SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Ordinanza 6 giugno 2013, n. 14329
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –
Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –
Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 21376/2011 proposto da:
B.A. (c.f. (OMISSIS)), T. A. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE MAZZINI 114/B, presso l’avvocato DI MATTEI ROBERTO (STUDIO ASSOCIATO COLETTA), che le rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCESCO BILOTTA, ANNA MARIA TONIONI, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, COMUNE DI FINALE EMILIA, PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA depositato il 18/05/2011; n. 859/10 R.G.V.G.;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/02/2013 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;
udito, per i ricorrenti, gli Avvocati ANNA MARIA TONIONI e FRANCESCO BILOTTA che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato dello Stato ATTILIO BARBIERI che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione.
Svolgimento del processo
Be.Al., unito in matrimonio con T. A., ha proposto domanda di rettificazione di sesso ed attribuzione del sesso femminile al Tribunale di Bologna. Il coniuge è stato regolarmente citato in giudizio. Il P.M. vi ha partecipato ai sensi dell’art. 70 c.p.c.. Con sentenza n. 23 del 2009, passata in giudicato, il Tribunale ha disposto la rettificazione di sesso con attribuzione di sesso femminile e modifica del prenome della parte ricorrente in A.. Nella pronuncia si è ordinato all’ufficiale di stato civile del Comune di Mirandola di provvedere alla rettifica dell’atto di nascita relativo ad Be.
A. in conformità alla sentenza pronunciata, L n. 164 del 1982, ex art. 2.
In data 16/10/2009 la sentenza del Tribunale di Bologna è stata annotata a margine dell’atto di matrimonio, trascritta nel Registro degli atti dello stato civile di Finale Emilia e nel Registro degli atti di matrimonio del Comune di Bologna. L’annotazione eseguita è la seguente:
“con sentenza n. 23/2009 del Tribunale di Bologna l’atto di nascita di Be.Al., in data (OMISSIS) è stato rettificato in modo che là dove è scritto maschile ad indicare il sesso del nato debba leggersi ed intendersi femminile e là dove è scritto Al. ad indicare il nome debba leggersi A., pertanto Be.Al. coniuge di T.A. ha assunto il nuovo prenome B.A., come da annotazione apposta all’atto di nascita n. 280, Parte I, Serie A, Anno 1971 del Comune di Mirandola”. Oltre a tale annotazione in data 18/11/2010 è stata aggiunta la seguente formula:
“la sentenza sopra menzionata ha prodotto ai sensi della L. n. 164 del 1982, art. 4, la cessazione degli effetti civili del matrimonio di cui all’atto controscritto a far data dal (OMISSIS), così come previsto al paragrafo 11.5. del nuovo massimario dello stato civile”.
In precedenza, in data 19/3/2010 il Comune di Finale Emilia aveva comunicato la variazione anagrafica per cessazione degli effetti civili di matrimonio agli uffici dell’Anagrafe del Comune di Mirandola e di Bologna ai fini delle annotazioni e variazioni anagrafiche di competenza. A seguito di tale comunicazione il Comune di Bologna ha apposto l’annotazione da ultimo descritta a margine dell’atto di nascita di T.A. e degli atti di matrimonio.
Hanno proposto ricorso presso il Tribunale di Modena B. A. e T.A. ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, chiedendo la rettificazione delle predette annotazioni e la loro cancellazione, in quanto apposte in assenza dei requisiti di legge.
Il Ministero dell’Interno si è costituito chiedendo il rigetto del ricorso ed il Tribunale di Modena, in accoglimento della domanda, ha dichiarato illegittima l’annotazione in oggetto e ne ha disposto la cancellazione, perchè eseguita in assenza delle condizioni previste dal citato D.P.R. n. 396 del 2000, art. 102, affermando in particolare che l’annotazione di scioglimento del matrimonio per l’avvenuta rettificazione di attribuzione di sesso può eseguirsi solo in ragione di una sentenza dell’autorità giudiziaria che dichiari la cessazione del vincolo coniugale.
