Corte di Cassazione, sezione I penale, sentenza 18 ottobre 2016, n. 44193

Riconosciuta la colpevolezza e quindi la condanna per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (ex articoli 110 e 416 bis del cp) in quanto la Cassazione non ha ravvisato una violazione dell’articolo 5 della convenzione europea dei diritti dell’uomo perchè la decisione irrevocabile non presentava aspetti di illegalità convenzionale

Suprema Corte di Cassazione

sezione I penale

sentenza 18 ottobre 2016, n. 44193

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAZZEI Antonella P. – Presidente
Dott. BONI Monica – Consigliere
Dott. ESPOSITO Aldo – Consigliere
Dott. APRILE Stefano – Consigliere
Dott. MAGI Raffaello – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato il (OMISSIS);

avverso l’ordinanza del 18/11/2015 della CORTE APPELLO di PALERMO;

sentita la relazione svolta dal Consigliere Dr. RAFFAELLO MAGI;

lette le conclusioni del PG Dr. ORSI Luigi, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di Appello di Palermo, quale giudice della esecuzione, con ordinanza emessa in data 18 novembre 2015 ha dichiarato inammissibile l’istanza proposta nell’interesse di (OMISSIS), tesa ad ottenere la revoca della sentenza di condanna emessa in data 25 marzo 2013 (divenuta definitiva il 9 maggio 2014) in riferimento a quanto previsto dall’articolo 46 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali (da ora in avanti Conv. Eur.) e dall’articolo 673 c.p.p. (o articolo 670).

Prima di rievocare – in sintesi – le ragioni di tale decisione, impugnata con il ricorso qui in trattazione, conviene evidenziare taluni segmenti della sequenza procedimentale che ha visto affermata la penale responsabilita’ di (OMISSIS) per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (articoli 110 e 416 bis c.p.) commesso sino al (OMISSIS).

2. La decisione emessa in secondo grado dalla Corte di Appello di Palermo il 29 giugno del 2010 (in rapporto a quanto deciso dal Tribunale di Palermo in data 11 dicembre 2004) ha mandato assolto (OMISSIS) dal reato di concorso esterno nella associazione mafiosa denominata cosa nostra per l’arco temporale successivo al 1992 mentre ne ha affermato la penale responsabilita’ per il periodo antecedente (con assorbimento delle condotte di concorso esterno nella associazione semplice in quelle di concorso esterno nella associazione mafiosa, successive – queste ultime – al 28 settembre 1982) con condanna alla pena di anni sette di reclusione.

3. Questa Corte di Cassazione con sentenza emessa in data 9 marzo 2012 (num. 15727 del 2012) ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal Procuratore Generale territoriale avverso la parziale assoluzione (divenuta pertanto definitiva) ed ha annullato con rinvio la parte di decisione – a lui sfavorevole – che era stata impugnata dall’imputato.

4. La Corte di Appello di Palermo, quale giudice del rinvio, ha, con sentenza emessa in data 25 marzo 2013, nuovamente confermato la parziale affermazione di penale responsabilita’ del (OMISSIS) (per il reato di concorso esterno commesso sino all’anno 1992) con condanna dell’imputato alla pena di anni sette di reclusione.

5. Questa Corte di Cassazione con sentenza emessa in data 9 maggio 2014 (num. 28225 del 2014) ha respinto il nuovo ricorso proposto dal (OMISSIS) avverso la decisione emessa dal giudice del rinvio. La decisione del 25 marzo 2013 e’ pertanto divenuta definitiva ed e’ attualmente in esecuzione.

6. In rapporto al contenuto delle decisioni sin qui indicate, va in sintesi affermato che le contestazioni formulate a carico del (OMISSIS) erano cosi’ formulate: per il periodo decorso da epoca imprecisata fino al 28 settembre 1982, concorso eventuale (o c.d. esterno) nella associazione per delinquere ex articolo 416 c.p., commi 1, 4 e 5, denominata cosa nostra, mettendo a disposizione della stessa l’influenza e il potere derivante dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, in tal modo partecipando al mantenimento ed al rafforzamento, oltre che alla espansione della associazione medesima: cio’ attraverso la partecipazione a incontri con esponenti anche di vertice di cosa nostra, e intrattenendo, tramite essi (ossia tramite (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)), rapporti continuativi con l’associazione e, quindi, determinando nei capi di cosa nostra la consapevolezza della assunzione di responsabilita’, da parte del (OMISSIS) medesimo, di assumere condotte volte ad influenzare, a vantaggio della associazione per delinquere, soggetti operanti nel mondo istituzionale e imprenditoriale; (…) per il periodo trascorso dal (OMISSIS) ad oggi (con affermazione di responsabilita’ limitata al 1992, n.d.e.), concorso esterno nell’associazione mafiosa cosa nostra (articolo 416 bis c.p., commi 1, 4 e 6), con condotte analoghe a quelle descritte sopra (…).

7. Quanto al dato temporale va ricordato che per il periodo 1974/1978 (concorso esterno in associazione semplice) risulta essersi formato giudicato interno di responsabilita’ gia’ a seguito della decisione emessa dalla 5 Sezione Penale di questa Corte in data 9 marzo 2012.

Cio’ in rapporto alla considerazione della valenza dei dati dimostrativi relativi alla condotta tenuta dal (OMISSIS) in sede di conclusione di un “accordo di protezione” tra (OMISSIS) ed alcuni autorevoli esponenti di cosa nostra, accordo reso possibile dal (OMISSIS) e da cui scaturirono effetti favorevoli per entrambi i contraenti (cosi’ la sentenza del 9 maggio 2014, emessa da questa Corte, nella parte rievocativa dell’esito dei precedenti giudizi).

In riferimento al periodo intercorso tra il 1978 ed il 1982 il rapporto tra il (OMISSIS) e la consorteria mafiosa (in particolare con i suoi esponenti (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)) si era protratto – ad avviso della Corte siciliana in sede di rinvio – senza soluzione di continuita’, cosi’ come si era protratta l’elargizione di denaro verso cosa nostra da parte dell’imprenditore (OMISSIS).

In senso analogo, la Corte del rinvio valorizzava elementi di prova reputati idonei a sostenere la conclusione di una protrazione di tali “pagamenti”, sempre avvenuti tramite il (OMISSIS), anche in epoca successiva alla morte del (OMISSIS) e sino all’anno 1992, sia pure con diversita’ soggettiva dei destinatari finali ( (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ lo stesso (OMISSIS)).

8. Nella decisione emessa in data 9 maggio 2014 questa Corte di legittimita’, nel ritenere infondati i motivi di ricorso affermava, per quanto qui rileva (come meglio potra’ apprezzarsi in seguito) che:

a) non potevano accogliersi i rilievi in punto di genericita’, imprecisione e contraddittorieta’ intrinseca del capo di imputazione (formulati anche in rapporto al basso tasso di tipicita’ che connota il reato di concorso esterno, con correlata esigenza di assoluta precisione nella indicazione dei fatti che l’accusa ritiene riconducibili alla fattispecie) sia perche’ in parte gia’ decisi e respinti nella decisione rescindente, sia per le considerazioni ulteriori che qui si riportano, tratte dalla motivazione della decisione de qua (… in proposito la sentenza di annullamento – gia’ investita da identica doglianza – nel ritenere infondate le censure, ha osservato che (OMISSIS) e’ stato tratto a giudizio per rispondere del delitto di concorso esterno nell’associazione mafiosa capeggiata, dapprima, da (OMISSIS) e (OMISSIS) e, successivamente, da (OMISSIS), e che, sin da prima del 1982, si e’ avvalso dei poteri derivanti dalla sua importante posizione imprenditoriale e dei rapporti di rilievo penale con (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS).. per rafforzare il sodalizio e influenzare individui operanti nel mondo finanziario e imprenditoriale. La sentenza di annullamento ha, inoltre, evidenziato che (OMISSIS) e’ stato condannato, in primo luogo, proprio per avere determinato il suddetto rafforzamento dell’associazione, esercitando i poteri di influenza che derivavano dalla precisa collocazione nel mondo imprenditoriale dell’epoca e dai rapporti personali con i detti vertici di “cosa nostra” in almeno un incontro…….. di pianificazione, conseguendo un risultato concreto, cioe’ quello dell’esborso, da parte dell’area “Fininvest”, di somme cospicue, versate reiteratamente grazie all’intermediazione dell’imputato – per un certo numero di anni alla consorteria mafiosa.

Il fatto contestato e’, quindi, sempre stato il medesimo, salve alcune contestazioni di dettaglio cadute nel corso del processo, come quella di avere provveduto al ricovero di latitanti…. Parimenti precluse sono le doglianze riguardanti il capo d’imputazione dedotte nella prospettiva dell’articolo 6, par. 3, lettera a) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Quinta Sezione Penale di questa Corte ha, in proposito, rilevato l’assoluta genericita’ delle censure, essendo stata omessa qualsiasi specificazione dei concreti limiti incontrati al pieno esercizio del diritto di difesa rispetto alle accuse mosse all’imputato, nonche’ delle ragioni di diritto sottese a tale rilievo”.);

b) non potevano accogliersi i numerosi rilievi formulati in punto di ricorrenza dell’elemento soggettivo e di quello oggettivo del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, nei diversi periodi oggetto di contestazione;

c) non potevano accogliersi i rilievi formulati in rapporto alla dedotta violazione dei limiti imposti al giudice del rinvio dai contenuti della pronunzia rescindente, ne’ quelli in punto di incompletezza argomentativa della decisione impugnata in riferimento alle critiche difensive in punto di modalita’ ricostruttive dei fatti rilevanti o attendibilita’ delle fonti dichiarative.

In estrema sintesi, veniva ritenuta esente da vizi logico-argomentativi l’elaborazione probatoria contenuta nella decisione – allora impugnata – sia in rapporto a quanto avvenuto nel periodo 1978-1982 che in riferimento a quanto avvenuto nel periodo 1982-1992

In particolare, quanto alla avvenuta applicazione – nel giudizio di merito – delle coordinate interpretative derivanti dai plurimi arresti delle Sezioni Unite sul tema del concorso esterno in associazione mafiosa questa Corte – nella decisione del 9 maggio 2014 – ha affermato che.. la Corte d’appello di Palermo ha correttamente applicato i principi sinora illustrati, in quanto, dopo avere descritto le specifiche condotte poste in essere da (OMISSIS) nel periodo 1978-1982, ha ricostruito l’effettivo nesso condizionalistico tra le stesse e il fatto di reato storicamente verificatosi nelle sue caratteristiche essenziali sia in positivo che mediante l’operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica dell’imputato quale concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura, generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile plausibilita’ empirica. Sulla base di un corretto ragionamento inferenziale, ancorato ad un solido paradigma eziologico e all’intera evidenza probatoria disponibile e di un accertamento condotto ex post, la Corte territoriale e’ pervenuta alla conclusione, immune da vizi logici e giuridici, circa la reale efficacia condizionante della condotta atipica, quale concorrente esterno, di (OMISSIS). Questi, infatti, nella veste di soggetto costantemente preposto, anche nel periodo 1978-1982, alla consegna agli esponenti del sodalizio mafioso, per conto di (OMISSIS), dei soldi costituenti il corrispettivo della protezione assicurata dall’associazione mafiosa all’imprenditore, agiva, essendo a conoscenza dei metodi e dei fini della stessa, nella consapevolezza e volontarieta’ del suo determinante contributo causale ai fini della realizzazione, almeno parziale, del programma criminoso perseguito dall’organizzazione mafiosa e della conservazione della stessa che traeva dalla costante riscossione delle cospicue somme di denaro una stabile fonte di arricchimento, immediatamente incidente sulla sua perdurante operativita’. Quanto sin qui esposto consente di affermare che non sono fondate le censure difensive. Esse, da un lato, contestano genericamente la configurabilita’ dell’elemento soggettivo del reato, senza indicare gli specifici passaggi del ragionamento viziato del giudice di merito. Sotto altro profilo evocano una non piu’ attuale definizione del concorrente esterno quale estraneo all’associazione, cui quest’ultima si rivolge nel momento in cui la “fisiologia” della vita del sodalizio “entra in fibrillazione”, attraversando una fase patologica che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un esterno (Sez. U., n. 16 del 5 ottobre 1994). Tale orientamento, come in precedenza accennato, puo’ dirsi ormai definitivamente superato alla luce della successiva elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte sopra illustrata (Sez. U., n. 33748 del 12 luglio 2005)…

Ed ancora, nel ritenere infondate le doglianze in punto di ricostruzione dell’elemento psicologico, cosi’ come la obiezione relativa alla omessa considerazione della possibile posizione di vittima del (OMISSIS) si e’ affermato che.. non meritano accoglimento neppure le censure difensive riguardanti il ruolo di “vittima” di (OMISSIS) (al pari dell’amico (OMISSIS)) e l’omessa specificazione dei vantaggi tratti dall’imputato dall’opera di mediazione svolta tra (OMISSIS) e “cosa nostra” palermitana. Con riguardo al primo profilo il Collegio osserva preliminarmente che la sentenza rescindente ha gia’ stabilito che la dimostrazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa non passa attraverso la necessaria dimostrazione della sussistenza anche del reato di estorsione da parte di (OMISSIS) e di “cosa nostra” e che la negazione della commissione di fatti di estorsione da pare di tali soggetti non fa venir meno la configurabilita’ del reato (cfr. f. 114 della sentenza del 9 marzo 2012).

Cio’ posto i giudici territoriali, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, hanno, all’esito del puntuale esame delle risultanze probatorie acquisite, sottolineato la posizione paritaria dei partecipanti all’accordo di protezione e hanno descritto l’assenza di qualsiasi costrizione nella condotta dell’imputato che, avvalendosi dei rapporti personali di cui gia’ godeva a (OMISSIS) con taluni esponenti di “cosa nostra” e dell’amicizia con (OMISSIS) che gli aveva permesso di caldeggiare la propria iniziativa con speciale efficacia presso di essi, rendeva possibile, con la sua mediazione, un accordo di reciproco interesse tra i vertici dell’associazione mafiosa, nella loro posizione rappresentativa, e l’imprenditore (OMISSIS), suo amico. Nel sottolineare la decisivita’ dell’opera di (OMISSIS) nel dare vita a questo accordo fonte di reciproci vantaggi per i contraenti, non e’ stata considerata determinante – in coerenza con le indicazioni offerte dalla sentenza rescindente (cfr. f. 113 e ss.) – l’illustrazione del vantaggio del concorrente esterno ai fini della configurabilita’ del reato previsto dagli articoli 110 e 416 bis c.p., essendo richiesta, in tale ottica, soltanto la prova della condotta che determina la conservazione o il rafforzamento dell’associazione e non anche il requisito del vantaggio, patrimoniale o meno, del soggetto agente. Non meritano accoglimento le censure concernenti la configurabilita’ del dolo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa. In proposito la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato, con i ragionamenti probatori in precedenza illustrati, che, anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuita’ dei pagamenti di (OMISSIS) in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operativita’, del suo rafforzamento e della sua espansione.

