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suprema CORTE DI CASSAZIONE

sezione I

SENTENZA 1 luglio 2014, n. 28231 

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

 1. Verso le ore 1,15 del 25 aprile 2011, all’uscita della discoteca (omissis) , scoppiava una rissa tra gli addetti alla sicurezza del locale e tre tunisini che mal volentieri erano stati accompagnati all’esterno perché uno di essi stava fumando; in tale contesto uno degli addetti, S.D. , veniva ferito gravemente con un coltello in regione mesograstica e ricoverato di urgenza, in stato di shoch emorragico, in ospedale e qui sottoposto ad immediato intervento chirurgico per una copiosa emorragia interna. Le indagini portavano alla identificazione dell’imputato, M.L. , riconosciuto dalla p.o. e da altri testimoni presenti al momento dell’accoltellamento (B. , C. , anch’essi addetti alla sicurezza del locale teatro della vicenda, Mu. e Ba. , clienti della discoteca) imputato il quale, per questo intercettato dalle forze dell’ordine il 6 maggio successivo alla rissa, in tale occasione aggrediva il brig. A., al quale cagionava lesioni personali giudicate guaribili in cinque giorni. Sottoposto ad interrogatorio il M. ammetteva la sua presenza presso la discoteca alle ore 1,15 del (omissis) e di essere stato accompagnato fuori di essa perché colto a fumare all’interno, negava però di aver accoltellato il S. , condotta per la quale accusava tale B.A.A. . I testimoni provvedevano, per quanto di interesse, alla ricognizione dell’imputato nelle forme dell’incidente probatorio ed il P.M. acquisiva agli atti consulenza medico legale sulle lesioni patite dalla vittima.

Sulla base del sintetizzato quadro probatorio il GIP del Tribunale di Genova, all’esito del giudizio abbreviato nel corso del quale il prevenuto ammetteva gli addebiti, dichiarava M.L. colpevole dei reati di tentato omicidio in danno di S.D. , di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni personali in danno del brig. A.R. e lo condannava, ritenuta la continuazione, alla pena di anni sei, mesi due e giorni venti di reclusione.

La condanna di primo grado veniva appellata dall’imputato, il quale contestava la qualificazione giuridica della condotta di cui al capo A), giacché non provato – a suo avviso – l’animus necandi e, con essa, il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, di quelle del risarcimento del danno e della provocazione, nonché la severità della pena. La Corte di appello di Genova, per quanto di interesse, con sentenza del 23 gennaio 2013, rigettava ogni doglianza confermando la pronuncia impugnata.

2. Ricorre per cassazione avverso la sentenza di secondo grado l’imputato, con l’assistenza del difensore di fiducia, il quale nel suo interesse sviluppa un unico motivo di impugnazione, con il quale denuncia la insufficienza e la manifesta illogicità della motivazione. Deduce ed argomenta in particolare la difesa ricorrente: la corte distrettuale ha insufficientemente motivato in ordine ai rilievi difensivi, sia in riferimento alla qualificazione della condotta giudicata, sia non tenendo conto delle attenuanti del risarcimento del danno e della provocazione; il fatto avrebbe ‘potuto’ essere qualificato come ‘lesioni aggravate’ in considerazione delle seguenti circostanze: la persona offesa, nei giorni successivi alla vicenda per cui è causa, ha individuato come suo assalitore un soggetto diverso dall’imputato, tanto dimostra la confusione generatasi con la rissa, l’imputato è stato anch’egli ferito, la parte offesa è stata colpita da un unico fendente ‘dato alla cieca’; nonostante gli esposti rilievi, il giudice di secondo grado ha mantenuto ferma la qualificazione di tentato omicidio, ribadendo la significatività delle modalità dell’accoltellamento, della gravità delle lesioni cagionate, dell’organo leso dal fendente; le modalità dell’accoltellamento però e cioè la direzione perpendicolare al corpo della vittima della coltellata, non dimostra la volontà di uccidere al di là di ogni ragionevole dubbio; la stessa parte offesa ha descritto l’accoltellamento come ‘un tocco leggero’ simile ad ‘una pacca’; se l’accoltellamento viene però inserito in una zuffa, non è illogico ritenere che la parte debole, e tale era l’imputato, abbia colpito l’avversario dopo essere caduto a terra; proprio la unicità del fendente dimostra l’assenza di una volontà di infierire ed esclude l’animus necandi; anche in ordine al risarcimento del danno non può convenirsi col giudizio della corte territoriale che ha considerato modesta l’entità della somma versata alla p.o., la quale non casualmente ha ritirato la costituzione di parte civile, evidentemente ritenendosi integralmente soddisfatta; la somma accettata dalla parte offesa, pari ad Euro 16.500, è sufficiente per il riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno.

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

Ed invero la difesa ricorrente ripropone in questa sede di legittimità le medesime censure già prospettate al giudice dell’appello e da questi confutate con motivazione ampia, logica e diffusa, alla quale l’impugnazione in esame, peraltro articolando profili argomentativi palesemente generici, non oppone repliche apprezzabili.

