Il meccanismo procedurale di cui all’articolo 663 c.p.p. (che prevede, per il caso di condanne emesse nei confronti della stessa persona da giudici diversi per reati diversi, la determinazione, ad opera del P.M., della pena da eseguirsi, in osservanza delle norme sul concorso di pene) non ha violato i principi fissati nei nn. 96 e 98 dell’articolo 2 legge delega per l’emanazione del nuovo c.p.p. Infatti, in ossequio ai ricordati principi della legge delega, il suddetto articolo 663 c.p.p. prevede la notifica del provvedimento del Pubblico Ministero al condannato ed al suo difensore, mentre il combinato disposto degli articoli 663, 665, 666 c.p.p. e seguenti assicura il contraddittorio nei procedimenti incidentali in materia di esecuzione. Inoltre il coordinamento con i principi della delega anche attraverso la regolamentazione delle competenze degli organi (legge delega, articolo 2, n. 98) risulta assicurato dalla sottoponibilita’ delle determinazioni del P.M. in ordine alla pena da eseguirsi ai sensi dell’articolo 663 c.p.p., al controllo ed alla decisione del giudice dell’esecuzione ex articolo 666 c.p.p., di tal che, pur essendo il provvedimento del P.M. ex articolo 663 c.p.p. un atto di natura amministrativa, e’ sempre assicurata la garanzia di giurisdizionalita’
Suprema Corte di Cassazione
sezione I penale
sentenza 23 giugno 2016, n. 26340
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIOTTO Maria Cristin – Presidente
Dott. TARDIO Angela – Consigliere
Dott. CAVALLO Aldo – Consigliere
Dott. SANDRINI Enrico G. – Consigliere
Dott. MINCHELLA Antonio – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) n. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 806/2014 GIP TRIBUNALE di BRESCIA, del 17 ottobre 2014;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MINCHELLA ANTONIO;
lette le conclusioni del PG Dott. SPINACI Sante, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso.
RILEVATO IN FATTO
Con ordinanza in data 17.10.2014 il GIP del Tribunale di Brescia dichiarava inammissibile l’istanza di rideterminazione della pena avanzata da (OMISSIS), il quale aveva chiesto di applicare il criterio moderatore di cui all’articolo 78 c.p. in luogo dell’articolo 73 c.p., comma 2.
Rilevava il giudice che la richiesta di esclusione dell’articolo 73 c.p., comma 2, era gia’ stata avanzata nell’ambito di un incidente di esecuzione definito con ordinanza di rigetto in data 18.03.2011: si ribadiva che il condannato chiedeva di fare riferimento, ai fini di effettuare il cumulo delle pene inflitte in caso di concorso materiale di reati, alla pena residua espianda e non alla pena inflitta, ma il giudice osservava che detta prospettazione avrebbe fatto dipendere la determinazione della pena da un evento accidentale, quale appunto e’ il momento in cui il P.M. procede al cumulo in sede esecutiva. Pertanto, trattandosi di questione gia’ oggetto di precedente decisione, si dichiarava l’inammissibilita’ dell’istanza.
Avverso detta ordinanza propone ricorso l’interessato personalmente, deducendo come primo motivo la mancanza della motivazione: si sostiene che l’incidente di esecuzione verteva sull’applicazione del criterio dei cumuli parziali al fine di addivenire ad una rideterminazione della pena complessiva, ma l’ordinanza impugnata avrebbe motivato facendo riferimento ad un precedente incidente di esecuzione relativo ad una richiesta di riconoscimento della continuazione, per cui si trattava, in sostanza, di un provvedimento con motivazione apparente poiche’ non correlata alla richiesta; come secondo motivo si deduce erronea applicazione della legge, richiamando una memoria che invocava l’applicazione dell’articolo 73 c.p., comma 2, poiche’ non si era trattato di una pena unica ma di un cumulo di pene.
Era stata poi depositata una memoria nella quale si afferma che il P.M. ha finito per applicare una pena di specie diversa senza che vi sia stato contraddittorio tra le parti.
Il P.G. chiede dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere rigettato poiche’ infondato.
