guida in stato di ebrezza

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 10 ottobre 2014, n. 42505

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZAMPETTI Umberto – Presidente
Dott. MAZZEI Antonella P. – Consigliere
Dott. CAPRIOGLIO Piera – rel. Consigliere
Dott. MAGI Raffaello – Consigliere
Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 30013/2013 TRIB. SEZ. DIST. di ATRI, del 01/07/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. PIERA MARIA SEVERINA CAPRIOGLIO;
lette le conclusioni del PG, di inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 1.7.2013 il Tribunale di Teramo revocava la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica necessita’ concessa a DI (OMISSIS), con sentenza 12.10.2011 del medesimo tribunale e ripristinava l’originaria pena inflitta per il reato di guida in stato di ebbrezza, di giorni venti di arresto convertita in quella di 5000 euro di ammenda, oltre ad euro 500 di ammenda, in quanto risultava che il medesimo aveva piu’ volte interrotto -senza giustificazione alcuna- lo svolgimento del lavoro di pubblica utilita’, cosicche’ veniva ritenuta non computabile la parte di pena gia’ espiata quale lavoro di pubblica utilita’, non risultando che il medesimo abbia avuto consapevolezza dell’opportunita’ offertagli.
2. Avverso tale decisione, ha interposto ricorso per cassazione il prevenuto personalmente per dedurre:
2.1 violazione del Decreto Legislativo n. 285 del 1992, articolo 186, comma 9 bis per la mancata applicazione dei presupposti previsti per la revoca del beneficio, nonche’ vizio motivazionale: viene lamentato che sia mancata una verifica sui motivi, sull’entita’ della violazione e sulle circostanze da cui essa e’ scaturita; il fatto che il medesimo abbia interrotto il lavoro di pubblica utilita’ non era di per se’ sufficiente per procedere alla revoca, tanto piu’ che era stato regolarmente svolto per 36 ore e mezza, rispetto al totale di 44 ore.
2.2 violazione del Decreto Legislativo n. 689 del 1981, articolo 186, comma 9 bis e del principio secondo cui nessuno puo’ essere chiamato ad espiare due volte la stessa pena: vien fatto di rilevare che buona parte del lavoro di pubblica utilita’ era stato svolto, residuando solo 7,30 ore di lavoro ancora da svolgere, cosicche’ la pena andava ripristinata solo per la parte non espletata, atteso che il lavoro di pubblica utilita’ e’ una sanzione sostitutiva, da intendere come una vera e propria pena che deve essere considerata nella parte presofferta e scomputata dal residuo. Viene sottolineato che il paradigma della misura alternativa alla detenzione non puo’ essere applicato al lavoro di pubblica utilita’, che e’ sanzione penale. Viene richiamato la Legge n. 689 del 1981, articolo 66 secondo cui in caso di violazione delle prescrizioni inerenti la liberta’ controllata o la semidetenzione, la restante parte della sanzione si converte nella pena detentiva sostituita.
3. Il Procuratore Generale ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso e’ fondato e deve essere accolto.
Viene sottoposto all’attenzione di questo Collegio la questione di diritto sulle conseguenze a seguito della intervenuta interruzione del lavoro di pubblica utilita’, quale pena sostituiva ai sensi dell’articolo 189 bis C.d.S., ed in particolare sulla portata degli effetti del provvedimento di revoca della misura sostitutiva eventualmente adottato; ci si chiede in sostanza se la revoca abbia effetti ex tunc, nel senso di fare venire meno anche il periodo di utile svolgimento della prestazione, ovvero se debba essere operato un ragguaglio e quindi se debba essere scomputato il periodo di positivo svolgimento dell’attivita’ con ripristino della sola pena residua, una volta operata la conversione.
In proposito va premesso che nel caso oggi a giudizio, il giudice a quo ha revocato la sanzione sostitutiva, ripristinando l’intera pena a cui il (OMISSIS) era stato condannato, sul presupposto che l’entita’ della violazione era tale da portare a constatare come l’interessato non abbia avuto consapevolezza dell’importanza della possibilita’ offertagli dall’ordinamento ed abbia cosi’ dimostrato di non meritare misure sostitutive. Tale provvedimento e’ stato contestato, ritenendo la difesa che il giudice non disponga di potere di tale ampiezza.