I richiami difensivi non colgono, quindi, nel segno laddove denunciano, sia in relazione al periodo in esame che a quello precedente, violazione di legge ed erronea applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte. Le doglianze, infatti, pur muovendo da una condivisibile premessa in diritto, prescindono, nella concreta fattispecie, da una lettura organica della motivazione della sentenza di secondo grado in ordine all’elemento soggettivo del reato previsto dagli articoli 110 e 416 bis c.p. ed estrapolano dal contesto giustificativo della decisione singoli passaggi argomentativi della sentenza impugnata. Quest’ultima, invero, dopo un ampio ed articolato ragionamento fondato sul puntuale esame delle risultanze probatorie, si caratterizza per considerazioni conclusive pienamente rispondenti alla struttura del dolo e per il corretto richiamo ai due momenti della volizione e della rappresentazione che hanno investito, oltre agli elementi essenziali del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, il contributo causale fornito dall’imputato alla realizzazione del fatto tipico, nella consapevolezza e volonta’ di interagire sinergicamente con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del medesimo reato…

9. Cio’ posto, la domanda rivolta dalla difesa del (OMISSIS) al giudice della esecuzione – nel caso in esame la Corte di Appello di Palermo – e’ ricollegata, come si e’ detto in premessa, alla prospettata applicabilita’ dell’articolo 46 della Conv. Eur. nella parte in cui tale norma prevede l’impegno delle Alte Parti contraenti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le controversie di cui sono parte.

9.1 La decisione cui si compie riferimento nell’istanza e’ quella emessa nel caso Contrada contro Italia dalla Quarta Sezione della Corte Europea dei Diritto dell’uomo (da ora in avanti CEDU) in data 14 aprile 2015 (divenuta definitiva il 14 settembre 2015 essendo stata respinta in via preliminare la richiesta di rinvio alla Grande Camera formulata dal governo italiano).

Con tale sentenza e’ stata accertata dalla CEDU, nel giudizio interno definito nei confronti di (OMISSIS) con sentenza emessa il 25 febbraio del 2006 dalla Corte di Appello di Palermo, divenuta irrevocabile in data 8 gennaio 2008, l’avvenuta violazione dell’articolo 7 Conv.Eur. con il correlato obbligo per lo Stato italiano di versare al (OMISSIS) la somma di Euro 10.000,00 per il danno morale.

L’istanza proposta nell’interesse del (OMISSIS) si fonda sulla considerazione della assoluta identita’ di condizione tra i due soggetti (solo il primo, (OMISSIS), vittorioso in sede CEDU), fatto da cui deriverebbe – in tesi – l’obbligo dello Stato italiano, in tutte le sue articolazioni, di provvedere alla revoca della decisione affermativa di penale responsabilita’. Le argomentazioni difensive verranno riprese in sede di illustrazione dei motivi di ricorso.

9.2. Va altresi’ ricordato che nella parte valutativa della consistenza degli argomenti portati dal ricorrente (OMISSIS), la CEDU nella decisione citata ha affermato quanto segue (si riporta stralcio per comodita’ di consultazione).

a) I principi derivanti dalla giurisprudenza della Corte 60. La Corte rammenta che i principi generali in materia del principio nulla poena sine lege, derivanti dall’articolo 7 della Convenzione, sono sintetizzati nella sentenza Del Rio Prada c. Spagna (GC) (n. 42750/09, §§ 77-80, CEDU 2013), le cui parti pertinenti sono riportate qui di seguito. Tali principi sono richiamati anche nella sentenza Rohlena c. Repubblica ceca (GC) (n. 59552/08, § 50, 27 gennaio 2015): “77. La garanzia sancita all’articolo 7, che e’ un elemento essenziale dello stato di diritto, occupa un posto preminente nel sistema di protezione della Convenzione, come sottolineato dal fatto che non e’ permessa alcuna deroga ad essa ai sensi dell’articolo 15 neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione. Come deriva dal suo oggetto e dal suo scopo, essa dovrebbe essere interpretata e applicata in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (S. W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, rispettivamente § 34, serie A n. 335-B, e § 32, serie A n. 335-C, e (Kafkaris c. Cipro (GC), n. 21906/04, § 137, CEDU 2008).

78. L’articolo 7 della Convenzione non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato (si vedano, per quanto riguarda l’applicazione retroattiva di una pena, Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, § 36, serie A n. 307 A, Jamil c. Francia, 8 giugno 1995, § 35, serie A n. 317 8, Ecer e Zeyrek c. Turchia, nn. 29295/95 e 29363/95, § 36, CEDU 2001 2, e Mihai Toma c. Romania, n. 1051/06, §§ 26-31, 24 gennaio 2012). Esso sancisce anche, in maniera piu’ generale, il principio della legalita’ dei delitti e delle pene – “nullum crimen, nulla poena sine lege” – (Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, § 52, serie A n. 260 A). Se vieta in particolare di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei reati, esso impone anche di non applicare la legge penale in modo estensivo a svantaggio dell’imputato, ad esempio per analogia (Coeme e altri c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, CEDU 2000-7; per un esempio di applicazione di una pena per analogia, si veda la sentenza Ba5kaya e OkguoOlu c. Turchia (GC), nn. 23536/94 e 24408/94, §§ 42-43, CEDU 1999 4). 79. Di conseguenza la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito e’ soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio puo’ sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilita’ penale e di quale pena e’ passibile per tali atti (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 29, Recueil des arrets et decisions 1996 5, e Kafkaris, sopra citata, § 140).

Pertanto, il compito della Corte e’, in particolare, quello di verificare che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha comportato l’esercizio dell’azione penale e la condanna, esistesse una disposizione di legge che rendeva l’atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione (Coeme e altri, sopra citata, § 145, e Achour c. Francia (GC), n. 67335/01, § 43, CEDU 2006 4)”.

61. La Corte rammenta anche che non ha il compito di sostituirsi ai giudici nazionali nella valutazione e nella qualificazione giuridica dei fatti, purche’ queste si basino su un’analisi ragionevole degli elementi del fascicolo (si veda, mutatis mutandis, Florin Ionescu c. Romania, n. 24916/05, § 59, 24 maggio 2011). Piu’ in generale, la Corte rammenta che sono in primo luogo le autorita’ nazionali, in particolare le corti e i tribunali, a dover interpretare la legislazione interna. Il suo ruolo si limita dunque a verificare la compatibilita’ con la Convenzione degli effetti di tale interpretazione (Waite e Kennedy c. Germania (GC), n. 26083/94, § 54, CEDU 1999-I, Korbely c. Ungheria, (GC), n. 9174/02, §§ 72-73, CEDU 2008, e Kononov c. Lettonia (GC), n. 36376/04, § 197, CEDU 2010).

62. Tuttavia, la Corte deve godere di un potere di controllo piu’ ampio quando il diritto tutelato da una disposizione della Convenzione, in questo caso l’articolo 7, richiede che vi sia una base legale per poter infliggere una condanna e una pena. L’articolo 7 § 1 esige che la Corte esamini se la condanna del ricorrente si fondasse all’epoca su una base legale. In particolare, essa deve assicurarsi che il risultato al quale sono giunti i giudici nazionali competenti fosse conforme con l’articolo 7 della Convenzione. L’articolo 7 diverrebbe privo di oggetto se si accordasse un potere di controllo meno ampio alla Corte (si veda Kononov, sopra citata, § 198).

63. In definitiva, la Corte deve esaminare se la condanna del ricorrente si fondasse su una base sufficientemente chiara (si veda Kononov, sopra citata, § 199; Rohlena, sopra citata, § 5153).

Applicazione dei principi suddetti al caso di specie

4. La Corte ritiene che la questione che si pone nella presente causa sia quella di stabilire se, all’epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Si deve dunque esaminare se, a partire dal testo delle disposizioni pertinenti e con l’aiuto dell’interpretazione della legge fornita dai tribunali interni, il ricorrente potesse conoscere le conseguenze dei suoi atti sul piano penale.

65. La Corte osserva anzitutto che, nel caso di specie, il ricorrente e’ stato condannato a una pena di dieci anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso con una sentenza emessa dal tribunale di Palermo 5 aprile 1996 riguardo a fatti compiuti tra il 1979 e il 1988. Nella parte in diritto della sentenza, tale concorso veniva definito “eventuale” o “esterno”. La condanna del ricorrente, dapprima annullata da una sentenza della corte d’appello di Palermo, fu poi confermata da un’altra sezione di quest’ultima e, in via definitiva, da una sentenza della Corte di cassazione.

66. La Corte fa notare che non e’ oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale. Ora, come ha giustamente ricordato il tribunale di Palermo nella sua sentenza del 5 aprile 1996 (si veda il paragrafo 7 supra), l’esistenza di questo reato e’ stata oggetto di approcci giurisprudenziali divergenti.

67. L’analisi della giurisprudenza citata dalle parti (si vedano i paragrafi 26-30 supra) dimostra che la Corte di cassazione ha menzionato per la prima volta il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nella sua sentenza Cillari, n. 8092 del 14 luglio 1987. Nel caso di specie, la Corte di cassazione ha contestato l’esistenza di un tale reato e ribadito questa posizione in altre sentenze successive, in particolare Agostani, n. 8864 del 27 giugno 1989 e Abbate e Clementi, nn. 2342 e 2348 del 27 giugno 1994.

68. Nel frattempo, in altre cause, la Corte di cassazione ha riconosciuto l’esistenza del reato di concorso eventuale in associazione di tipo mafioso (si vedano la sentenza Altivalle, n. 3492, del 13 giugno 1987 e, successivamente, Altomonte, n. 4805 del 23 novembre (OMISSIS), Turiano, n. 2902 del 18 giugno 1993 e Di Corrado, del 31 agosto 1993).

69. Tuttavia, e’ solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno.

70. In questo contesto, l’argomento del ricorrente secondo il quale, all’epoca della perpetrazione dei fatti (1979-1988), la giurisprudenza interna in materia non era in alcun modo contraddittoria, non puo’ essere accolto.

71. Inoltre, la Corte considera che il riferimento del Governo alla giurisprudenza in materia di concorso esterno, che si e’ sviluppata a partire dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso, ossia prima dei fatti ascritti al ricorrente (si veda il paragrafo 50 supra), non tolga nulla a questa constatazione. Le cause menzionate dal governo convenuto riguardano certamente lo sviluppo giurisprudenziale della nozione di “concorso esterno”. Tuttavia, i casi evidenziati non riguardano il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che e’ oggetto del presente ricorso, ma dei reati diversi, ossia la cospirazione politica attraverso la costituzione di una associazione e gli atti di terrorismo. Pertanto, non si puo’ dedurre dallo sviluppo giurisprudenziale citato l’esistenza nel diritto interno del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che si differenzia per la sua stessa sostanza dai casi menzionati dal Governo, e che, come sopra ricordato, (paragrafi 29 e 30 supra), e’ stato oggetto di uno sviluppo giurisprudenziale distinto e posteriore rispetto a questi ultimi.

72. La Corte osserva anche che, nella sua sentenza del 25 febbraio 2006, la corte d’appello di Palermo, pronunciandosi sull’applicabilita’ della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si e’ basata sulle sentenze Demitry, n. 16 del 5 ottobre 1994, Mannino n. 30 del 27 settembre 1995, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino, n. 33748 del 17 luglio 2005 (si veda il paragrafo 18 supra), tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente.

73. La Corte osserva per di piu’ che la doglianza del ricorrente relativa alla violazione del

principio della irretroattivita’ e della prevedibilita’ della legge penale, sollevata dinanzi a tutti i gradi di giudizio (si vedano i paragrafi 10 e 20 supra), non e’ stata oggetto di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali, essendosi questi ultimi limitati ad analizzare in dettaglio l’esistenza stessa del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno senza tuttavia stabilire se un tale reato potesse essere conosciuto dal ricorrente all’epoca dei fatti a lui ascritti (si vedano i paragrafi 15, 17 e 18 supra).

74. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione e’ stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry.

75. Percio’, all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilita’ penale derivante dagli atti da lui compiuti (Del Rio Prada (GC), sopra citata, §§ 79 e 111-118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, sopra citata e, mutatis mutandis, Alimugaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154-162, 7 febbraio 2012).

76. La Corte ritiene che questi elementi siano sufficienti per concludere che vi e’ stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione.

10. La Corte di Appello di Palermo nel dichiarare inammissibile la domanda, all’esito di udienza camerale e con provvedimento collegiale, afferma, in sintesi, che:

a) i due giudizi definitivi hanno evidenti analogi’e sotto il profilo temporale, dal momento che le condotte ritenute punibili a titolo di concorso esterno nei distinti giudizi sono “terminate” prima della pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte relativa al caso Demitry dell’ottobre 1994;

b) l’articolo 673 c.p.p. non prevede, tuttavia, la possibilita’ di revocare una decisione definitiva li’ dove venga in rilievo una analogia con posizione processuale relativa ad un diverso giudizio interno nel cui ambito sia stata riconosciuta esistente una violazione della Conv. Eur.. Tale possibilita’ e’ prevista dal testo della norma nei soli casi di abrogazione o declaratoria di illegittimita’ della norma incriminatrice e la norma non puo’ essere interpretata in modo estensivo o analogico;

c) non puo’ ipotizzarsi, peraltro, la rilevanza di una ipotetica questione di legittimita’ costituzionale, ne’ in riferimento alle norme incriminatrici applicate (articoli 110 e 416 bis c.p.), ne’ in riferimento allo stesso articolo 673 c.p.p..

In particolare, circa tale ultima considerazione, il giudice del merito osserva che da un lato la questione di legittimita’ costituzionale delle norme incriminatrici sarebbe da ritenersi manifestamente infondata, posto che a venire in rilievo e’ esclusivamente una frazione temporale pregressa della loro applicazione (fino al 1994), dall’altro non puo’ attribuirsi alla decisione (OMISSIS) contro Italia la natura di sentenza pilota (tale da determinare la cogente necessita’ di risolvere un denunziato problema di carattere strutturale dell’ordinamento interno). Sul punto, si evidenzia che la stessa decisione invocata non individua un problema di carattere strutturale dell’ordinamento interno ma pone l’accento su un effetto – contrario alla Convenzione – di una vicenda interpretativa relativa al succedersi di decisioni contrastanti in sede di legittimita’, senza fornire alcuna indicazione circa i rimedi da adottare per riconoscere l’effettivita’ dei diritti convenzionali a chiunque versi nella condizione di (OMISSIS). La valutazione della CEDU e’ correlata essenzialmente al caso esaminato, come emerge dal fatto che in detta sentenza si evidenzia come il tema del divieto di retroattivita’ e della prevedibilita’ della legge penale era stato posto dal (OMISSIS) in tutti i gradi di giudizio e non era stato oggetto di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali.

Si evidenzia, infine, che la sentenza non puo’ ritenersi espressiva di un “diritto consolidato”, avendo carattere innovativo ed essendo stata deliberata da una sezione semplice.

11. Avverso detta ordinanza ha proposto tempestivo ricorso per cassazione (OMISSIS), a mezzo dei difensori.

Il ricorso, preceduto da una sintesi degli accadimenti rilevanti e da un’ampia esposizione di temi generali in diritto, articola tre motivi.