Avverso tale provvedimento ha proposto reclamo il Ministero dell’Interno; si sono costituite le ricorrenti in primo grado. Il P.M. ha aderito al reclamo. La Corte d’Appello di Bologna lo ha accolto sulla base delle seguenti argomentazioni:
– l’annotazione non è stata disposta fuori dei casi consentiti, trattandosi di un doveroso aggiornamento cui è tenuto l’ufficiale dello stato civile, dal momento che nel sistema unico integrato non possono darsi atti relativi alla stessa persona che non si corrispondano. Peraltro, in mancanza dell’annotazione contestata sarebbe Al. (declinato al maschile) e non A. a essere ancora coniugato;
– i cambiamenti di nome e di sesso vanno annotati anche nel registro degli atti di matrimonio (D.P.R. n. 396 del 2000, art. 69). La successiva annotazione del 18/11/2010 costituisce la mera riproduzione della lettera della norma che qualifica la rettificazione di sesso una causa di scioglimento automatico del matrimonio;
– la L. n. 164 del 1982, art. 4, non è stato abrogato dalla modificazione della L. n. 898 del 1970, art. 3, intervenuta ex L. n. 74 del 1987, essendo già contenuto nel citato art. 4, il rinvio alla L. n. 898 del 1970, per la disciplina dello scioglimento del matrimonio, ragione per cui le modifiche successive ne costituiscono una precisazione non incompatibile con il sistema preesistente;
– del tutto incompatibile è invece l’interpretazione proposta dalle resistenti, perchè consentire il permanere del vincolo matrimoniale, rettificato che sia il sesso di uno dei coniugi, significa mantenere in vita un rapporto privo del suo indispensabile presupposto di legittimità, la diversità sessuale dei coniugi, dovendosi ritenere tutta la disciplina normativa dell’istituto rivolta ad affermare tale requisito. L’interpretazione prospettata dalle resistenti della modifica introdotta con la L. n. 74 del 1987, alla L. n. 898 del 1970, art. 3, sarebbe del tutto contrastante con i principi di ordine pubblico che regolano la materia, dal momento che non possono darsi rapporti in contrasto con la disciplina positiva che li regola, trattandosi di un settore, come quello che concerne lo stato delle persone, di pubblico interesse.
Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione B.A. ed T.A.. Ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno.
Nelle articolate censure proposte dalle ricorrenti si deduce, tra l’altro ed in particolare, che la affermazione implicita, contenuta nel provvedimento impugnato, che non sarebbe necessaria una dichiarazione giudiziale di scioglimento del vincolo quando sia stata pronunciata la rettificazione di sesso viola il principio secondo il quale tale scioglimento deve necessariamente formare oggetto di una pronuncia del giudice. Si osserva al riguardo che siffatto principio non solo è chiaramente recepito nella L. n. 898 del 1970, che non contempla ipotesi di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio che non siano pronunciate dall’autorità giudiziaria, analogamente a quanto è disposto per le cause di invalidità del matrimonio di qualsiasi natura, ma deve essere ritenuto un principio inderogabile di ordine pubblico interno. Si rileva altresì che l’annotazione dell’ufficiale dello stato civile di cessazione degli effetti civili del matrimonio a seguito della sentenza di rettifica di sesso non può ritenersi legittimata solo perchè recepisce una astratta previsione normativa, trovando applicazione il principio di tassatività degli atti amministrativi desumibile dall’art. 453 c.c., D.P.R. n. 396 del 2000, art. 11, comma 3, art. 12, comma 1, artt. 69 e 102.
Sotto altro profilo si censura il decreto impugnato per aver ritenuto che lo scioglimento del vincolo derivante dalla rettifica di sesso non deve essere dichiarato mediante il procedimento giudiziale di cui alla L. n. 898 del 1970. Si osserva al riguardo che la modifica dell’art. 3 di detta legge introdotta dalla novella di cui alla L. n. 74 del 1987, non ha determinato alcun mutamento nel regime giuridico preesistente, avendo indicato soltanto l’iter processuale per il conseguimento degli effetti dello scioglimento medesimo, e che d’ altro canto, ancor prima dell’innesto del citato art. 3, lett. g), la L. n. 164 del 1982, art. 4, rinviava alla L. n. 898 del 1970.