Per come visto in precedenza, il ricorrente ha avanzato una istanza diretta ad ottenere una rideterminazione della pena attualmente in espiazione. Il giudice dell’esecuzione non ha accolto questa richiesta, da un lato evidenziando che essa non era che la reiterazione di una precedente istanza gia’ oggetto di un diverso incidente di esecuzione e di un provvedimento reiettivo dell’anno 2011 e d’altro lato sottolineando che la prospettazione dell’interessato era fondata su di una affermazione non sostenibile e cioe’ il riferimento – ai fini del cumulo delle pene inflitte – non alle pene comminate bensi’ alle pene residue, cosi’ facendo dipendere quella operazione cumulativa non da un fattore oggettivo bensi’ da un fattore casuale, costituito dal momento in cui il P.M. si accinge all’operazione di cumulo.
Il ricorso dell’interessato si articola sulle seguenti doglianze: 1) apparenza della motivazione poiche’ il precedente incidente di esecuzione citato dal giudice avrebbe avuto un oggetto differente; 2) erroneita’ di applicazione dell’articolo 73 c.p., il quale dovrebbe essere azionato esclusivamente nel caso di plurime condanne a piu’ di ventiquattro anni di reclusione contenute in un’unica sentenza e non anche in quello di un cumulo di piu’ provvedimenti di condanna; 3) adozione di un provvedimento di cumulo da parte del P.M. con statuizione di una pena di specie differente da quella inflitta, senza previo esperimento di un contraddittorio.
Nessuna ragione di doglianza puo’ trovare accoglimento.
1. Il primo motivo si fonda su di una affermazione (e cioe’ sulla asserita diversita’ del precedente incidente di esecuzione) che non viene supportata da alcuna allegazione che consenta a questa Corte di verificare e valutare compiutamente la doglianza: essa resta una mera asserzione.
In proposito puo’ ritenersi ormai consolidato, nella giurisprudenza di legittimita’, il principio della cosiddetta autosufficienza del ricorso, inizialmente elaborato dalle sezioni civili di questa Corte, secondo il quale non puo’ accogliersi un ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicita’ della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione, tale cioe’ da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (Sez. 2, n. 26725 del 1 marzo 2013, Rv. 256723).
In particolare, e’ stato precisato che la condizione della specifica indicazione degli atti del processo, con riferimento ai quali si configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimita’, puo’ essere soddisfatta nei modi piu’ diversi (quali, ad esempio, l’integrale riproduzione dell’atto nel testo del ricorso, l’allegazione in copia, l’individuazione precisa dell’atto nel fascicolo processuale di merito), purche’ detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di Cassazione ad una ricerca di altri procedimenti (peraltro, nel caso di specie, nemmeno indicati con numeri o date). Ne discende che non possono accogliersi i motivi formulati secondo una tecnica redazionale di trascrizione, parziale ovvero pelagica, di singoli brani di prove dichiarative o di differenti procedimenti al fine di agganciare le proposte censure motivazionali ad una indebita frantumazione dei contenuti.
2. Il secondo motivo affronta la questione di merito vera e propria e cioe’ se sia legittimo o meno il provvedimento ed il suo riferimento alla corretta applicazione dell’articolo 73 c.p., comma 2.
La lezione interpretativa di questa Corte e’ data dal principio di diritto secondo cui il limite massimo di trenta anni di reclusione, previsto dall’articolo 78 c.p. per il caso di concorso di reati, non si applica nella ipotesi contemplata dall’articolo 73 c.p., comma 2 (Cass., Sez. 1, 17 giugno 1991, Rv. 187688).
Tale regola ermeneutica e’ condivisa dal Collegio.
Non puo’ infatti negarsi che tra le due discipline in esame (quella di cui all’articolo 78 c.p., portatore di un criterio moderatore e con esso di un limite massimo di pena espiabile in costanza di concorso di reati inseriti e considerati nell’ambito di un cumulo giuridico e quella di cui all’articolo 73 c.p., comma 2, disciplinante invece una ipotesi specifica e cioe’ quella in cui concorrono piu’ delitti per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, ipotesi in cui la pena da applicare puo’ superare il limite di cui alla norma anzidetta giacche’ e’ stata dal Legislatore individuata nella pena dell’ergastolo) non sussista incompatibilita’ alcuna. Palese infatti la natura del rapporto intercorrente tra le due norme, data dal carattere speciale dell’articolo 73 c.p., comma 2, rispetto alla disciplina di carattere generale articolata invece dall’articolo 78 c.p. Diversamente opinando infatti, a parte l’evidente logica sistematica complessiva desumibile dalla lettura indicata dalla Corte, si perverrebbe alla singolare conseguenza che mai la disciplina di cui all’articolo 73 c.p. troverebbe applicazione (Sez. 1, n. 6560 del 18 gennaio 2011, Rv.249801).