11.1 In premessa, si afferma, in sintesi, che:

a) la decisione emessa dalla CEDU nel caso (OMISSIS) ha accertato un deficit di prevedibilita’ delle conseguenze penali delle condotte poste in essere dal (OMISSIS) tra il 1979 ed il 1988 – rilevante ai sensi dell’articolo 7 Conv. Eur. – per scarsa chiarezza delle norme applicate, posto che solo con la decisione del caso Demitry (ottobre 1994) le Sezioni Unite di questa Corte hanno elaborato in senso compiuto la tesi della applicabilita’ delle norme sul concorso eventuale (articolo 110) al reato associativo di stampo mafioso (articolo 416 bis) risolvendo in tal senso il conflitto interpretativo sorto in precedenza;

b) la condanna definitiva emessa a carico del (OMISSIS) concerne fatti di concorso esterno avvenuti sino al 1992 (e, come si e’ detto collocati nel tempo a far data dal 1974, nde), dunque pacificamente antecedenti all’ottobre del 1994. Il caso e’ pertanto identico a quello gia’ esaminato dalla CEDU in una decisione cui va attribuita portata generale, posto che viene evidenziato un problema dell’ordinamento interno di natura “strutturale” con effetti generali. L’estensione degli effetti favorevoli della decisione (OMISSIS) al (OMISSIS) risulterebbe – in tale prospettiva – atto dovuto in virtu’ di quanto previsto dall’articolo 46 Conv. Eur., come stabilito in situazione analoga (a proposito dei cd. fratelli minori di Scoppola) da questa Corte di legittimita’ (Sez. U. 2012 caso Ercolano) e dalla Corte Costituzionale (sent. n.210 del 2013) in rapporto ai contenuti della nota decisione Scoppola contro Italia del settembre 2009;

c) non puo’ negarsi tale natura “di principio” della sentenza (OMISSIS), data la tipologia di violazione riscontrata (relativa al principio di legalita’ penale di cui all’articolo 7 Con.Eur.) sia pure limitatamente al periodo 1982-1994 (durante il quale si e’ registrato il conflitto interpretativo circa l’applicabilita’ dell’articolo 110 alla fattispecie di parte speciale rappresentata dall’articolo 416 bis c.p.).

Cio’ comporta che l’obbligo di conformazione, nascente dall’articolo 46 Conv. Eur. non puo’ dirsi limitato alla misura individuale nei confronti della parte vittoriosa (nel caso in esame (OMISSIS)) ma include la necessita’ di adottare le “misure di carattere generale” necessarie a rimuovere le cause strutturali della violazione riscontrata, secondo le linee tracciate dalla stessa giurisprudenza CEDU (Scozzari e Giunta contro Italia ed altre). Tale obbligo sussiste, in tesi, anche li’ dove la Corte Europea non abbia indicato tali misure come necessarie e anche li’ dove la decisione non sia stata assunta con le particolari modalita’ procedurali della sentenza pilota (articolo 61 del Regolamento).

11.2 Al primo motivo di ricorso si deduce, pertanto, la violazione ed erronea applicazione dell’articolo 673 c.p.p. e dell’articolo 46 Conv. Eur. nonche’ il vizio di motivazione del provvedimento emesso dal giudice della esecuzione.

La censura ha essenzialmente ad oggetto la ritenuta inapplicabilita’ della disposizione processuale di cui all’articolo 673.

Ad avviso del ricorrente l’incidente di esecuzione, come in parte riconosciuto dalla stessa Corte di Appello di Palermo (li’ dove si condivide la prospettata inapplicabilita’ dell’istituto della cd. revisione europea frutto della sentenza additiva num. 113 del 2011 Corte Cost.), e’ l’unico rimedio esperibile li’ dove si tratti – come nel caso in esame – di dare âEuroËœattuazione’ ex articolo 46 Conv. Eur. ai contenuti di una decisione CEDU che abbia rilevato l’esistenza di un problema “strutturale” dell’ordinamento interno. Si cita, in proposito, Corte Cost. n.210 del 2013 e si precisa che il caso in esame tende a prescindere dalla previa declaratoria di illegittimita’ costituzionale della norma la cui applicazione abbia determinato la violazione convenzionale. Nel caso in esame non vi e’ alcuna norma da dichiarare incostituzionale posto che la violazione deriva da una vicenda interpretativa giurisprudenziale che – in un dato arco temporale – ha generato incertezza e cio’ rende possibile – in tesi – l’intervento diretto in executivis.

L’effetto della accertata violazione, pertanto, non puo’ che essere individuato – li’ dove il caso sia sovrapponibile a quello deciso a Strasburgo – nella revoca della sentenza di condanna.

La tesi del giudice dell’esecuzione sarebbe pertanto frutto di un errore interpretativo e di un errore di ricostruzione degli stessi contenuti della domanda, posto che la medesima concerne(va) la ineseguibilita’ del titolo, in alternativa alla revoca della sentenza.

La decisione impugnata non avrebbe, pertanto, esplorato tale possibilita’ che si ritiene espressa da decisioni emesse, sul tema, da questa Corte di legittimita’ (Sez. U. caso Ercolano).

Proprio in tale arresto, si afferma, le Sezioni Unite hanno chiarito come la necessita’ di adeguare l’ordinamento interno alle indicazioni derivanti dalla CEDU (nel caso Scoppola) va realizzata tramite lo strumento dell’incidente di esecuzione.

Vi e’ inoltre denunzia di un profilo di contraddittorieta’ interna, atteso che la stessa Corte di Appello di Palermo evidenzia la sostanziale identita’ di posizione tra (OMISSIS) e (OMISSIS), il che avrebbe dovuto condurre quantomeno alla declaratoria di ineseguibilita’ del titolo.

Si ripropongono, sul tema, i contenuti gia’ esposti nella premessa in diritto, contestandosi in particolare la ritenuta natura della decisione (OMISSIS), operata dalla Corte di merito, in termini sostanzialmente individuali e non generali. Si afferma, in particolare, che la mancata adozione della procedura prevista per le decisioni “pilota” non e’ decisiva (posto che tale procedura e’ resa necessaria dalla necessita’ di congelamento della trattazione dei ricorsi pendenti presso la CEDU sul medesimo oggetto) e che cio’ che rileva e’ il “contenuto dell’accertamento” operato dalla CEDU, qui certamente con riflessi generali. Si precisa altresi’ che la decisione non puo’ dirsi “innovativa” (allo scopo di confutare l’efficacia dei riferimenti operati nel testo dell’ordinanza ai contenuti di Corte Cost. n.49 del 2015) posto che si inserisce in un tracciato ampio, nel cui ambito la Corte di Strasburgo ha piu’ volte preso in considerazione – ai fini della possibile violazione dell’articolo 7 Conv. Eur. sul tema della prevedibilita’ – le ricadute dei conflitti o delle pronunzie innovative delle Corti interne (decisione del caso Del Rio Prada contro Spagna del Grande Camera, 21 ottobre 2013 ed altre).

Non si nega che per la prima volta il tema della “prevedibilita’” degli esiti della condotta risulta applicato alla vicenda del concorso esterno nell’ordinamento italiano, ma – si precisa – cio’ non rappresenta un limite all’applicazione del principio riconosciuto in sede sovranazionale (cosi’ come risulta avvenuto per lo stesso Caso Scoppola, con estensione degli effetti della decisione CEDU ai cosiddetti fratelli minori). Non vi erano, pertanto, ostacoli alla interpretazione “convenzionalmente conforme” dell’articolo 673 c.p.p..

11.3 Al secondo motivo di ricorso si introduce il dubbio di legittimita’ costituzionale degli articoli 673 e 670 – per contrasto con gli articoli 2, 3, 13, 25 e 117 Cost. nonche’, per tale ultima norma, con gli articoli 5, 7, 13 e 46 Conv. Eur. – nella parte in cui, secondo la interpretazione contenuta nel provvedimento impugnato, non consentono di provvedere alla revoca o alla dichiarazione di ineseguibilita’ di una sentenza di condanna in presenza di una sentenza della CEDU avente ad oggetto una violazione del principio di legalita’ di carattere oggettivo, ancorche’ pronunciata nei confronti di un soggetto diverso e nell’ambito di altra procedura

Il dubbio di legittimita’ costituzionale non era stato introdotto dal ricorrente ma il giudice dell’esecuzione ne ha apprezzato motu proprio la eventuale consistenza, giungendo ad una valutazione di irrilevanza. Ove questa Corte ritenesse non accoglibile, alla stregua della attuale conformazione normativa dell’incidente di esecuzione, la domanda principale si imporrebbe, pertanto, una rivalutazione del tema.

Sul punto, si ribadisce che la rilevanza deriva dalla natura oggettiva della violazione riscontrata dalla CEDU, trattandosi di difetto di prevedibilita’ correlato al deficit di tassativita’ della disciplina legale del concorso esterno, alimentato dalle oscillazioni giurisprudenziali intervenute quantomeno sino al 1994.

Li’ dove si dovesse confermare la assenza di una lettura delle norme procedurali “conforme alla convenzione” (ed in particolare ai contenuti dell’articolo 46) ne risulterebbero violati i parametri costituzionali e convenzionali indicati in premessa. Cio’ in rapporto all’obbligo di dare attuazione ai contenuti ed alle decisioni della Convenzione con il solo limite – valutabile in sede di incidente di costituzionalita’ – dell’eventuale contrasto con i prevalenti principi costituzionali interni.

Nel caso in esame non vi sarebbe motivo alcuno per negare la produzione dell’effetto estensivo della decisione emessa nel caso (OMISSIS) ai giudizi caratterizzati da identita’ di posizione, il che condurrebbe – in tesi – ad una denunzia di illegittimita’ costituzionale della disposizione ostativa.

11.4 Al terzo motivo si deduce violazione ed erronea applicazione dell’articolo 5 Conv. Eur., nonche’ difetto totale di motivazione ed omessa pronunzia sul punto

Nell’atto introduttivo era stata evidenziata la perdurante illegittimita’ della detenzione, correlata alla esecuzione della pena cui il (OMISSIS) e’ sottoposto in forza della sentenza di cui si e’ chiesta la revoca.

Su tale aspetto dell’istanza il giudice dell’esecuzione non si sofferma, con vizio di omessa pronunzia. La detenzione non puo’ ritenersi legittima in quanto deriva da una procedura nel cui ambito – in tesi – e’ stato violato uno dei diritti garantiti dalla Convenzione.

12. Con requisitoria scritta il Sig. Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto del ricorso. In tale atto si evidenzia che l’affermazione contenuta nel ricorso circa la necessita’ di attuazione generalizzata (anche erga alios e non solo in direzione del ricorrente vittorioso in sede sovranazionale) della decisione emessa dalla CEDU non puo’ dirsi condivisibile ove declinata in termini cosi’ ampi, citandosi sul tema quanto deciso – in senso contrario – dalla Corte Costituzionale italiana nella sentenza num. 49 del 2015. Si evidenziano altresi’ differenze tra la decisione emessa dalla CEDU nel caso Scoppola (ove il nucleo della violazione riguardava l’applicazione retroattiva di una norma sfavorevole) e quella emessa nel caso (OMISSIS) (ove il nucleo della violazione e’ rappresentato da un deficit di prevedibilita’ correlato alla esistenza di contrasti giurisprudenziali). Una obiettiva lettura della decisione (OMISSIS) non autorizza a ritenere esatta l’affermazione secondo cui il reato di concorso esterno sarebbe âEuroËœfrutto’ di esclusiva elaborazione giurisprudenziale, posto che la base legale e’ fornita da norme previgenti rispetto alla realizzazione dei fatti e solo la concretizzazione giurisprudenziale dell’istituto si e’ progressivamente consolidata dal 1994 in poi. Da cio’ deriva che la decisione (OMISSIS) non puo’ essere definita sentenza “di principio”, ne’ “sentenza pilota” ne’ espressione di un “diritto consolidato”. Non si rinvengono, pertanto, le condizioni logiche e giuridiche di applicabilita’ dell’articolo 673 c.p.p..

13. Con successiva memoria il ricorrente ha ribadito la fondatezza delle argomentazioni contenute nel ricorso – anche replicando alle osservazioni espresse dal Procuratore Generale – ed ha chiesto l’assegnazione del medesimo alle Sezioni Unite di questa Corte.

Trattandosi di memoria estremamente ampia, se ne indicano i punti essenziali (ai sensi dell’articolo 173 disp. att. c.p.p.), rinviando per il resto al testo dell’atto.

Si ribadisce la natura “di principio” della decisione (OMISSIS) (con portata generale), essendo stato individuato un deficit di prevedibilita’ in senso oggettivo e impersonale, rilevante sulla condizione giuridica del destinatario dell’azione penale. La giurisprudenza, per la CEDU,e’ fonte integratrice del precetto normativo e pertanto l’evoluzione della interpretazione in senso sfavorevole e’ presidiata dal divieto di retroattivita’ ai sensi dell’articolo 7 Con.Eur..

L’effetto erga alios (ovviamente limitato al soggetto che abbia subito la sanzione per fatti di concorso esterno in associazione mafiosa prima del 1994, posizione assimilabile a quella del (OMISSIS)) va pertanto riconosciuto, ai sensi dell’articolo 46 Conv. Eur., non trattandosi di giurisprudenza innovativa (si citano i precedenti CEDU sul tema), come gia’ esposto in sede di ricorso ed essendo stato rilevato un vizio “strutturale” dell’ordinamento interno. Si afferma che la carenza di tassativita’ e determinatezza della fattispecie incriminatrice (confermata dalla stessa esistenza del contrasto giurisprudenziale) ha gia’ dato luogo, nel sistema interno, alla declaratoria di parziale illegittimita’ costituzionale dell’articolo 5 c.p. (sentenza n. 364 del 1988 Corte Cost.) in punto di colpevolezza, a dimostrazione della impossibilita’ di sottoporre a pena il soggetto non posto in condizione – anche dagli organi statali – di comprendere preventivamente il contenuto del precetto.

Si ribadiscono gli argomenti difensivi contenuti nell’atto di ricorso, ivi compresi quelli tesi a sostenere che nel caso del (OMISSIS) l’unica strada percorribile per il ripristino della legalita’ convenzionale e’ – in tesi – rappresentata dall’incidente di esecuzione. Sul tema si indica a sostegno, peraltro, un passaggio argomentativo contenuto nella decisione emessa dalla V Sezione Penale di questa Corte in data 14 marzo 2016 (n. 28676 del 2016) con cui e’ stato dichiarato inammissibile il ricorso straordinario (articolo 625 bis c.p.p.) proposto dal (OMISSIS) per le medesime ragioni oggi coltivate.

Quanto all’istanza di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte la stessa e’ sostenuta dalla prospettata necessita’ di prevenire potenziali contrasti interpretativi in riferimento ai contenuti dell’obbligo di conformazione di cui all’articolo 46 Conv. Eur., nonche’ dalla considerazione della “speciale e straordinaria rilevanza” delle questioni trattate.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ infondato e va pertanto rigettato, per le ragioni che seguono.

2. Vanno operate talune premesse di ordine metodologico, tese a palesare da un lato le ragioni della trattazione del ricorso presso questa 1 Sezione, competente in via tabellare, dall’altro l’ambito cognitivo e valutativo spettante al Collegio li’ dove vengano in rilievo – come nel caso in esame – essenzialmente questioni in diritto.

2.1 Quanto al primo tema, l’istanza della parte privata di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte non puo’ trovare accoglimento.

In particolare, va ricordato che diverso e’ l’ambito di valutazione spettante al Collegio investito della trattazione del ricorso (articolo 618 c.p.p.) rispetto al potere di assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite in via preliminare (articolo 610 c.p.p., comma 2).

L’assegnazione di un ricorso alle Sezioni Unite puo’ infatti avvenire in via preliminare – ai sensi dell’articolo 610, comma 2 – da parte del Primo Presidente della Corte non soltanto in virtu’ della necessita’ di dirimere “contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni” ma anche li’ dove le questioni proposte risultino di “speciale importanza”, il che prescinde dall’apprezzamento della esistenza di un contrasto interpretativo in atto

Li’ dove – come nel caso in esame – il ricorso sia stato assegnato alla Sezione tabellarmente competente (con avvenuto superamento della fase preliminare) l’assegnazione alle Sezioni Unite e’ amputata, nei suoi presupposti di legge, del parametro discrezionale della “speciale importanza” e puo’ fondarsi esclusivamente sull’apprezzamento del contrasto giurisprudenziale, sia esso attuale (gia’ emergente dalla consultazione dei precedenti) o potenziale.