Sotto ulteriore profilo si rileva che l’affermazione della decisione impugnata secondo cui il permanere del vincolo tra coniugi divenuti dello stesso sesso sino a che non intervenga una pronuncia giudiziale di cessazione degli effetti civili del matrimonio sarebbe contrario ai principi di ordine pubblico che regolano l’istituto, ed in particolare a quello che fonda il matrimonio sulla diversità di sesso, finisce con l’equiparare ingiustificatamente la situazione di due persone dello stesso sesso che intendono contrarre matrimonio a quella di due soggetti regolarmente coniugati, uno dei quali decida di mutare sesso. Si evidenzia al riguardo che la diversità tra orientamento sessuale ed identità di genere è stata riconosciuta di recente anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010, come già in passato in quella n. 161 del 1985, identificandosi il transessuale in un soggetto che, pur presentando i caratteri genetici e fenotipici di un determinato genere, sente di appartenere ad un altro genere del quale ha assunto l’aspetto esteriore ed adottato i comportamenti. Si osserva altresì che nell’ipotesi di pregresso matrimonio contratto da soggetto transessuale esiste un rapporto coniugale verso la stabilità del quale si appunta un generale favor dell’ordinamento e che il mancato riconoscimento del diritto di sposarsi non può essere equiparato alla soppressione di uno status già acquisito, essendo in tale ipotesi i coniugi già titolari di quel complesso di diritti e doveri che l’ordinamento riserva loro appunto in ragione di tale status. Si aggiunge che nell’ipotesi di scioglimento automatico il coniuge che non ha rettificato il proprio sesso non ha la possibilità di esprimere alcuna opzione all’interno di una sfera giuridica tendenzialmente caratterizzata dalla non ingerenza dell’autorità statale ed è privato di un diritto fondamentale già acquisito.
Sono infine prospettate in via subordinata due eccezioni d’illegittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, art. 4:
– la prima con riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost., in relazione agli artt. 6 e 14 della CEDU e artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui la norma non prevede che lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio debbano essere pronunciati anche nella ipotesi in esame da sentenza dell’autorità giudiziaria, violando così sia gli artt. 24 e 111 Cost., sotto il profilo della negazione del diritto di difesa e del giusto processo, sia l’art. 3 Cost., e art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sotto il profilo della ingiustificata discriminazione dei coniugi divenuti dello stesso sesso rispetto alle altre tipologie di relazioni coniugali, sia il principio di ragionevolezza, non ravvisandosi alcuna ragione logica nel ritenere che solo la persona transessuale e il suo coniuge debbano subire una risoluzione forzosa del vincolo coniugale, laddove per tutte le altre ipotesi è richiesto l’accertamento giudiziario;
– la seconda con riferimento agli artt. 2 e 29 Cost., e artt. 8 e 12 della CEDU, nonchè artt. 7, 9, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui il predetto art. 4 non prevede che lo scioglimento debba essere dichiarato su istanza di uno dei coniugi dall’autorità giudiziaria, così sottraendo agli stessi coniugi il diritto di autodeterminazione sia come singoli che nella formazione sociale costituita dalla loro famiglia legittimamente fondata su un matrimonio validamente contratto, nonchè integrando una lesione del principio di uguaglianza, in quanto l’ipotesi dello scioglimento del vincolo per rettificazione di sesso costituirebbe l’unica situazione in cui i coniugi sarebbero privati della tutela giudiziale, dovendo subire una risoluzione forzosa del vincolo coniugale solo per la condizione di transessualismo di uno di loro (con conseguente violazione anche del principio di ragionevolezza). Le questioni prospettate a giudizio delle ricorrenti sono rilevanti perchè la necessità o meno dell’accertamento giudiziale della causa di scioglimento del vincolo costituisce il presupposto per la valutazione di legittimità o illegittimità dell’annotazione contestata.
Motivi della decisione
1. All’attenzione di questa Corte viene posta per la prima volta la questione, pure non sfuggita all’attenzione della dottrina fin dall’entrata in vigore della L. n. 164 del 1982, degli effetti della pronuncia di rettificazione di sesso su un matrimonio preesistente, regolarmente contratto dal soggetto che ha inteso esercitare il diritto a cambiare identità di genere in corso di vincolo, nell’ipotesi in cui nè il medesimo soggetto nè il coniuge abbiano intenzione di sciogliere il rapporto coniugale.
