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Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 10 febbraio 2014, n. 2948

Ritenuto in fatto

1. – Con sentenza depositata il 22 aprile 2009, la Corte d’appello di Roma accolse parzialmente il gravame proposto da M.T.B. nei confronti della sentenza del Tribunale di Roma che, dopo che con sentenza non definitiva era stata pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio della stessa con G.R.M., aveva affidato i due figli minori della coppia alternativamente al padre durante il periodo scolastico con collocamento nella casa di lui in Modena, e nel periodo delle vacanze estive alla madre con collocamento in Roma, rigettando la domanda della B. di ottenere la corresponsione di un assegno quale contributo per il mantenimento dei figli e di un assegno divorzile a carico del M.
La B. aveva impugnato tale decisione, chiedendo l’affidamento dei figli ed insistendo nelle richieste economiche.
2. – Per quanto ancora rileva nella presente sede, la Corte determinò in euro 1000,00 mensili l’assegno divorzile dovuto dal M. Osservò il giudice di secondo grado che era risultato provato che durante il matrimonio i coniugi erano contitolari di proprietà immobiliari e di quote di società, e all’epoca della introduzione del giudizio di separazione il M. svolgeva la professione di medico otorino specializzato in chirurgia plastica, mentre la B., laureata in lingue e letterature straniere, non espletava un’attività lavorativa stabile. I coniugi avevano stipulato un accordo a definizione di ogni rapporto economico in forza del quale la B. aveva ricevuto dal coniuge, dietro trasferimento delle quote di sua spettanza di proprietà immobiliari e partecipazioni societarie, una somma pari a lire 1.050.000.000. Il Tribunale di Modena, con provvedimento del 27 settembre 2002, aveva respinto la domanda della B. di modifica delle condizioni della separazione consensuale.
La Corte di merito, esaminate le risultanze della documentazione fiscale prodotta dalle parti, rilevò un netto divario tra le condizioni economiche delle parti, non solo con riguardo al periodo considerato, ma anche sotto il profilo delle potenzialità di reddito attuali e future connesse con la tipologia delle rispettive attività lavorative. In particolare, non era stato provato che la donna avesse rifiutato concrete e più vantaggiose opportunità di lavoro rispetto a quelle reperite dopo la separazione, variabili per tipologia e guadagni. La Corte concluse, quindi, che la B. si trovava, per età e per tipologia delle attività che le sue specifiche attitudini le consentivano, nella oggettiva impossibilità di conseguire mezzi adeguati, sotto il profilo della stabilità oltre che della quantità, a consentirle il mantenimento dell’elevato tenore di vita goduto durante la convivenza coniugale. Il giudice di secondo grado ritenne, pertanto, equo determinare l’assegno divorzile nella misura di euro 1000,00 mensili.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre il M. sulla base di due motivi. Resiste con controricorso la B.. Il M. ha depositato memoria.

Considerato in diritto

1. – Con il primo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970. Ai fini della valutazione della esattezza della conclusione cui era pervenuto il primo giudice circa la insussistenza dei presupposti per la concessione dell’assegno divorzile, la Corte di merito avrebbe dovuto esaminare la situazione reddituale e patrimoniale della richiedente al momento della proposizione della domanda, che era sicuramente prospera, e che si era in modo sospetto deteriorata proprio nella imminenza della decisione di secondo grado. Né la Corte capitolina aveva tenuto conto della somma di oltre 1000 milioni di lire ricevuta dalla B. in sede di separazione, per la cui corresponsione l’attuale ricorrente aveva dovuto vendere i suoi beni personali, con conseguente perequazione finanziaria dei coniugi. Né, infine, era stato valutato dalla Corte d’appello l’impegno economico sostenuto dal M. per il mantenimento dei figli almeno fino al 2006. La illustrazione del motivo si conclude con la formulazione dei seguenti quesiti di diritto, ai sensi dell’art. 366-bis cod.proc.civ., applicabile nella specie ratione temporis: ; .
2. – La censura è priva di fondamento.
2.1. – Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali (v., da ultimo, Cass., sent. n. 11686 del 2013).
Nella specie, la Corte di merito ha compiuto una valutazione congrua e correttamente motivata della inadeguatezza dei mezzi della richiedente sotto il profilo richiamato, attraverso un meticoloso ed articolato riepilogo, tratto dalle risultanze documentali del processo, delle rispettive, nettamente divaricate, situazioni economiche degli ex coniugi, e del tenore di vita da essi goduto manente matrimonio.
2.2. – In tale quadro, l’assetto economico relativo alla separazione poteva rappresentare solo un indice di riferimento in quanto idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi a detto tenore di vita. Ma la determinazione dell’assegno divorzile, alla stregua dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti in vigenza di separazione dei coniugi, con la conseguenza che il diniego dell’assegno divorzile non può fondarsi sul rilievo che negli accordi di separazione i coniugi pattuirono che nessun assegno fosse versato dal marito per il mantenimento della moglie, dovendo comunque il giudice procedere alla verifica del rapporto delle attuali condizioni economiche delle parti con il pregresso tenore di vita coniugale (v., in tal senso, Cass., sent. n. 1758 del 2008).
2.3. – Nessun dubbio, infine, sulla correttezza del riferimento del giudice di appello alla situazione economica della richiedente l’assegno divorzile al momento in cui la valutazione sulla sussistenza dei relativi presupposti viene operata.
3. – Con il secondo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi del giudizio, in particolare in merito alla esistenza di mezzi adeguati e della possibilità di procurarseli. La sentenza di secondo grado avrebbe sovvertito le risultanze probatorie che avevano indotto il primo giudice ad escludere che sussistessero i presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile, ed avrebbe omesso ogni analisi comparativa del tenore di vita che i redditi ed il patrimonio di ciascuno degli ex coniugi, elencati nella stessa, avrebbero consentito. Né sarebbe stato valutato l’impatto dei provvedimenti economici che addossavano all’ex marito il mantenimento dei figli, così come sarebbe stata trascurata la considerazione della età della B., che le avrebbe permesso di svolgere ancora per molti anni un’attività lavorativa, a fronte della più elevata età del M., prossimo al pensionamento.
4. – La doglianza non può trovare ingresso nel presente giudizio. E’, infatti, inammissibile, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., per le cause – come la presente – ancora ad esso soggette, il motivo di ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione qualora non sia stato formulato il c.d. quesito di fatto, mancando la conclusione a mezzo di apposito momento di sintesi, anche quando l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura, attesa la ratio che sottende la disposizione indicata, associata alle esigenze deflattive del filtro di accesso a questa Corte, la quale deve essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito (v., ex multis, Cass., sentt. n. 24255 del 2011, n. 4556 del 2009).
5. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. In applicazione del criterio della soccombenza, le spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo, devono essere poste a carico del ricorrente.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi euro 2200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

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