Quanto al contrasto potenziale, va precisato ulteriormente che lo stesso non deriva da un giudizio prognostico circa la formulazione di dissenso, o meno, nei confronti della decisione “che si va a prendere” in futuri giudizi analoghi, ma deriva dal fatto che il giudizio “che si andrebbe a prendere” secondo il convincimento preliminare del Collegio, determinerebbe esso stesso il contrasto con dei precedenti consolidati.

Cio’ deriva, in via logica, dalla considerazione per cui la scelta legislativa di eliminare – dopo la fase preliminare – il parametro della “speciale importanza” risulterebbe priva di senso li’ dove il Collegio procedente fosse investito del potere di valutare il contrasto potenziale in termini di mera prognosi, dovendosi invece attivare il potere di rimessione nei soli casi in cui il contrasto interpretativo sia gia’ riconoscibile o derivi – in buona sostanza – da una volonta’ del Collegio medesimo di discostarsi da un orientamento consolidato.

Cio’ posto, la domanda della parte include il parametro – in realta’ non valutabile della speciale importanza.

Quanto alla valutazione circa il contrasto interpretativo, come potra’ apprezzarsi in seguito, questo Collegio non intende discostarsi dai principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte nelle due decisioni del caso Ercolano (posto che con la prima si e’ esclusivamente sollevato l’incidente di costituzionalita’ della disciplina legislativa i cui effetti hanno dato luogo alla sentenza CEDU nel caso Scoppola) e pertanto non si rinviene ragione per investire l’organo di risoluzione dei conflitti.

E’ appena il caso di precisare, inoltre, che quanto ai contenuti della decisione emessa dalla 5 Sezione di questa Corte in data 14 marzo 2016 (num. 28676 del 2016) su ricorso del (OMISSIS), non potrebbe ipotizzarsi un reale contrasto con quanto si va qui a decidere atteso che l’oggetto di tale decisione e’ rappresentato dal ricorso straordinario ex articolo 625 bis c.p.p. proposto avverso la sentenza emessa da questa 1 Sezione in data 9 maggio 2014 (sentenza ampiamente rievocata in premessa).

Il contenuto non necessario – rispetto al sostegno del dispositivo emesso – di tale pronunzia (in particolare nella parte in cui si afferma che.. la vicenda (OMISSIS) presenta, come detto, maggiori affinita’ con la sentenza Scoppola rispetto al caso esaminato con la sentenza Drassich.. e, di seguito… ne deriva che, proprio seguendo il percorso argomentativo tratteggiato dalla sentenza Scoppola, il rimedio esperibile sarebbe quello dell’incidente di esecuzione..) non soltanto non e’ – ovviamente – vincolante per questo Collegio ma non rappresenta neanche un “precedente”, posto che non viene espresso un principio di diritto quanto una opinione sulle forme procedimentali di “accesso” alla tutela chiesta dalla parte, peraltro nell’ambito di una decisione che prende atto della esistenza di piu’ profili di inammissibilita’ della domanda ex articolo 625 bis c.p.p. tra cui la tardivita’ della medesima (espressamente dichiarata a pagina 13 della decisione de qua).

2.2 La seconda premessa riguarda la tipologia di decisione – inammissibilita’ – con cui il giudice della esecuzione ha respinto l’istanza di revoca (o di ineseguibilita’) della sentenza di condanna irrevocabile.

Tale qualificazione del diniego e’ da ritenersi erronea, posto che la inammissibilita’ della domanda esecutiva – al di la’ delle forme procedimentali con cui puo’ essere dichiarata – e’ qualificazione che ne esclude l’esame nel merito, poiche’ deriva, per espresso dettato di legge da una manifesta infondatezza correlata al difetto delle condizioni di legge (oltre al caso della riproposizione, che qui non rileva).

Tale locuzione va interpretata restrittivamente, nel senso che puo’ parlarsi di inammissibilita’ li’ dove facciano difetto – nella istanza – requisiti posti direttamente dalla legge, che non implichino alcuna valutazione discrezionale (tra le altre, Sez. 1, n. 277 del 13.1.2000, rv 215368).

Nel caso in esame tale manifesta infondatezza non poteva dirsi sussistente, atteso che la richiesta di tutela della parte privata e’ stata ritenuta – a seguito di valutazioni in fatto e in diritto – non accoglibile alla stregua del contenuto delle disposizioni invocate, con operazione interpretativa di non scarsa complessita’.

Dunque trattasi, sostanzialmente, di un rigetto della domanda della parte, il che peraltro non comporta alcuna conseguenza sull’iter procedurale successivo, trattandosi in ogni caso – di provvedimento collegiale emesso a seguito di contraddittorio (con avvenuta fissazione di udienza camerale e nel rispetto dei contenuti dell’articolo 666 c.p.p.), il che esclude la rilevabilita’ ex officio di vizi del procedimento.

2.3 La terza premessa riguarda l’ambito cognitivo e valutativo spettante a questa Corte di legittimita’, posto che la parte ricorrente oltre a sollevare il tema della inosservanza o erronea applicazione della legge penale regolatrice (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ha altresi’ compiuto riferimento a vizi di motivazione del provvedimento impugnato (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) al contempo dichiarando espressamente di non contestare talune argomentazioni espresse dalla Corte di Appello di Palermo, ritenute favorevoli.

Siffatta impostazione del ricorso contiene un vizio, atteso che il tema devoluto concerne esclusivamente la questione in diritto correlata all’an e al quomodo della estensione al (OMISSIS) dei contenuti della decisione emessa dalla CEDU nel caso (OMISSIS).

Trattandosi, dunque, di questione essenzialmente interpretativa di norme giuridiche, non puo’ ritenersi esaminabile la sub-denunzia di un vizio di motivazione del provvedimento impugnato, posto che trattasi di una doglianza non rispondente ai contenuti dell’articolo 606 c.p.p..

Come e’ stato piu’ volte evidenziato nella presente sede di legittimita’ (da ultimo Sez. 1, n. 16372 del 20.3.2015, rv 263326) il vizio di motivazione non e’ infatti denunziabile con riferimento a questioni di diritto, poiche’ queste se sono fondate e disattese dal giudice di merito (motivatamente o meno) danno luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge (articolo 606, comma 1, lettera b) mentre se sono infondate il loro mancato esame non determina alcun vizio di legittimita’ della pronunzia. Ulteriore conseguenza di tale assetto e’ che questa Corte, nell’esaminare la denunzia di violazione (o falsa applicazione) delle norme coinvolte nella operazione interpretativa non e’ vincolata, nel percorso di ricostruzione della fattispecie in diritto, ad alcuna delle argomentazioni espresse nel provvedimento impugnato ma e’ tenuta a rielaborare globalmente il tema dedotto.

Non vi sono, pertanto, ne’ vi potrebbero essere, argomenti espressi dal giudice del merito “vincolanti” per questa Corte di legittimita’, per il solo fatto della mancata contestazione degli stessi ad opera della parte ricorrente.

3. Cio’ posto, nell’esaminare le doglianze articolate nel ricorso e’ necessario muovere da una – seppur contenuta, nei limiti della utilita’ alla soluzione del caso – ricognizione di alcuni temi di fondo che incidono sulla soluzione del tema proposto.

In particolare, occorre realizzare una ricognizione di due nodi essenziali, rappresentati da: a) l’ambito del giudizio esecutivo per come risulta dalla attuale conformazione normativa e dalle principali pronunzie giurisprudenzali intervenute nel corso del tempo; b) le possibili forme di attuazione dell’impegno statale derivante dai contenuti dell’articolo 46 Conv. Eur., in rapporto ai casi di accertata violazione in ambito CEDU.

Solo dopo aver compiuto tali precisazioni risultera’ possibile compiere un inquadramento giuridico del caso specifico, rappresentato da una domanda di estensione del giudicato convenzionale formatosi nel caso (OMISSIS).

3.1 Quanto all’analisi “orizzontale” del sistema normativo interno, va ribadito in primis che la giurisdizione esecutiva non rappresenta un rimedio con natura di impugnazione (ne’ ordinaria, ne’ straordinaria) e pertanto eventuali errori interpretativi o applicativi di norme di diritto sostanziale o di procedura, verificatisi nel giudizio di cognizione, non sono deducibili in sede esecutiva, dato che tali – ipotetici – vizi sono rilevabili esclusivamente attraverso l’impugnazione dei provvedimenti che definiscono il grado di giudizio in cognizione (trattasi di linea interpretativa costante, espressa gia’ in Sez. 1, 14.1.19902 ric. Maiolo, Sez. 1, n. 3246 del 25.5.1995, rv 202129, nonche’ di recente in Sez. 1, n. 3370 del 2012).

Nella Relazione al Progetto Preliminare del vigente codice di rito (in G.U. del 24.10.1998, suppl.ord. n.2), fatta salva la parte dedicata al possibile riconoscimento della continuazione (articolo 671) in sede esecutiva (sempre che la stessa non sia stata esclusa in cognizione), e’ dato leggere affermazioni che configurano il giudizio esecutivo come il luogo di attuazione da un lato del contenuto della decisione irrevocabile (con competenza del giudice dell’esecuzione), dall’altro dei principi di umanizzazione e della pena e flessibilita’ della medesima in funzione di raggiungimento delle finalita’ rieducative (con competenza della magistratura di sorveglianza).

Quanto alla funzione primaria si affermava, commentando il potere del P.M. di emettere l’ordine di carcerazione che nella fase della esecuzione, quando cioe’ e’ stata emanata una sentenza di condanna ormai irrevocabile, non vi e’ spazio per l’uso di poteri discrezionali, dovendosi, semplicemente, dare esecuzione al provvedimento del giudice….

Con eccesso di ottimismo – valutato in chiave retrospettiva – si affermava, inoltre, quanto al testo del “futuro” articolo 673 che.. tale norma, che disciplina le ipotesi di revoca della sentenza per sopravvenuta abolitio criminis, non pone particolari problemi interpretativi…

Ora, pur dovendosi di certo attualizzare simili affermazioni, va considerato che le competenze attribuite al giudice della esecuzione – pur ampie e articolate – risultano predeterminate dal legislatore nell’ambito di un disegno sistematico tendenzialmente improntato alla regola della tassativita’ (specie in virtu’ della modifica normativa apportata con il Decreto Legislativo 14 gennaio 1991, n. 12 all’originario testo dell’articolo 676, con avvenuta soppressione del riferimento alla competenza del giudice dell’esecuzione in casi analoghi a quelli tipizzati) e che prende in esame la ovvia necessita’ di dirimere dubbi, applicare benefici correlati a norme sopravvenute, prendere atto dell’inverarsi di fatti risolutivi di benefici o risolvere conflitti intersoggettivi insorti nella fase successiva al giudicato (articolo 667, articolo 668, articolo 672, articolo 674) ma che non consente – in via generale – al giudice della fase esecutiva di rilevare vizi del procedimento o della decisione ma, al piu’, di integrare la decisione incompleta (articolo 675, articolo 676, articolo 183 disp.att.) o di prendere atto di aspetti non trattati in cognizione ed inerenti il riconoscimento del reato continuato, tra fatti posti a base di piu’ decisioni irrevocabili (articolo 671).

Anche la disciplina di cui all’articolo 670 c.p.p. – specie dopo la introduzione del rimedio ad hoc della rescissione del giudicato (articolo 625 ter) per i casi di erronea prosecuzione del procedimento in assenza – resta limitata alla verifica di “eseguibilita’” del titolo in rapporto alla effettiva irrevocabilita’ formale del medesimo e non sottintende la riemersione di questioni interpretative delle norme applicate, coperte dal giudicato, ove formatosi.

In effetti, l’unica attribuzione tipica – nel sistema originario disegnato dal legislatore, che consente al giudice dell’esecuzione di porre rimedio ad una “anomalia procedurale” e’ disegnata dall’articolo 669 (il caso della pluralita’ di sentenze di condanna emesse nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto) posto che in tal caso e’ riconoscibile “a monte” una violazione – non rilevata – della previsione contenuta nell’articolo 649 c.p.p. (divieto di un secondo giudizio) o, in alternativa, una mancata individuazione di una causa di improcedibilita’ dell’azione (Sez. U n.34655 del 28.6.2005, rv 231800) o la mancata proposizione di un conflitto positivo di competenza (per autorevole dottrina.. esce dal consueto che una o alcune sentenze siano rescisse da un’ordinanza, atto normalmente subordinato..).

In tale quadro le ipotesi di revoca della sentenza per abrogazione o dichiarazione di illegittimita’ costituzionale di una norma incriminatrice (articolo 673) risultano – per come e’ redatta la norma – ricollegabili a fatti “sopravvenuti” rispetto alla conclusione del procedimento che ha prodotto il titolo esecutivo, idonei a travolgere il giudicato per la particolare forza di negazione della rilevanza penale del fatto compiuta dal legislatore o derivante dal giudizio di incostituzionalita’ (articolo 2 c.p., comma 2) e solo in via eccezionale possono trovare applicazione in caso di avvenuta non considerazione dell’intervenuto effetto abrogativo da parte del giudice della cognizione (come di recente precisato da Sez. U. n. 26259 del 29.10.2015, rv 266872).

La postulata estensione di tale norma (articolo 673) ai casi di declaratoria di illegittimita’ costituzionale non gia’ di norme incriminatrici ma di norme comunque “incidenti” sul trattamento sanzionatorio e’ peraltro solo apparente, posto che l’effetto giuridico di obbligatoria rideterminazione della pena, ferma restando la rilevanza penale del fatto con parziale modifica del giudicato, e’ direttamente ricollegabile alla previsione di legge di cui alla L. n. 87 del 1953, articolo 30, comma 4 come precisato da Sez. U. n. 42858 del 2014 ric. Gatto e dai successivi interventi nomofilattici sul tema

La modifica del giudicato e’ dunque imposta – in casi del genere – dalla cessazione retroattiva di validita’ della norma, dato il carattere di “annullamento” tipico del giudizio di costituzionalita’.

Anche nel caso della declaratoria di illegittimita’ costituzionale della disciplina sanzionatoria degli stupefacenti (sent. n.32 del 2014) questa Corte ha avuto modo di precisare che il potere (certamente innovativo) di rideterminazione del trattamento sanzionatorio nella ipotesi di condanna relativa al possesso illecito di droghe leggere – spettante al giudice dell’esecuzione – non deriva in via diretta dall’articolo 673 c.p.p. ma dalla L. n. 87 del 1953, articolo 30 e l’operazione di rideterminazione non va intesa come “revoca” della sentenza di condanna: la decisione emessa dal giudice della esecuzione, in ipotesi di accoglimento dell’istanza e rideterminazione del trattamento sanzionatorio, assume una valenza sostitutiva di un titolo esecutivo (la precedente decisione irrevocabile) solo in tale parte non piu’ eseguibile, che andra’ pertanto integrato, in punto di entita’ della pena, dalla decisione emessa in sede esecutiva secondo uno schema procedimentale non estraneo al procedimento di esecuzione (si pensi a quanto previsto e regolamentato dall’articolo 671 c.p.p., norma che – a diverso fine – consente la modifica in esecuzione dell’entita’ del trattamento sanzionatorio correlato a decisioni parimenti irrevocabili circa l’an della responsabilita’). Non si tratta, pertanto, di una revoca del precedente titolo (non versandosi in ipotesi applicativa dell’articolo 673 c.p.p.) ma di una sua parziale rinnovazione e integrazione per quanto concerne l’entita’ della pena, con ogni conseguenza di legge (cosi’, tra le altre, Sez. 1, n. 53019 del 4.12.2014, ric. Schettino, rv 261581).