Ed ancora, non puo’ accogliersi la prospettazione di un criterio – quello di cui all’articolo 73 c.p., comma 2 – applicabile esclusivamente quando le pene superiori agli anni ventiquattro di reclusione siano conseguenza di una sola sentenza di condanna: non vi e’ alcuna ragione logica che sorregga questa affermazione, che relegherebbe la norma citata ad una applicazione del tutto residuale. Parimenti, anche su questo punto, nella giurisprudenza di questa Corte non vi e’ dubbio che debba trovare applicazione la regola stabilita dall’articolo 73 c.p., comma 2, anche quando concorrano piu’ delitti separatamente giudicati per ciascuno dei quali sia stata inflitta la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni (Sez. 1, n. 13042 del 9 gennaio 2015, Rv. 263093).
3. La terza ragione di doglianza contesta la legittimita’ del potere del P.M. di procedere alla formazione di un cumulo – e, nella fattispecie, alla applicazione di una pena di specie diversa da quella inflitta originariamente – senza alcun contraddittorio.
Tuttavia questa Corte, su questo specifico tema ha gia’ affermato che il meccanismo procedurale di cui all’articolo 663 c.p.p. (che prevede, per il caso di condanne emesse nei confronti della stessa persona da giudici diversi per reati diversi, la determinazione, ad opera del P.M., della pena da eseguirsi, in osservanza delle norme sul concorso di pene) non ha violato i principi fissati nei nn. 96 e 98 dell’articolo 2 legge delega per l’emanazione del nuovo c.p.p. Infatti, in ossequio ai ricordati principi della legge delega, il suddetto articolo 663 c.p.p. prevede la notifica del provvedimento del Pubblico Ministero al condannato ed al suo difensore, mentre il combinato disposto degli articoli 663, 665, 666 c.p.p. e seguenti assicura il contraddittorio nei procedimenti incidentali in materia di esecuzione. Inoltre il coordinamento con i principi della delega anche attraverso la regolamentazione delle competenze degli organi (legge delega, articolo 2, n. 98) risulta assicurato dalla sottoponibilita’ delle determinazioni del P.M. in ordine alla pena da eseguirsi ai sensi dell’articolo 663 c.p.p., al controllo ed alla decisione del giudice dell’esecuzione ex articolo 666 c.p.p., di tal che, pur essendo il provvedimento del P.M. ex articolo 663 c.p.p. un atto di natura amministrativa, e’ sempre assicurata la garanzia di giurisdizionalita’ (Sez. 1, n. 4556 del 28 novembre 1991, Rv. 188953).
In altri termini, la costante e reiterata lezione interpretativa di questa Corte (Sez. 1, 31 gennaio 1995, n. 602; Sez. 1, 13 maggio 1998, n. 2687; Sez. 1, 12 gennaio 1993, n. 45; Sez. 1, 30 ottobre 1991) e’ nel senso che il cumulo delle pene abbia natura amministrativa e che esso rientri tra i compiti del P.M. al fine di rendere possibile una piu’ rapida esecuzione delle pene. Cio’ non esclude, insegna ancora questo giudice di legittimita’, che anche il giudice dell’esecuzione possa procedere all’unificazione delle pene concorrenti allorche’ le questioni connesse al cumulo siano sollevate nell’ambito del procedimento di esecuzione previsto dall’articolo 666 c.p.p.. In tal caso il provvedimento giurisdizionale e’ idoneo ad acquisire una sua definitivita’ nei limiti della preclusione, fino a quando, cioe’, il sovvenire di fatti nuovi non ne giustifichino la possibilita’ di modificazione (Cass., Sez. Unite, 21 gennaio 2010, n. 18288).
Il ricorso va dunque rigettato e cio’ comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ex articolo 616 c.p.p..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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