilevato decisivamente che, sulla base delle argomentazioni già illustrate, la Corte di merito ha escluso la non conoscibilità, da parte della A., della condizione del coniuge.
9. – Con il quinto motivo si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, relativo alla richiesta di provvisionale, ex art. 8, n. 2, dell’Accordo 18 febbraio 1984, e di alimenti, avanzata dalla A. in via subordinata nel giudizio dì delibazione, e rigettata dalla Corte di merito con motivazione asseritamente succinta, fondata sull’assenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora.
10. – La censura è inammissibile, trattandosi di provvedimento emesso dalla Corte di merito in via provvisoria, e, pertanto, non impugnabile nella presente sede.
11. – Con il sesto motivo si deduce violazione dell’art. 129-bis e dell’art. 112 cod.proc.civ. La corretta applicazione del richiamato art. 129-bis cod.proc.civ. – che ha introdotto la previsione della indennità a favore del coniuge in buona fede e a carico del coniuge che abbia lasciato ignorare all’altro la causa di nullità del matrimonio ai sensi dell’art. 139 cod.civ. – dovrebbe prescindere dalla rilevanza di qualsiasi elemento soggettivo del coniuge incolpevole, regolando la norma in questione non già il fatto generatore della responsabilità, ma solo gli effetti che da quel fatto derivano. Sarebbe, pertanto, lesiva dei diritti della ricorrente l’affermazione della Corte di merito secondo la quale la sussistenza di una presunta conoscenza da parte della A. dei motivi di nullità del matrimonio, fondata sui meri dati ecclesiastici, non opponibili in sede di delibazione, farebbe venir meno in via definitiva il diritto alla richiesta di alimenti e della indennità di legge.
12. – La censura è inammissibile, poiché la Corte di merito, lungi dall’avere adottato, sul punto in esame, come erroneamente sostenuto dalla ricorrente, una decisione di portata definitiva, e, quindi, dall’aver negato la debenza della richiesta indennità, si è limitata ad adottare un provvedimento cautelare, e dunque, per sua natura, provvisorio.
13. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio, che vengono liquidate come da dispositivo, devono, in applicazione del criterio della soccombenza, essere poste a carico della ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi euro 3200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 15 ottobre 2013.
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