Inoltre, la stessa possibilita’, ribadita da ultimo da Sez. U. n. 47766 del 26.6.2015, rv. 265108, di rimediare – in sede esecutiva – alla avvenuta determinazione di una “pena illegale” (aspetto che tende indubbiamente ad accostare l’incidente di esecuzione ad una forma sui generis di impugnazione straordinaria) non va intesa come ricognizione di un potere ordinario, tale da consentire un sindacato in sede esecutiva in ogni caso di potenziale erroneita’ di statuizioni e/o argomentazioni concorrenti a determinare la sanzione, ma rappresenta una valvola di sicurezza del sistema a fronte di un trattamento sanzionatorio frutto di “palesi errori giuridici o materiali” commessi dal giudice della cognizione (sanzione non prevista dall’ordinamento in rapporto al fatto dedotto in giudizio o determinata in modo superiore al massimo edittale, si’ da ritenersi abnorme) data la natura dei valori in gioco in ambito penalistico, dovendosi limitare al massimo il sacrificio del bene primario della liberta’ personale.

Con cio’ si intende affermare che – ferma restando la ricognizione dei rimedi derivanti dall’articolo 46 Conv. Eur. di cui si dira’ a breve – non puo’ accedersi ad una lettura “generalizzante” del giudizio esecutivo come luogo flessibile in cui scaricare ogni questione correlata alla esistenza di “vizi o violazioni” in tesi verificatesi in cognizione, posto che il valore del giudicato (e della sua tendenziale intangibilita’) resta integro nella sua dimensione di strumento di certezza e stabilita’ delle relazioni giuridiche e sociali (si vedano, sul tema, Sez. U. n. 37345 del 2015, in tema di revocabilita’ della sospensione condizionale della pena, nonche’ la stessa decisione Cedu del 28 giugno 2007 Perez Adrias contro Spagna, e la decisione n. 230 del 2012 emessa dalla Corte Costituzionale proprio in relazione all’articolo 673 c.p.p. nella parte in cui non prevede la revoca della decisione di condanna in rapporto ad evoluzioni giurisprudenziali favorevoli diverse dalla abolitio criminis) pur con gli adattamenti resi necessari dall’emersione di esigenze di “rivisitazione” dei contenuti della decisione irrevocabile, esigenze che vanno intese come eventi eccezionali e correlati a norme giuridiche ben identificate, tali da rendere pressocche’ “meccanico” il compito assegnato in via straordinaria al giudizio esecutivo.

In caso di necessaria discrezionalita’ circa l’an della responsabilita’ penale, per fatti sopravvenuti potenzialmente incidenti sul giudicato, lo strumento sistematico di intervento va individuato nel diverso strumento giuridico della revisione (impugnazione straordinaria) come meglio si dira’ nel prosieguo.

3.2 Passando al secondo punto preliminare, non vi e’ dubbio che, nel contesto sin qui descritto, l’incidente di esecuzione e’ stato utilizzato – in momenti storici caratterizzati dalla impossibilita’ di accedere alla impugnazione straordinaria della revisione – anche come strumento utile a realizzare l’adeguamento interno al “giudicato CEDU”, che per definizione (l’articolo 35 della Conv. Eur. detta la regola del previo esaurimento delle vie di ricorso interne come condizione di ricevibilita’ del ricorso individuale) incide su un giudizio approdato, nel sistema interno, a decisione irrevocabile.

Cio’ e’ accaduto in diversi casi, antecedenti all’anno 2011, tramite una interpretazione estensiva e adeguatrice della disposizione di legge contenuta nell’articolo 670 (con declaratoria di ineseguibilita’ del titolo) per violazioni constatate dalla CEDU e relative ai contenuti dell’articolo 6, comma 3 Conv. Eur. in tema di equita’ del processo.

Si tratta, per il vero, di decisioni – come quella emessa da questa 1 Sezione Penale in data 1.12.2006 nel caso Dorigo – in cui e’ stata ben evidenziata la “sofferenza sistematica” derivante dal fatto che, a fronte della accertata violazione del diritto riconosciuto dalla Convenzione (nei confronti dell’istante e non di persona diversa), non era stato ancora introdotto nell’ordinamento interno uno strumento giuridico idoneo a determinare la riapertura del giudizio di cognizione, avendo il legislatore provveduto con la legge del 2005 alle sole esigenze di riapertura del giudizio contumaciale (L. n. 60 del 2005), con insopportabile elusione dell’articolo 46 Conv. Eur. (come modificato dal Protocollo n. 14 del 13 maggio 2004, ratificato con L. 15 dicembre 2005, n. 280). Conviene, per la particolare efficacia della prosa utilizzata, riportare uno stralcio di tale decisione (Pres. Fazzioli, Rel. Silvestri):.. uno degli argomenti sviluppati dal giudice dell’esecuzione per negare la possibilita’ di ritenere ineseguibile il giudicato nei confronti del (OMISSIS) e’ stato indicato nella ragione che l’ordinamento italiano ha introdotto il mezzo processuale idoneo ad attivare la rinnovazione del processo soltanto per i processi contumaciali (articolo 175 c.p.p., comma 2, novellato dal Decreto Legge 21 febbraio 2005, n. 17, articolo 1, comma 1, lettera b), convertito con L. 22 aprile 2005, n. 60), mentre nessun rimedio e’ stato previsto per i casi nei quali la non equita’ del processo sia stata dichiarata dalla Corte europea in relazione alla constatata violazione dell’articolo 6 p. 3 lettera d) nella formazione della prova posta a base della sentenza di condanna. Il Collegio non ignora che in Parlamento, nella 14 Legislatura, sono stati presentati disegni di legge diretti ad inserire nel codice di procedura penale l’articolo 630-bis contenente la previsione di un nuovo caso di revisione quando una sentenza della Corte europea abbia accertato che nel corso del giudizio sono state violate le disposizioni di cui all’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali. Con la conclusione della Legislatura detti disegni di legge sono, pero’, decaduti, onde, allo stato, nel nostro ordinamento non esiste un rimedio che permetta la riapertura del processo nell’ipotesi in cui la condanna sia derivata dalla violazione delle norme della Convenzione che garantiscono il diritto dell’imputato di “interrogare o fare interrogare i testimoni a carico”. Eppure resta urgente e non piu’ differibile la necessita’ di un intervento legislativo che renda azionabile il diritto al nuovo processo anche nei casi nei quali l’accertata violazione della Convezione riguardi non la questione della partecipazione al processo (risolta ormai con la disciplina del novellato articolo 175 c.p.p. sulla restituzione nel termine nei processi contumaciali), ma la lesione di garanzie di ordine sostanziale, accertata da una decisione della Corte europea, che abbia avuto influenza decisiva sull’esito del giudizio. Proprio l’assenza di un mezzo processuale per la rinnovazione del processo ha indotto la Corte di Appello di Bologna, chiamata ad esaminare la richiesta di revisione del (OMISSIS), a ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 630 c.p.p., lettera a), nella parte in cui esclude dai casi di revisione l’impossibilita’ che i fatti posti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza definitiva della Corte europea che abbia accertato l’assenza di equita’ del processo, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, per contrasto con gli articoli 3, 10 e 27 Cost.. L’incidente di costituzionalita’, volto a provocare una sentenza additiva, non e’ stato ancora deciso, sicche’ persiste il vuoto normativo segnalato e, a distanza di oltre otto anni dalla pronuncia della decisione della Corte europea, non e’ stata adottata alcuna misura legislativa che consenta al (OMISSIS) di esercitare il diritto alla rinnovazione del processo, nonostante le ricorrenti raccomandazioni e risoluzioni del Comitato dei Ministri e dell’Assemblea Parlamentare precedentemente ricordate. Nell’ordinanza impugnata l’impossibilita’ di dichiarare ineseguibile la sentenza di condanna e’ stata esplicitamente fatta derivare anche dalla mancanza di un mezzo processuale che renda realizzabile la rinnovazione del giudizio. L’argomento non puo’ non ritenersi fallace e privo di pregio se si considera che la prolungata inerzia dell’Italia corrisponde alla trasgressione dell’obbligo previsto dall’articolo 46 della Convenzione di conformarsi alla sentenza definitiva della Corte europea e, quindi, costituisce una condotta dello Stato italiano qualificabile come “flagrante diniego di giustizia” (“detti de justice flagrant”). Ne segue che la tesi accolta dal giudice dell’esecuzione si risolve, in buona sostanza, nell’ammettere che la persistenza della detenzione del (OMISSIS) possa trarre titolo dal conclamato inadempimento degli obblighi sanciti dalla Convenzione, vincolanti anche nell’ordinamento interno, e che l’esecuzione della pena possa cessare soltanto se e quando verra’ meno l’illecito diniego di giustizia. E’ evidente, tuttavia, che i principi di legalita’, di coerenza e di razionalita’, dai quali e’ permeato l’intero ordinamento, rendono assolutamente inaccettabile una siffatta proposizione, che ha finito per capovolgere diametralmente l’esatta prospettiva interpretativa col disconoscere la precettivita’ delle norme della Convenzione e la forza vincolante della decisione della Corte per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali. 8. – Alla luce di tutte le precedenti considerazioni, osservato che il diritto al nuovo processo e’ stato riconosciuto al (OMISSIS) dalla Corte europea in relazione ad una essenziale garanzia dell’imputato (quella di “interrogare o fare interrogare i testimoni a carico”) e che la violazione e’ stata reputata di determinante influenza sull’esito del giudizio, il ricorso proposto contro il provvedimento del giudice dell’esecuzione deve essere deciso sulla base del seguente principio di diritto: “Il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, norma dell’articolo 670 c.p.p., l’ineseguibilita’ del giudicato quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali abbia accertato che la condanna e’ stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’articolo 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo”.

Dunque una applicazione dell’articolo 670 c.p.p. dichiaratamente “straordinaria” frutto della assoluta necessita’ di interrompere un flagrante diniego di giustizia nei confronti del soggetto “destinatario” della pronunzia favorevole emessa dalla CEDU e nel cui ambito era stata indicata come necessaria la restitutio in integrum, in assenza di rimedi alternativi.

Cio’ non autorizza in alcun modo a ritenere possibile la “sopravvivenza” di simile necessitata e meritoria – interpretazione dell’articolo 670 (o dello stesso articolo 673) in un periodo storico successivo, caratterizzato dalla presenza – nell’ordinamento interno – di uno strumento tipico di adeguamento al giudicato CEDU, rappresentato dalla revisione europea, a seguito di Corte Cost. n.113 del 7.4.2011 (o, per i casi di violazione del contraddittorio partecipativo, qui non in rilievo, dallo strumento della rescissione del giudicato di cui all’articolo 625 ter).

Ne’ puo’ affermarsi, per il vero, che l’incidente di esecuzione ha rappresentato lo strumento “risolutivo” del caso Scoppola (in proprio o per estensione alle situazioni analoghe) posto che tale affermazione rappresenta una forzatura interpretativa dei contenuti delle due decisioni delle Sezioni Unite di questa Corte relative al fratello minore di Scoppola, Ercolano.

3.3 Nel casi Drassich e Scoppola – entrambi decisi prima del 7 aprile 2011 – (il primo con sentenza del 12.11.2008, il secondo con sentenza del 11.2.2010) – questa Corte ha ritenuto, nei confronti del soggetto “vittorioso” presso la CEDU possibile utilizzare (anche in tal caso in modo estensivo) lo strumento del ricorso straordinario ex articolo 625 bis c.p.p., il che quantomeno fa rientrare la realizzazione della modifica del giudicato interno in un contenitore sistematico – quello delle impugnazioni straordinarie – di certo piu’ adeguato (rispetto all’incidente di esecuzione).

Ma, come si e’ detto, trattasi di decisioni emesse in sede di diretta “ottemperanza” al giudicato reso dalla CEDU e, peraltro, antecedenti alla decisione della Corte Costituzionale in tema di “revisione europea”

Dalle stesse non puo’ trarsi alcun principio di diritto utile alla soluzione del caso qui in trattazione, caratterizzato in primis dalla diversita’ soggettiva tra l’istante ( (OMISSIS)) e il soggetto vittorioso in Strasburgo ( (OMISSIS)).

Il sistema giuridico e’ stato innovato – dopo le suddette decisioni – dall’intervento della Corte Costituzionale (sent. 113 del 2011) che ha introdotto l’invocato rimedio ad hoc e cio’ impone di confrontarsi con l’ambito applicativo del nuovo istituto.

3.4 Ad avviso della difesa, pero’, la strada indicata dalle Sezioni Unite di questa Corte nel caso Ercolano (fratello minore di Scoppola) e’ quella dell’incidente di esecuzione – pure in epoca successiva all’aprile 2011 – e cio’ rende necessaria una ulteriore precisazione.

Non e’ un caso che, scorrendo i repertori, si trovino due decisioni emesse dalle Sezioni Unite di questa Corte nel caso Ercolano (n. 34472 del 19.4.2012 – n. 18821 del 24.10.2013).

Nella prima decisione, infatti, lungi dal ritenere possibile in casi del genere (come potrebbe apparire da una lettura frettolosa della massima ufficiale n.252933, nel cui ambito espressivo il tema della “rilevanza” va ricollegato all’oggetto della decisione, consistente nel promovimento dell’incidente di costituzionalita’) una modifica diretta del titolo esecutivo da parte del giudice della esecuzione, le Sezioni Unite hanno sollevato incidente di costituzionalita’ del Decreto Legge n. 341 del 2000, articoli 7 e 8 (conv. in L. n. 4 del 2001) in riferimento all’articolo 3 Cost. e articolo 117 Cost., comma 1.

La decisione muove dalla necessita’ di estendere – data l’assoluta identita’ di posizione e la natura della violazione accertata, derivante dalla applicazione di una norma di legge – al condannato (OMISSIS) l’effetto favorevole della decisione emessa dalla CEDU nel novembre 2009 a favore del condannato Scoppola. Tale estensione, indiscutibile proprio perche’ la violazione e’ correlata ad un atto di fonte legislativa, non viene pero’ ritenuta realizzabile in via diretta ma tramite la previa deliberazione di “annullamento” per vizio di legittimita’ costituzionale della disciplina generale (il Decreto Legge n. 341 del 2000) applicata nel giudizio di cognizione, in riferimento al contrasto insorto tra tale testo di legge (di pretesa interpretazione autentica della modifica processuale in tema di abbreviato) e l’articolo 7 della Conv. Eur., a seguito della decisione Scoppola (in tema di prevedibilita’ del trattamento sanzionatorio, alterata dalla retroattivita’ della norma sfavorevole, norma solo apparentemente processuale) ed in virtu’ della natura di “norme interposte” attribuita alle disposizioni della Convenzione dopo le cd. sentenze gemelle del 2007

Dunque soltanto a seguito della declaratoria di illegittimita’ costituzionale della norma interna (sentenza Corte Cost. n. 210 del 18 luglio 2013) le Sezioni Unite sono tornate ad occuparsi del caso (OMISSIS) (decisione del 24.10.2013), affermando che il giudice della esecuzione deve provvedere alla sostituzione della pena dell’ergastolo (illegittimamente inflitta, per le note ragioni di diritto intertemporale espresse nella decisione Scoppola e ribadite da Corte Cost. in rapporto alla disposizione interna) con quella di anni trenta di reclusione.

Ma nel caso (OMISSIS) vi e’ “a monte” non soltanto la decisione CEDU ma la correlata declaratoria di incostituzionalita’ della disciplina normativa e pertanto l’intervento in esecuzione si caratterizza per due aspetti essenziali: a) la riferibilita’ del medesimo alla previsione di legge di cui alla L. n. 87 del 1953, articolo 30, comma 4; b) la riemersione, a seguito della declaratoria di incostituzionalita’, e ferma restando la rilevanza penale del fatto giudicato, di un trattamento sanzionatorio predeterminato dal legislatore in quello di anni trenta di reclusione, con esclusione di discrezionalita’ dell’intervento di modifica.