3.1 Sulla qualificazione giuridica della condotta accertata in capo all’imputato, in coerenza con l’insegnamento di legittimità hanno correttamente ritenuto i giudici di merito ricorrente l’ipotesi riferibile al tentato omicidio.

Secondo costante insegnamento di questa Corte infatti, in tema di omicidio volontario, in mancanza di circostanze che evidenzino ‘ictu oculi l’animus necandi’, la valutazione dell’esistenza del dolo omicidiario può essere raggiunta attraverso un procedimento logico d’induzione da altri fatti certi, quali i mezzi usati, la direzione e l’intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l’azione cruenta (Cass., Sez. I, 08/06/2007, n. 28175; Cass., Sez. I, 16/12/2008, n. 5029; Cass., Sez. I, 14/02/2006, n. 15023).

Con riferimento specifico poi all’ipotesi dell’omicidio solo tentato, ai fini dell’accertamento della volontà omicidiaria assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, dovendosi diversamente l’azione ritenersi sempre inidonea, per non aver conseguito l’evento, sicché il giudizio di idoneità è una prognosi, formulata ‘ex post’, con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare (Cass., Sez. I, 23/09/2008, n. 39293). Ne consegue che ricorre la fattispecie di tentato omicidio, e non quella di lesioni personali, se il tipo di arma impiegata e specificamente l’idoneità offensiva della stessa, la sede corporea della vittima raggiunta dal colpo di arma e la profondità della ferita inferta inducano a ritenere la sussistenza in capo al soggetto agente del cosiddetto ‘animus necandi’. (Cass., Sez. I, 22/09/2010, n. 37516).

Gli esposti principi, giova ribadirlo, risultano puntualmente applicati dalla corte territoriale, la quale ha innanzitutto valorizzato la direzione perpendicolare del fendente, la notevole forza ad esso impressa e la profondità della ferita cagionata; la corte inoltre ha fondato il giudizio ricognitivo del dolo omicidiario alternativo in capo all’imputato considerando le parti anatomiche attinte, l’addome ed i fegato ed il sicuro pericolo di vita corso dalla vittima.

Quanto poi alla idoneità dell’azione lesiva a determinare l’evento morte, ha la consulenza medico legale accertato la gravissima emorragia provocata dalla coltellata, caratterizzata dalla perdita di 3000 cc, e lo stato di shock emorragico in cui versava la vittima al momento del ricovero e dell’intervento di urgenza al quale è stato immediatamente sottoposto per evitare l’esito esiziale.

Né appaiono apprezzabili le ragioni, sostanzialmente di merito, opposte dalla difesa ricorrente, dappoiché volte le medesime ad una ricostruzione della rissa in termini alternativi a quelli accreditati dai giudici di merito, in forme, come già detto, palesemente generiche ed aspecifiche.

3.2 Quanto, invece, all’impugnato diniego dell’attenuante del risarcimento del danno (sulla provocazione nulla ha argomentato la difesa ricorrente) va anche in questo caso ribadita la costante lezione interpretativa della corte di legittimità secondo la quale la riparazione del danno, perché possa condurre all’applicazione della relativa attenuante, deve essere effettiva, integrale e volontaria.

Quanto al primo requisito va verificato poi nel concreto se effettivamente e non soltanto nominalisticamente vi sia stato soddisfacimento della obbligazione sorta dal reato, indipendentemente dalla dichiarazione esplicitamente o implicitamente, in tutto o in parte rinunciataria della parte lesa.

Deve inoltre valutarsi se la somma pagata corrisponda alla reale entità del pregiudizio arrecato mediante considerazione oggettiva ed autonoma, anche in questo caso indipendentemente dalla valutazione del creditore danneggiato. D’altra parte è la stessa lettera della legge che fa riferimento, per l’applicazione dell’attenuante, al termine ‘interamente’.

Applicando la lezione anzidetta non può non convenirsi che il pagamento della somma di Euro 16.500,00 per un barbaro accoltellamento si appalesi del tutto irrilevante e che nessun rilievo ha nella fattispecie in esame l’accettazione della somma da parte della p.1.

Si conferma pertanto il seguente insegnamento: ‘Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 6 cod. pen., il risarcimento del danno deve essere integrale, comprensivo, quindi, della totale riparazione di ogni effetto dannoso, e la valutazione in ordine alla corrispondenza fra transazione e danno spetta al giudice, che può anche disattendere, con adeguata motivazione, finanche ogni dichiarazione satisfattiva resa dalla parte lesa. (La Corte ha precisato che la circostanza attenuante in oggetto ha natura soggettiva, perché la sua ‘ratio’ fonda sulla rilevanza che l’avvenuto risarcimento del danno anteriormente al giudizio assume quale prova tangibile dell’avvenuto ravvedimento del reo e, quindi, della sua minore pericolosità sociale)’ (Cass., Sez. IV, 14/07/2011, n. 34380; Cass., Sez. I, 29/09/1994, n. 11207, rv. 199623).

3. Alla stregua delle esposte considerazioni il ricorso va quindi dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ai sensi dell’art. 616 c.p.p. e di una somma in favore della Cassa delle ammende, somma che si stima equo fissare in Euro 1000,00.

P.Q.M.

 la Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

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