Deve essere sottolineato che la normativa contenuta nel Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274 prevede, all’articolo 58, che per ogni effetto giuridico la pena dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilita’ si considerano come pene detentive della specie corrispondente a quella della pena originaria. Si ha dunque riguardo a pene detentive e non a misure alternative alla detenzione, quali quelle previste dall’Ordinamento penitenziario. Va aggiunto che il decreto suindicato, all’articolo 56 dispone che “il condannato che senza giusto motivo si allontana dai luoghi in cui e’ obbligato a rimanere o che non si reca nel luogo in cui deve svolgere il lavoro di pubblica utilita’, o che lo abbandona, e’ punito con la reclusione fino ad un anno”. Da tale previsione e’ immediato evincere che la violazione delle prescrizioni concernenti le pene sostitutive, configura addirittura gli estremi di un delitto, al pari dell’evasione, cui e’ fatta seguire una pena detentiva. Ed infatti, non a caso, e’ stato insegnato che l’imputato e’ l’unico titolare della facolta’ di richiedere l’applicazione delle pene sostitutive, “poiche’ il suo consenso e’ il segno della consapevole accettazione delle modalita’ di emenda e delle conseguenze derivanti dalla violazione delle modalita’ di esecuzione della sanzione del lavoro di pubblica utilita’, sicche’ non e’ possibile supporre alcun accordo implicito o concerto preventivo” con il difensore che non puo’ rappresentare l’interessato in detto particolare snodo processuale (Sez. 4, 29.11.2004).
Tale realta’ normativa porta a ritenere che la non lieve sanzione, in caso di violazione, esaurisca le conseguenze a seguito dell’inadempienza, cosicche’ non possa essere l’interessato gravato di ulteriore conseguenza negativa, quale la revoca ex tunc del beneficio, che porrebbe nel nulla l’esito positivo del lavoro sostitutivo svolto in un primo periodo di tempo. A tale considerazione sembra doversi addivenire, mancando un’esplicita previsione su come il giudice debba operare a fronte dell’inadempimento, non potendosi mutuare la disciplina prevista nell’articolo 47, comma 11, articolo 47 ter, comma 6, articolo 47 quinquies, comma 6 e articoli 51 e 54 dell’Ordinamento Penitenziario (Legge n. 354 del 1975), relativamente a misure alternative alla detenzione, da tenere distinte dalla pene sostitutive come si e’ sopra osservato. Cio’ detto, viene fatto di sottolineare che la soluzione al quesito va trovata attraverso un’interpretazione di sistema, che parte dai due capisaldi normativi, che sono da un lato appunto la previsione del Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 56 che individua una fattispecie delittuosa in caso di trasgressione alle prescrizione e dall’altra l’articolo 58 stesso Decreto, che prescrive i criteri di ragguaglio. Le direttrici delineate dalle due previsioni suindicate impongono di concludere nel senso che in caso di violazione delle prescrizioni in materia di lavoro di pubblica utilita’, il trasgressore debba essere chiamato a rispondere del reato previsto dall’articolo 56 Decreto suindicato, ma l’attivita’ di lavoro compiuta in precedenza, con esito favorevole, dovra’ essere apprezzata in termine di espiazione della pena in quel particolare intervallo temporale; il periodo di lavoro residuo dovra’ essere tradotto in pena detentiva alla luce dei criteri di ragguaglio di cui all’articolo 58 succitato; la pena detentiva residua dovra’ essere espiata dall’interessato, una volta riconosciuta come non piu’ eseguibile la misura sostitutiva. In sostanza la violazione delle prescrizioni relative al lavoro di pubblica utilita’ fa scattare nell’ordinamento una reazione in parallelo a quella che segue all’evasione, nel senso che la condotta viene apprezzata come reato, ma non pone nel nulla il periodo di pena gia’ espiato.
Se si dovesse opinare diversamente, si giungerebbe alla inammissibile conclusione che al comportamento del condannato inadempiente seguirebbero due livelli di risposta dell’ordinamento, da un lato la sanzione penale per il reato commesso e dall’altro ricadute in termini di prolungamento della’ durata della pena in espiazione.
Si deve quindi rispondere al quesito suindicato nel senso che alla mancata osservanza delle prescrizioni riguardanti il lavoro di pubblica utilita’ il giudice puo’ fare seguire la revoca della sanzione sostitutiva, con conseguente ragguaglio della restante pena da eseguire secondo i criteri di cui al Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 58 tenendo fermo il precedente periodo di espiazione a seguito del positivo svolgimento del lavoro sostitutivo, ma con l’applicazione del Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 56.
L’ordinanza impugnata deve essere annullata per nuovo esame alla luce dei principi enunciati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Teramo.

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