In tal senso, non possono certo attribuirsi alle Sezioni Unite di questa Corte principi di diritto – a carattere generale – mai espressi, posto che l’approdo allo strumento dell’incidente di esecuzione e’ – dichiaratamente – frutto dell’applicazione della L. n. 87 del 1953, articolo 30, comma 4 (pag. 20 della sentenza del 2013), norma che ha senso richiamare solo in quanto vi sia stata la decisione di illegittimita’ costituzionale che si pone quale “indefettibile momento intermedio” tra la decisione emessa dalla CEDU e l’applicazione post-giudicato dei principi in essa affermati nei confronti di soggetti “ulteriori” rispetto alla parte vittoriosa in sede sovranazionale, sempre che la decisione CEDU abbia individuato un vizio strutturale dell’ordinamento interno (nel caso in esame derivante da una norma) tale da rendere “necessaria” l’estensione degli effetti come misura riparatoria ricollegabile con chiarezza alle previsioni degli articoli 41 e 46 della Convenzione, per come interpretati dalla stessa CEDU (ai sensi dell’articolo 32 della Conv.) nel corso del tempo (v. sentenze Scozzari e Giunta contro Italia del 13.7.2000, Broniowski contro Polonia del 22.6.2004, Abbasov contro Azerbajan del 17.1.2008 ed altre; si vedano altresi’ la decisioni emesse nei casi Yildiz contro Turchia del 10.11.2005, Dybeku contro Albania del 18.12.2007, Kauczor contro Polonia del 3.2.2009, Sarica e Dilaver contro Turchia del 27.5.2009, Vassilios Athanasiou ed altri contro Grecia del 21.12.2010, Torreggiani ed altri contro Italia del 8.1.2013 ed altre, espressione della tendenza ormai diffusa, ed invero opportuna, della CEDU di indicare, espressamente, la necessaria adozione di misure generali o quantomeno di dettare linee-guida idonee ai sensi dell’articolo 46 a realizzare l’obiettivo di tutela, li’ dove sia riscontrata tale tipologia di violazione, come auspicato nella risoluzione del Comitato dei Ministri del 12 maggio 2004). Anche in tal caso, pertanto, non puo’ estrarsi da tale sequenza decisoria un principio generale, se non nei seguenti limiti, peraltro emergenti in modo chiaro dai contenuti di C. Cost. n. 210 del 2013, con considerazioni ribadite, di recente, dalla stessa Corte Costituzionale nella decisione numero 57 emessa in data 23 marzo 2016 (si veda in particolare il par.7 di detta decisione):

a) li’ dove il giudicato CEDU evidenzi un problema strutturale dell’ordinamento interno, derivante dall’applicazione di una norma di legge, il tema assume rilievo anche nei casi diversi da quello deciso dalla CEDU, purche’ identici, in virtu’ di quanto previsto dall’articolo 46 Conv. Eur.. Cio’ deriva o dalla espressa indicazione contenuta nella decisione della CEDU circa la natura generale della fonte della violazione e circa la necessaria adozione di misure riparatorie collettive (si tratti o meno di “sentenza pilota”, dato che l’applicazione dell’articolo 61 del Regolamento della Corte adottato il 1.9.2012 deriva, come evidenziato dalla difesa del ricorrente, dalla necessita’ di congelare la trattazione di ricorsi seriali o prevenire il flusso di tali ricorsi e non puo’ dirsi dunque indispensabile), o da una interpretazione del contenuto della sentenza che evidenzi – pur nel silenzio della CEDU, interpretabile pero’ come indizio di assenza del rilievo generale – con assoluta chiarezza la natura generale della violazione del diritto riconosciuto dalla Convenzione Europea;

b) l’esecuzione del giudicato CEDU emesso nei confronti dello Stato italiano ed invocato da soggetti diversi dal destinatario diretto della pronunzia favorevole, li’ dove la causa della violazione sia riconducibile all’avvenuta applicazione di una norma di legge, richiede l’attivazione preliminare dell’incidente di legittimita’ costituzionale della norma in questione per violazione potenziale dell’articolo 117 Cost., comma 1;

c) li’ dove sia intervenuta pronunzia nel senso della illegittimita’ costituzionale, la modifica del giudicato andra’ realizzata tramite l’apertura di un procedimento di revisione (Corte Cost. n.113 del 2011) se il tema posto in sede sovranazionale rende necessaria la riapertura del giudizio di cognizione; in alternativa va utilizzato lo strumento dell’incidente di esecuzione ove l’intervento richiesto risulti predeterminato da altre norme giuridiche applicabili al caso (come nella vicenda Scoppola, caraterizzata dalla incidenza della decisione CEDU non sull’an della responsabilita’ ma sulla misura della sanzione).

E’ la stessa Corte Costituzionale, in particolare, ad evidenziare tali aspetti nella decisione del 2013, affermando la priorita’ logica dello strumento della revisione, per come ampliato dalla decisione n. 113 del 2011 cui, tuttavia – nel caso specifico dell’ (OMISSIS) – puo’ evitare di ricorrersi essenzialmente per esigenze di semplificazione procedurale ” non essendo necessaria una riapertura del processo di cognizione… in quanto… occorre piu’ semplicemente incidere sul titolo esecutivo, in modo da sostituire la pena irrogata con quella conforme alla CEDU e gia’ precisamente determinata nella misura dalla legge”

Del resto, dalla decisione numero 113 del 2011, emessa dal giudice delle leggi proprio nel caso del (OMISSIS), non emerge alcuna valida ragione per ritenere l’intervento additivo operato in rapporto all’articolo 630 – come limitato ai casi di accertata violazione dell’articolo 6 della Convenzione (con assoluta esclusione dell’articolo 7), esprimendosi la Corte Costituzionale in termini assolutamente generali e facendo riferimento solo in chiave esemplificativa (ed in rapporto al caso scrutinato) alle necessarie eliminazioni dei vizi procedurali riscontrati. In tal senso e’ del tutto evidente che li’ dove la decisione emessa dalla CEDU sul tema dell’articolo 7 implichi non gia’ un vizio assoluto della affermazione di responsabilita’ (per assenza di norme incriminatrici al momento del fatto) quanto un vizio di prevedibilita’ della sanzione (ferma restando la responsabilita’ penale) o comunque lasci aperte piu’ soluzioni possibili del caso, lo strumento di adattamento va individuato nella revisione: “.. posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto piu’ se attinente a diritti fondamentali – la Corte e’ tenuta comunque a porvi rimedio: e cio’, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (o, meglio, la norma maggiormente pertinente alla fattispecie in discussione) omette di prevedere. Ne’, per risalente rilievo di questa Corte.., puo’ essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimita’ costituzionale delle leggi la carenza di disciplina – reale o apparente – che da essa puo’ derivarne, in ordine a determinati rapporti. Spettera’, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo piu’ sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione. Nella specie, l’articolo 630 c.p.p. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo proprio perche’ (e nella parte in cui) non contempla un “diverso” caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate nell’articolo 629 c.p.p.) la riapertura del processo – intesa, quest’ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attivita’ gia’ espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio – quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (cui, per quanto gia’ detto, va equiparata la decisione adottata dal Comitato dei ministri a norma del precedente testo dell’articolo 32 della CEDU). La necessita’ della riapertura andra’ apprezzata – oltre che in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata (e’ di tutta evidenza, cosi’, ad esempio, che non dara’ comunque luogo a riapertura l’inosservanza del principio di ragionevole durata del processo, di cui all’articolo 6, paragrafo 1, CEDU, dato che la ripresa delle attivita’ processuali approfondirebbe l’offesa) – tenendo naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, nonche’ nella sentenza “interpretativa” eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 3, della CEDU. S’intende, per altro verso, che, quando ricorra l’evenienza considerata, il giudice dovra’ procedere a un vaglio di compatibilita’ delle singole disposizioni relative al giudizio di revisione. Dovranno ritenersi, infatti, inapplicabili le disposizioni che appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non gia’ rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato), prime fra tutte – per quanto si e’ osservato – quelle che riflettono la tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo proscioglimento del condannato. Cosi’, per esempio, rimarra’ inoperante la condizione di ammissibilita’, basata sulla prognosi assolutoria, indicata dall’articolo 631 c.p.p.; come pure inapplicabili saranno da ritenere – nei congrui casi – le previsioni dell’articolo 637 c.p.p., commi 2 e 3 (secondo le quali, rispettivamente, l’accoglimento della richiesta comporta senz’altro il proscioglimento dell’interessato, e il giudice non lo puo’ pronunciare esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio). Occorre considerare, d’altro canto, che l’ipotesi di revisione in parola comporta, nella sostanza, una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali – al ricordato principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato. In questa prospettiva, il giudice della revisione valutera’ anche come le cause della non equita’ del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli.

9. – Giova ribadire e sottolineare che l’incidenza della declaratoria di incostituzionalita’ sull’articolo 630 c.p.p. non implica una pregiudiziale opzione di questa Corte a favore dell’istituto della revisione, essendo giustificata soltanto dall’inesistenza di altra e piu’ idonea sedes dell’intervento additivo. Il legislatore resta pertanto e ovviamente libero di regolare con una diversa disciplina – recata anche dall’introduzione di un autonomo e distinto istituto – il meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali (quale, ad esempio, la previsione di un termine di decadenza per la presentazione della domanda di riapertura del processo, a decorrere dalla definitivita’ della sentenza della Corte europea). Allo stesso modo, rimane affidata alla discrezionalita’ del legislatore la scelta dei limiti e dei modi nei quali eventualmente valorizzare le indicazioni della Raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, piu’ volte richiamata, nella parte in cui prospetta la possibile introduzione di condizioni per la riapertura del procedimento, collegate alla natura delle conseguenze prodotte dalla decisione interna e all’incidenza su quest’ultima della violazione accertata (punto 2, 1 e 2)…”.

Rappresenta, pertanto una eccessiva semplificazione del tema qui trattato l’affermazione difensiva per cui nel caso del (OMISSIS) (ammessa l’identita’ di posizione e la natura generale della violazione accertata, punti su cui dovra’ tornarsi) l’unico eventuale strumento di conformazione sarebbe rappresentato dall’incidente di esecuzione diretto, in virtu’ del fatto che non vi e’ alcuna norma da dichiarare previamente illegittima costituzionalmente.

Tale affermazione se da un lato offre uno spunto di riflessione valido (li’ dove la violazione non riguardi l’avvenuta applicazione di una legge, ma – ad esempio – un determinato orientamento giurisprudenziale, una prassi amministrativa o una condizione di fatto correlata all’inerzia di un pubblico potere non ha senso ipotizzare la previa declaratoria di incostituzionalita’) non tiene conto di quanto sinora esposto, specie sull’analisi della priorita’ dello strumento della revisione, che resta il “principale” canale di adeguamento dell’ordinamento interno ai contenuti delle decisioni emesse dalla CEDU, li’ dove siano in gioco effetti di “sentenze”, sia in rapporto a violazioni di principi processuali (articolo 6 Conv.) che in rapporto a violazioni ricadenti nell’ambito dell’art.7 cui non seguano conseguenze obbligate o predeterminate da altre norme applicabili al caso oggetto di previo giudizio. Lo stesso – pur utile – riferimento, operato nella memoria difensiva di replica alla requisitoria del Procuratore Generale, alle possibili ricadute – nel caso del (OMISSIS) – della decisione CEDU in questione sul fronte del principio di colpevolezza inteso come effettiva conoscenza del precetto al momento dei fatti (articolo 5 c.p. per come interpolato da Corte Cost. n.364 del 1988) sottintendono – ove apprezzabili – una rielaborazione critica dell’evento giudiziario e della prevalente giurisprudenza interna sul tema (si veda, in particolare, quanto affermato da Sez. 6, n. 6991 del 25.1.2011, rv 249451) eventi realizzabili – in ipotesi – solo attraverso lo strumento giuridico della revisione e non certo in sede di incidente di esecuzione, per le ragioni sinora esposte

A cio’ non sarebbe – peraltro – di ostacolo la “alterita’ soggettiva” del promotore della revisione rispetto al soggetto “vittorioso” nella pronunzia resa a Strasburgo ed avente come convenuto l’Italia (come invece appare sostenuto in taluni arresti di questa Corte nella sinora scarna elaborazione del tema – ed in particolare da Sez. 6, n. 29.5.2014) posto che in sede di prospettazione l’istante ben potrebbe evidenziare la portata generale della violazione accertata e la sostanziale identita’ del caso – che renderebbero, in tesi, legittimo l’intervento di adeguamento o la proposizione del dubbio di costituzionalita’ salve ovviamente le valutazioni “di merito” del giudice investito dalla domanda (per la elementare distinzione tra la legittimazione alla proposizione di un ricorso e l’emissione di un provvedimento favorevole al ricorrente).

In particolare, concludendo qui la disamina preliminare sui punti indicati in apertura, va ritenuto che l’incidente di esecuzione rappresenti in linea teorica – stante la perdurante inerzia del legislatore – solo uno dei possibili strumenti di adeguamento dell’ordinamento interno alle decisioni definitive emesse dalla CEDU, postergato rispetto alla revisione (sent. 113 del 2011) cui puo’ farsi ricorso solo nel caso in cui: a) la decisione, sia o meno stata adottata nelle forme della “sentenza pilota”, abbia effettiva e obiettiva portata generale; b) le situazioni in comparazione (caso deciso dalla CEDU/caso soggettivamente diverso sottoposto a scrutinio) siano identiche; c) non sia necessaria la previa declaratoria di illegittimita’ costituzionale di una norma e l’intervento di rimozione o modifica del giudicato non presenti nessun contenuto discrezionale, risolvendosi nell’applicazione di altro e ben identificato precetto.

4. Per le ragioni che qui si espongono, il caso del (OMISSIS) non rientra nella ipotizzata categoria di cui ai punti a), b) e c) del periodo che precede.

4.1 Non vi e’, in particolare, identita’ di posizione tra il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), ne’ la decisione emessa nel caso (OMISSIS) – pur avendo spunti potenzialmente generalizzanti, specie sul tema della legalita’ della sanzione – puo’ dirsi tale da imporre una modifica del giudicato “a rime obbligate” (il ricorrente ne sollecita la ineseguibilita’ totale, ipotizzando che la decisione CEDU nel caso (OMISSIS) riguardi l’an della responsabilita’, e sia in tal senso idonea a travolgere in toto ogni pronunzia irrevocabile in tema di concorso esterno per fatti antecedenti al 1994).

4.2 Numerose sono le diversita’ di condizione giuridica e processuale tra (OMISSIS) e (OMISSIS), che non autorizzano a ritenere sussistente l’assoluta identita’ tra i due casi.

Circa tale aspetto, come si e’ esposto in premessa, questa Corte non e’ tenuta al rispetto della affermazione, peraltro generica, contenuta nel provvedimento impugnato.

L’unico dato di convergenza tra i due casi e’ rinvenibile nel fatto che sia (OMISSIS) che (OMISSIS) risultano condannati in via definitiva per fatti di concorso esterno ritenuti sussistenti in periodo antecedente all’ottobre del 1994 (momento, anche secondo la 30 CEDU, di consolidamento dell’orientamento giurisprudenziale in tema di configurabilita’ del concorso esterno). Il primo ( (OMISSIS)) per fatti piu’ risalenti nel tempo, il secondo ( (OMISSIS)) per fatti commessi sino al 1192.

Tale aspetto, tuttavia, non puo’ ritenersi assorbente, posto che al fine di ritenere sussistente o meno un deficit di prevedibilita’ degli effetti della propria condotta se da un lato rilevano gli orientamenti giurisprudenziali contrastanti (aspetto su cui si tornera’ in seguito) dall’altro rileva la concreta vicenda processuale, la condizione soggettiva dell’imputato al momento del fatto, le modalita’ di esercizio del diritto di difesa della persona accusata durante il giudizio interno.

Pur in presenza di una “presunzione” di scarsa prevedibilita’ dell’esito del giudizio (dovuta alla esistenza dei contrasti giurisprudenziali), tali indicatori, nel caso del (OMISSIS), finiscono con invertirla.

L’assenza di un giudicato CEDU a favore del (OMISSIS) rende, infatti, libero l’interprete di analizzare tanto la condotta processuale del (OMISSIS) (sinora non oggetto di apprezzamento in sede sovranazionale) che i contenuti della decisione CEDU emessa nel caso (OMISSIS), come precisato dalla Corte Costituzionale nella decisione numero 49 del 2015, nei sensi che seguono.

Sul punto, va precisato che in procedimenti diversi rispetto a quello che ha “dato luogo” alla pronunzia sovranazionale, l’interprete ha il dovere di apprezzare non solo le circostanze processuali concrete (ivi comprese le modalita’ di esercizio del diritto di difesa, denotanti la condizione soggettiva di consapevolezza dell’illecito posta a monte del giudizio) ma gli stessi contenuti del “precedente” rappresentato dalla decisione emessa dalla CEDU, li’ dove non vi sia stata – in tale decisione – la concreta e visibile affermazione della “natura generale” della violazione riscontrata.

Tale affermazione nella decisione (OMISSIS) contro Italia non e’ presente (trattasi di un indizio di assenza di rilievo generale, pur non decisivo, per quanto detto in precedenza) e la CEDU nella sua motivazione: a) valorizza le circostanze concrete del caso analizzando la condotta processuale tenuta dal (OMISSIS) e la sua prospettazione del tema sin dall’inizio del giudizio interno, con ipotesi di qualificazione alternativa della condotta; b) declina le sue valutazioni finali sempre in termini individuali.

Tali aspetti, pur non decisivi, portano a ritenere possibile un’analisi dei contenuti della decisione tesa a comprendere se, nonostante l’assenza di affermazioni rilevanti ai sensi dell’articolo 46 erga alios, l’avvenuto accoglimento del ricorso in sede CEDU per un profilo “misto”, correlato da un lato alla condotta processuale del (OMISSIS) (che, fatto di estremo rilievo, aveva offerto ai giudici interni una possibilita’ alternativa di qualificazione del reato in termini di favoreggiamento personale), dall’altro ad una “vicenda interpretativa” delle norme di legge applicate nell’ordinamento interno (il contrasto di opinioni composto ad ottobre 1994) consenta o meno all’interprete di “estrarre” dalla decisione in parola un “profilo generalista” estensibile a soggetti diversi.

Compiendo tale operazione, peraltro, va premesso che la decisione emessa nel caso (OMISSIS) dalla CEDU non puo’ essere definita “innovativa” ed e’ dunque di certo valutabile in chiave interpretativa rispetto al tema qui trattato.

In effetti, a partire da S. W. contro Regno Unito del 22.11.1995, con approfondimenti del tema in Pessino contro Francia del 10.10.2006 e Del Rio Prada contro Spagna del 21.10.2013 (quest’ultima intervenuta sul tema del mutamento di giurisprudenza in sede di modalita’ applicative di benefici penitenziari incidenti sul quantum di pena da scontare) e’ usuale che nell’applicazione dell’articolo 7 della Convenzione la CEDU compia riferimento anche agli orientamenti giurisprudenziali tesi a concretizzare il contenuto delle disposizioni di legge e ne analizzi le ricadute sul tema della prevedibilita’ – nelle sue due componenti rappresentate a) dalla prevedibilita’ della responsabilita’ o b) dalla prevedibilita’ della misura della sanzione – posto che il testo della disposizione non fa riferimento alla legge ma al diritto interno (nessuno puo’ essere condannato per una azione o omissione che, al momento in cui e’ stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti non puo’ essere inflitta una pena piu’ grave di quella applicabile al momento in cui il reato e’ stato commesso). Dunque tale aspetto non e’ di ostacolo, come erroneamente ritenuto nel provvedimento impugnato, all’apprezzamento, in concreto, della rilevanza della decisione nel caso qui in trattazione.

4.3 Esplorando le diversita’ di condizione soggettiva va dunque affermato che (OMISSIS), a differenza del (OMISSIS), ha affrontato il giudizio penale con contestazione aperta, spinta sino ad epoca (fine anni âEuroËœ90) posteriore alla decisione Demitry. Il contraddittorio processuale ha dunque incluso sia periodi antecedenti rispetto all’intervento delle Sezioni Unite che periodi successivi (per la stessa CEDU immuni da ogni dubbio di legalita’ convenzionale), in rapporto ai quali l’imputato e’ stato assolto.

Quanto al periodo antecedente al 1994 (OMISSIS) – nella articolazione delle sue difese nel giudizio interno – non ha mai sollevato, a differenza del (OMISSIS), il tema del difetto di prevedibilita’ dell’inquadramento giuridico o quello della retroattivita’ della interpretazione giurisprudenziale, avendo – come risulta dalla decisione emessa da questa Corte nel maggio del 2014, nonche’ in modo ancor piu’ chiaro dalla decisione rescindente emessa in data 9 marzo 2012 dalla 5 Sezione Penale di questa Corte (v. pag. 110 ove espressamente si afferma.. sul tema della configurabilita’, in linea di principio, del concorso esterno non sono stati sollevati dubbi dogmatici neppure dalla difesa..) piu’ volte invocato proprio l’applicazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte nella decisione del 1994, ritenuti funzionali alla propria strategia difensiva.

Il tema della tassativita’ “debole” del concorso esterno risulta coltivato dal (OMISSIS) esclusivamente in chiave processuale, posto che ha dato luogo ad una questione di genericita’ del capo di imputazione (che e’ ovviamente profilo diverso), respinta da questa Corte.

Puo’ dunque affermarsi che dal contegno processuale tenuto dal (OMISSIS) nei giudizi interni non emerge alcun deficit in punto di prevedibilita’ in concreto delle conseguenze della condotta tenuta al momento del fatto in rapporto all’esito del giudizio, non essendosi mossa alcuna contestazione (a differenza del (OMISSIS)) di tale specifico profilo innanzi alla giurisdizione interna (dato significativo dell’assenza di pregiudizio individuale), con problematica riconduzione di tale condotta processuale in chiave di ipotetica ammissibilita’ di un ricorso individuale ex articolo 35, comma 1 Conv. (per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne).

(OMISSIS), in effetti, ha coltivato sin dall’inizio del processo a suo carico – al di la’ della richiesta di assoluzione – una precisa ipotesi alternativa di qualificazione giuridica del fatto, a lui’ piu’ favorevole, in termini di favoreggiamento personale. Da cio’ e’ essenzialmente derivata la doglianza esposta in sede sovranazionale e riconosciuta valida dalla CEDU.

Nella ultima decisione interna, emessa da questa Corte, 6 Sezione penale, in data 10.5.2007 cosi’ si sintetizza – sul punto – il motivo di ricorso del (OMISSIS):… sostenendosi altresi’ nel ricorso che gli interrogativi mossi con i replicati motivi di appello non avrebbero sempre trovato persuasive risposte nelle decisioni di legittimita’ di questa Corte regolatrice, il ricorso ribadisce la persistenza di un problema di rispetto dei principi di tassativita’ e tipicita’ della fattispecie incriminatrice (difetto di tipicita’ di cui prenderebbe atto la sentenza S.U. Mannino, ad esso difetto “sopperendo con principi di tutto rigore in materia di dolo”) e rinnova (trattasi di notazione anch’essa riveniente dai motivi di appello) la prospettazione – in subordine rispetto alla principale richiesta di esclusione del concorso esterno ascritto al ricorrente – dell’eventuale alternativa riconducibilita’ dei contegni dell’imputato nell’area del favoreggiamento personale….

A tale motivo veniva fornita la seguente risposta:… con il terzo motivo di ricorso la difesa dell’imputato, riprendendo prospettazioni formulate con i motivi di appello – oltre a porre in dubbio la stessa configurabilita’ teorica del concorso esterno in associazione mafiosa – sostiene quale unica ipotesi alternativa cui eventualmente correlare la condotta del (OMISSIS) quella del favoreggiamento personale (cfr. 5.3). Con il che la difesa mostra di non aver sufficientemente esaminato i contenuti decisori della sentenza di annullamento di questa Corte del 2002. L’ipotesi in parola (rapporti e differenze tra concorso esterno e favoreggiamento personale) ricade a pieno titolo nell’area delle questioni di diritto decise dalla sentenza rescindente di legittimita’ e dei principi di diritto conseguentemente enunciati. Esaminando la sentenza di appello del 2001, questa Corte ha – tra l’altro – colto le palesi incongruenze logico-giuridiche della tesi di chiusura incidentalmente formulata nella sentenza cassata, che – esclusa la sussistenza del reato di concorso esterno mafioso – esprime l’opinione della possibile sussumibilita’ dei contegni dell’imputato nella fattispecie sanzionata dall’articolo 378 c.p. (per altro raggiunta da prescrizione).

La sentenza di annullamento ha, quindi, reputato necessario delineare i criteri di demarcazione tra le due ipotesi del concorso esterno e del favoreggiamento, chiarendo (principio di diritto) che l’aiuto consapevolmente prestato a soggetto che perseveri attualmente nella condotta costitutiva di un reato tipicamente permanente, come quello di associazione per delinquere, da luogo a concorso in tale reato e non a favoreggiamento, a meno che detto aiuto, per caratteristiche e modalita’ di attuazione, non si traduca in alcun modo in un sostegno o incoraggiamento della condotta criminosa associativa. Avendo ritenuto dimostrata l’efficienza agevolatrice e rafforzativa di Cosa Nostra riconducibile alle condotte dell’imputato, bene ha fatto la Corte territoriale ad esimersi dall’affrontare il tema (residuale e assorbito dall’affermata sussistenza del concorso esterno) dell’eventuale configurarsi del favoreggiamento personale di (OMISSIS), cosi’ ottemperando all’obbligo di adeguamento alla decisione e al principio di diritto definito dalla S.C….

Non risultano analoghe prospettazioni del (OMISSIS), soggetto che – per deduzione logica – e’ da ritenersi che non abbia risentito dei contrasti giurisprudenziali esistenti al momento di realizzazione delle condotte (quelle sino al (OMISSIS)) poi oggetto di giudizio.

Tale aspetto non e’ per nulla irrilevante, posto che tornando alla decisione CEDU di cui si invoca l’applicazione (quella emessa nel caso (OMISSIS)) va affermato che tale sentenza appare tesa a riconoscere l’esistenza della violazione dell’articolo 7 Conv. Eur. non gia’ sul crinale della scarsa prevedibilita’ della rilevanza penale del fatto di per se’ considerato (articolo 7 Conv., comma 1 primo periodo) quanto sul tema della sua esatta qualificazione giuridica (articolo 7, comma 2 secondo periodo, caratterizzato dalla equiparazione tra prevedibilita’ della responsabilita’ e prevedibilita’ della misura della pena) e, dunque, della corrispondente forbice edittale della pena (la necessita’ postulata e’ quella di conoscere… per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilita’ penale e di quale pena e’ passibile per tali atti..; la valutazione finale e’ che.. il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilita’ penale derivante dagli atti da lui compiuti..; cosi’ la CEDU).

Si tratta, dunque, di un corno del tema della prevedibilita’ che, seppur correlato ad un rilevato deficit di chiarezza del precetto, la cui violazione ha dato luogo alla condanna, e’ cosa ben diversa rispetto al difetto di prevedibilita’ di una rilevanza penale in quanto tale della propria condotta (la prevedibilita’, ferma restando la rilevanza penale del fatto, riguarda anche il trattamento sanzionatorio, come affermato gia’ nelle ormai risalenti decisioni CEDU Baskaya e Ockuoglu contro Turchia del 8.7.1999 e E.K. contro Turchia del 7.2.2002, nonche’ dalla stessa decisione Scoppola contro Italia, prima evocata) e si ricollega alla esistenza di “alternative sanzionatorie” piu’ favorevoli, che legittimamente e ragionevolmente il cittadino riteneva prevedibili, in luogo del trattamento ricevuto

4.4 In cio’ la decisione (OMISSIS) – ove non enfatizzata nei suoi contenuti – pur evidenziando le criticita’ derivanti dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione mafiosa non realizza – a ben vedere – una considerazione generalizzata di illegittimita’ convenzionale di qualsiasi affermazione di responsabilita’, per fatti antecedenti al 1994, divenuta irrevocabile. Le incertezze interpretative, nello specifico caso (OMISSIS), sono oggetto di analisi in relazione al deficit di prevedibilita’ del trattamento sanzionatorio inflitto, posto che la qualificazione giuridica era quella – per il (OMISSIS) – ritenuta dalla CEDU non prevedibile al momento del fatto.

Il profilo “generalista”, pur parzialmente esistente in quanto ricollegabile alla identificazione come “causa” della incertezza di un “contrasto giurisprudenziale sulla esistenza della fattispecie applicata” e’ da ricollegarsi – in concreto – non gia’ all’alternativa fatto lecito/fatto illecito (atteso che la condotta materiale di agevolazione costante al sodalizio mafioso o a suoi singoli esponenti, oggetto di giudizio, e’ inquadrabile astrattamente in piu’ fattispecie di parte speciale) quanto all’aspettativa dell’imputato – nel caso concreto – di ricevere un trattamento sanzionatorio piu’ mite, nella misura in cui la qualificazione prevedibile nonche’ sollecitata, in via subordinata dal (OMISSIS), era quella del favoreggiamento personale.

Dunque il limitato “contenuto generale” di tale decisione e’ ricollegabile a due condizioni ulteriori, fermo restando il dato temporale della condanna (ante âEuroËœ94) per concorso esterno: a) le ricadute negative del conflitto interpretativo sulla persona dell’accusato siano ad un esame ex post percepibili attraverso l’esame della condotta processuale tenuta da costui, data l’ineliminabile componente soggettiva del giudizio di imprevedibilita’; b) sia stata, in tal senso, almeno sollecitata dalla parte una diversa qualificazione giuridica del fatto, posto che il deficit di prevedibilita’ – nel caso (OMISSIS) riguarda essenzialmente la sanzione.

4.4 Tale condizione non appare sostenibile nel caso del (OMISSIS), la cui difesa ha, per converso, sollevato nel giudizio interno il tema della “erronea applicazione, alla condotta tenuta e ricostruita nel giudizio, dei principi giurisprudenziali regolanti l’istituto del concorso esterno” (si veda la ricostruzione contenuta nella decisione del 2014, esposta in premessa). Tale atteggiamento processuale, peraltro, e’ indicativo della consapevolezza delle “reali” questioni che hanno attraversato la giurisprudenza sul tema del concorso esterno, dato il livello dei “consulenti illuminati” cui il (OMISSIS) si e’, evidentemente, rivolto sin da epoca risalente, che hanno agevolato la comprensione – al momento del fatto – in tale soggetto, della ragione dei contrasti interpretativi.

Sul piano concettuale e dogmatico, in tema di cittadinanza del “concorso esterno” risultano, per il vero, censite decisioni giudiziarie sin dalla seconda meta’ del 1800.

Nel giugno e nel luglio del 1875 la Corte di Cassazione di Palermo (sentenze del 17 giugno 1875 Ciaccio ed altri; del 1 luglio 1875, Russo) come ricostruito in studi dottrinari, affermava la configurabilita’ – in rapporto alla legislazione dell’epoca – della complicita’ necessaria nel reato associativo tramite l’applicazione delle norme generali sul concorso al reato plurisoggettivo in questione. Venivano in tal modo puniti taluni fiancheggiatori della temuta banda (OMISSIS).

La tipizzazione speciale delle figure associative non esclude, secondo tali decisioni, l’applicazione delle disposizioni generali in tema di concorso di persone nel reato. Cio’ anche in rapporto alla natura permanente del reato associativo, fatto che, superando la principale obiezione teorica, rende possibile la complicita’ atipica – non susseguente ma contemporanea – posto che.. il fatto costituente la complicita’ legalmente inerisce al reato perche’ lo tova esistente e quindi e’ ad esso contemporaneo…

Nel periodo storico successivo alla codificazione del 1930 (ed antecedente al 1982) si rinviene, sul tema, una decisione emessa nel 1952 nel senso della applicabilita’ della previsione estensiva contenuta nell’articolo 110 c.p. al reato di associazione per delinquere (Cass. 28 aprile 1952, Barbieri) ma e’ soprattutto nel settore dell’associazionismo politico che, come e’ noto, la Corte di Cassazione – con la decisione emessa in data 27 novembre 1968 nel caso Muther ed altri – torna ad occuparsi dei profili dogmatici, ritenendo pienamente legale (e dunque dovuta, in un sistema che esclude discrezionalita’ di esercizio dell’azione) l’applicazione della clausola estensiva dell’articolo 110 c.p. al reato di cospirazione politica mediante associazione (articolo 305 c.p. che prevede figure tipiche di partecipe, promotore, organizzatore). La precisazione fatta all’epoca e’, peraltro, di notevole interesse sistematico: “il fatto del concorrente e’ agevolmente individuabile nell’attivita’ di chi – pur non essendo membro del sodalizio, cioe’ non aderendo ad esso nella piena accettazione della organizzazione, dei mezzi e dei fini – contribuisce all’associazione merce un apprezzabile fattivo apporto personale, agevolandone l’affermarsi e facilitandone l’operare, conoscendone l’esistenza e le finalita’, ed avendo coscienza del nesso causale del suo contributo”.

La giurisprudenza, dunque, negli anni âEuroËœ70 traccia i confini sistematico-garantistici della confermata applicabilita’ della previsione generale (articolo 110) al reato associativo, allo scopo di evitare improprie dilatazioni dell’area della contiguita’ punibile, ma non nega la premessa di sistema. Tale premessa, ossia l’applicazione della clausola estensiva di cui all’articolo 110 c.p. alle fattispecie plurisoggettive di associazione era dunque ampiamente conoscibile, mediante un minimo di diligenza informativa.

Va peraltro ricordato che la stessa giurisprudenza costituzionale interna aveva – in diverse pronunzie emesse negli anni âEuroËœ70 – costantemente affermato, in rapporto alle questioni sorte in tema di tassativita’ delle fattispcie di parte speciale, che non contraddice al principio di legalita’ della pena il fatto che il legislatore, anziche’ procedere ad una rigorosa e tassativa descrizione di un fatto-reato, ricorra per la sua individuazione a concetti extragiuridici diffusi e generalmente compresi nella collettivita’ in cui il giudice opera (sentenza num. 42 del 1972) e che non sono in contrasto con il principio di legalita’ penale le fattispecie criminose a forma libera, che richiamano cioe’, con locuzioni generiche ma di ovvia comprensione, concetti di comune esperienza o valori etico-sociali oggettivamente accertabili dall’interprete.. posto che la necessaria “tassativita’” della fattispecie non si risolve ne’ si identifica nella (piu’ o meno complessa) “descrittivita’” della stessa (sent. num. 188 del 1975).

In riferimento al reato di associazione per delinquere di stampo mafioso di cui all’articolo 416 bis c.p. (L. 13 settembre 1982, n. 646) la vicenda storico/interpretativa della configurabilita’ o meno del concorso esterno (nelle singole condotte tipiche di partecipazione, direzione, promozione, organizzazione) e’ dunque comprensibile e valorizzabile solo ove la sequenza di decisioni emesse sul tema (frutto, in verita’, del fisiologico dispiegarsi del ragionamento giuridico e della costante necessita’ di interpretazione delle espressioni linguistiche utilizzate dal legislatore) venga letta attraverso il filtro logico della corrispondente elaborazione della nozione di partecipazione punibile (la condotta tipica di parte speciale, il cui confine di tassativita’ risulta peraltro assicurato dai contenuti descrittivi dell’articolo 416 bis c.p., comma 2).

In numerosi arresti, tra cui quelli che hanno dato luogo al contrasto interpretativo, l’affermazione di “non configurabilita’” del concorso esterno non e’ per nulla correlata ad una opzione “liceizzante” della condotta oggetto del singolo giudizio – la concreta e consapevole condotta di ausilio al raggiungimento degli scopi dell’associazione mafiosa-, condotta di cui sia stata fornita prova nel processo, ma sovente tende ad attrarre la condotta agevolatrice de qua all’interno della categoria tipica della partecipazione punibile (si veda, ad es. quanto deciso in data 19 gennaio 1987 nel caso Cillari ed altri, manifestamente orientata in tale direzione, nonche’ lo stesso contenuto della nota sentenza emessa in data 30 gennaio 1992 nel caso Abbate ed altri, ove si afferma, tra l’altro, che “.. i cd. concorsi esterni.. in realta’ non sono inquadrabili nella ipotesi della compartecipazione ai sensi dell’articolo 110, postoche’ ove concretatisi in sistematico e continuativo appoggio nel conseguimento degli scopi associativi sono essi stessi condotte di partecipazione, in nulla dissimili dalle altre concorrenti, restando cosi’ limitate le configurazioni di ricettazioni, favoreggiamento e simili ai soli comportamenti adiuvanti di carattere saltuario o episodico..”).

Non e’ un caso, dunque, che la decisione del 13 giugno 1987 (Altivalle ed altri) proprio nel realizzare “a monte” una perimetrazione restrittiva del concetto di “partecipazione” alla associazione – nel senso della necessaria prova dell’avvenuto “inserimento” del soggetto nella organizzazione criminale (primo tassello del cd. modello organizzatorio, ampiamente ripreso e perfezionato nelle decisioni SS.UU. del 1994 e successive) – abbia teorizzato in modo espresso la configurabilita’ del concorso esterno in relazione alle condotte poste in essere dall’extraneus e dotate di obiettiva rilevanza causale ai fini del consolidamento e mantenimento in essere della organizzazione criminosa. Si tratta, in altre parole, delle ricadute di due approcci diversi alla ricostruzione del significato della espressione “fa parte” contenuta nell’articolo 416 bis c.p., comma 1 (ove e’ indubbia l’avvenuta espressione di un concetto descrittivo di sintesi, da parte del legislatore, che esige di per se’ una concretizzazione in sede applicativa).

Li’ dove, in estrema sintesi, tale locuzione venga interpretata come volonta’ normativa di punire chiunque “rechi un contributo volontario e causalmente apprezzabile” al raggiungimento degli scopi del gruppo criminoso e’ evidente che vi e’ divieto di fare ricorso alla clausola estensiva di cui all’articolo 110 c.p., pena la violazione del principio del ne bis in idem sostanziale (il soggetto in questione e’ ritenuto partecipe e il contributo causale reso volontariamente e’ gia’ punibile sub articolo 416 bis) mentre li’ dove si adotti altro criterio di identificazione della condotta partecipativa (e cioe’ la prova dell’inserimento stabile nel tessuto organizzativo) l’applicazione della clausola estensiva realizza nell’ambito del sistema normativo – il suo obiettivo normativo “ordinario” di parificazione delle conseguenze sanzionatorie in rapporto al determinarsi dell’evento (con applicazione del principio generale in tema di equivalenza delle cause, sul quale si rimanda, per tutte a Sez. 6, del 25.1.1990).

Per tale ultima opzione, infatti, essendo l’evento (in senso giuridico e materiale) – che la norma incriminatrice di cui all’articolo 416 bis tende a reprimere – definibile come l’esistenza ed operativita’ concreta di un “consorzio umano organizzato” (l’associazione mafiosa) avente determinate caratteristiche, e’ evidente che rispetto a tale “dato” fenomenico, ove riscontrato in fatto, debbano assumere rilievo non soltanto le condotte direttamente espressive di “intraneita’” (in quanto dimostrative della connaturale ripartizione di compiti, attribuiti agli associati in senso stretto), ma anche quelle condotte che, pur poste in essere da soggetti “esterni”, contribuiscano in modo oggettivamente rilevante (e soggettivamente consapevole) alla realizzazione dell’evento medesimo.

Dunque un soggetto avente la capacita’ di rapportarsi – anche con l’ausilio di consulenti esperti – ai reali termini della questione, tra la fine degli anni âEuroËœ80 e l’inizio degli anni âEuroËœ90, era perfettamente in grado di comprendere che la propria condotta volontaria di agevolazione costante (e non episodica) in favore di un sodalizio mafioso era condotta illecita e poteva – se dimostrata – essere qualificata (in rapporto ai termini del contrasto) come condotta partecipativa (articolo 416 bis, comma 1), come condotta di concorso esterno (articolo 110 e articolo 416 bis, comma 1) o, al piu’, come condotta di favoreggiamento continuato.

L’incertezza – stigmatizzata dalla CEDU nel 2015 – verteva sulla qualificazione, non sulla illiceita’, essendo l’evoluzione giurisprudenziale interna (specie con la decisione Sez. U. Mannino) tesa a delimitare l’area della partecipazione (articolo 416 bis puro) al contempo inglobando le idonee condotte di ausilio costante e consapevole al raggiungimento degli scopi del sodalizio (per l’opinione minoritaria rientranti nella partecipazione medesima e non nell’agire lecito) nel concorso cd. esterno e richiedendo, con portata garantistica evolutasi nel tempo, la ricostruzione, secondo il corretto modello causale, dell’idoneita’ effettiva del contributo, con valutazione ex post.

Ora, che tali condotte di ausilio alla organizzazione mafiosa finiscano con il rientrare, secondo le opinioni espresse in giurisprudenza prima dell’anno 1994: a) nella partecipazione punibile (li’ dove dotate di sistematicita’ e continuita’, secondo le letture della norma di parte speciale minoritarie) b) nel concorso esterno (per le opinioni che delimitano la nozione di partecipazione, richiedendo la dimostrazione dell’avvenuto inserimento nel tessuto organizzativo per tale status e l’idoneita’ del contributo causale per il concorrente), c) in altra figura di reato di parte speciale riconoscibile (favoreggiamento, ricettazione o altro, valorizzando la tipicita’ della singola figura di reato) magari aggravata ai sensi della previsione di legge di cui al Decreto Legge n. 152 del 1991, articolo 7 (come evidenziato nelle decisioni immediatamente antecedenti alla Demitry, Sez. 1, n. 2348 del 18.5.94 e Sez. 1, n. 2699 del 3.6.1994 che riattivano il contrasto e la necessaria soluzione del conflitto, peraltro tutte emesse nel medesimo anno dell’intervento compositore) e’ di certo tema rilevante in riferimento alla concreta “prevedibilita’” dell’esito del giudizio, ma cio’ su cui occorre riflettere – in chiave di analisi delle potenziali ricadute erga alios della decisione emessa dalla CEDU nel caso (OMISSIS) – e’ che da un lato l’opzione della totale irrilevanza penale di simili condotte era soltanto una marginale ipotesi in gioco, derivante da carenze probatorie piu’ che da questioni in diritto (fermo restando che ogni soggetto imputato si augura tale esito) dall’altro che nei giudizi definitivi a carico del ricorrente (OMISSIS) e’ stata apprezzata – in concreto e con valida ricostruzione – la piena rilevanza causale dell’apporto volontariamente fornito dall’attuale ricorrente (OMISSIS) al perseguimento dei fini dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, per un consistente numero di anni.

Non sarebbe un fuor d’opera, pertanto, ipotizzare che la forbice decisoria di “prevedibilita’” in concreto del giudizio penale a carico del (OMISSIS), li’ dove il medesimo si fosse svolto a ridosso del termine ultimo di consumazione del reato (il 1992 per come ritenuto in sentenza) sarebbe stata, per le elaborazioni dell’epoca, rappresentata dall’alternativa tra concorso esterno e partecipazione punibile, il che fa comprendere le ragioni della opzione difensiva di non contestazione (nei giudizi interni) di alcun profilo di pretesa irretroattivita’ della interpretazione giurisprudenziale

La stessa prevedibilita’ oggettiva della condotta tenuta al momento del fatto dal (OMISSIS), per quanto sinora detto, puo’ dirsi ricostruibile in tale alternativa, con esclusione di ipotesi meno gravi.

Dunque un profilo di qualificazione giuridica, neanche attinente al quantum della possibile sanzione (a differenza del caso (OMISSIS) nel cui ambito era stata prospettata l’ipotesi alternativa del favoreggiamento personale, correlata alla dimensione oggettiva dei fatti) poiche’ la pena prevista sia per il partecipe dell’associazione di tipo mafioso sia per il concorrente ad essa esterno e’, pacificamente, la stessa.

L’invocato deficit di tassativita’ – peraltro denunziabile, in termini generali con questione di costituzionalita’, li’ dove si ritenga percorribile tale strada, in tutte le ipotesi in cui la punibilita’ venga regolamentata dalla previsione estensiva di cui all’articolo 110 c.p., norma che non descrive la singola condotta ma basa la sua efficacia precettiva sulla considerazione degli effetti del comportamento tenuto dall’agente in rapporto alla capacita’ lesiva del bene protetto (e da qui le opportune precisazioni, sul versante processuale, rese da Sez. U. n. 45276 del 2003) – finisce con il rappresentare, nella vicenda in esame, un potenziale dubbio dell’agente (in termini di prevedibilita’ delle conseguenze della condotta, con valutazione ora per allora) esclusivamente in punto di qualificazione giuridica dei fatti (tra concorso pieno e partecipazione) e non in punto di rilevanza penale del comportamento posto in essere e di sanzione ad esso applicabile.

Se nel caso del (OMISSIS), in altre parole, l’opzione qualificatoria piu’ lieve era concretamente percorribile ed aveva formato oggetto di rappresentazione, si’ da essere fonte – anche per il suo (ritenuto) mancato esame nei giudizi interni – di “danno” rilevante per tale soggetto, cio’ non puo’ dirsi nel caso del (OMISSIS), in rapporto alla concreta ricostruzione della condotta processuale del medesimo.

4.4 Tutto quanto affermato esclude in radice che l’incidente di esecuzione esclusivamente correlato all’ipotesi di totale irrilevanza penale del fatto, come sostenuto dal ricorrente – possa ritenersi sede “idonea” per la ridiscussione della legalita’ convenzionale della decisione definitiva di condanna emessa a carico di (OMISSIS). Non vi e’ infatti – in ragione di quanto detto sinora – alcuna conclusione obbligata di tale verifica nel senso della rimozione della affermazione di penale responsabilita’ – cosi’ come richiesto – e tanto basta per ritenere la verifica de qua del tutto estranea ai poteri del giudice della esecuzione.

Non vengono pertanto in rilievo ne’ il dubbio di legittimita’ costituzionale delle norme in tema di esecuzione, per difetto di rilevanza, ne’ la pretesa violazione dell’articolo 5 Conv. Eur., dato che la decisione irrevocabile – per quanto e’ dato apprezzare nel presente giudizio, instaurato nelle forme e secondo le regole dell’incidente di esecuzione – non presenta aspetti di illegalita’ convenzionale.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

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