L’esigenza di definire esattamente il thema decidendum è dettata dalla natura del giudizio introdotto dalle ricorrenti ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95. Come evidenziato nella premessa in fatto, la controversia trae origine dall’intervenuta annotazione sui registri degli atti dello stato civile e degli atti di matrimonio, oltre che della doverosa rettificazione del sesso con riferimento ad B.A., anche della “cessazione degli effetti civili” del matrimonio contratto dalle ricorrenti, pur in mancanza di una pronuncia giudiziale espressa sul punto. La domanda rivolta al Tribunale ha avuto come oggetto immediato la rettificazione dell’annotazione nella parte relativa alla cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dalle ricorrenti, in quanto non preceduta da un accertamento giudiziale.
Ritiene, tuttavia, questa Corte che non possa essere accertato il corretto esercizio della funzione amministrativa svolta dall’ufficiale dello stato civile, peraltro in ossequio ad espresse direttive del Ministero dell’Interno, se non si chiarisce preventivamente quale sia l’efficacia della rettificazione del sesso di uno dei coniugi su di un precedente matrimonio regolarmente celebrato.
2. Una rapida disamina della normativa relativa agli atti dello stato civile evidenzia la natura meramente derivata, da una norma di legge o da un provvedimento giudiziale, dell’esercizio di tale potere amministrativo, a contenuto dichiarativo/esecutivo. In particolare, il D.P.R. n. 396 del 2000, art. 5, comma 1, lett. a), stabilisce che l’ufficiale, nel dare attuazione ai principi generali sul servizio dello stato civile, ha il compito di “aggiornare” tutti gli atti concernenti lo stato civile, essendogli vietato (art. 11, comma 3) di enunciare dichiarazioni ed indicazioni diverse da quelle che sono stabilite o permesse per ciascun atto. Tale precisazione sta ad indicare che sull’atto di nascita o di matrimonio possono essere eseguite soltanto annotazioni relative ed inerenti a quell’atto (come l’eventuale sopravvenuto scioglimento del vincolo del matrimonio), ma non che non si debba aggiornarne il contenuto certatorio quando la condizione preesistente si sia modificata nel rispetto delle prescrizioni di legge. In linea generale, l’art. 453 c.c., e citato D.P.R. n. 396 del 2000, art. 102, stabiliscono che le annotazioni possono essere disposte per legge o ordinate dall’autorità giudiziaria. E’ necessario “in ogni caso” (art. 102, comma 3) che venga indicato l’atto o il provvedimento in base al quale esse sono eseguite. In tale assetto normativo di riferimento appare evidente che nella specie l’ufficiale di stato civile, sulla base della L. n. 164 del 1982, art. 4, ha provveduto, richiamando l’atto presupposto (la pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso), all’annotazione contestata, assunta come effetto automatico ed ineludibile dell’accertamento giudiziale compiuto. Più precisamente ha ritenuto che l’ordine di annotazione della rettificazione di attribuzione di sesso determinasse l’obbligo, sostenuto dal citato art. 4, di aggiornare anche il registro degli atti di matrimonio relativo alle posizioni delle parti ricorrenti.
Sulla base di questa lettura delle norme che regolano l’esercizio del diritto alla rettificazione del sesso nel nostro ordinamento si giustifica l’esercizio del potere da parte dell’ufficiale dello stato civile anche alla luce del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 69. Questa norma, che al comma 1, regola specificamente gli atti di matrimonio, stabilisce alla lett. d), che in essi si fa annotazione delle “sentenze” di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Non ritiene questa Corte che dalla enunciazione sopra indicata possa conseguire la radicale carenza di potere dell’ufficiale di stato civile nell’esecuzione dell’annotazione contestata, dovendo la norma indicata essere interpretata in via sistematica, coordinandola con le cause di scioglimento del vincolo e di cessazione degli effetti civili del matrimonio previste dalla L. n. 898 del 1970, e, come nella specie, da leggi speciali (L. n. 164 del 1982). Nella specie l’ufficiale di stato civile ha quindi adempiuto ad un obbligo proveniente da una norma di legge, peraltro sorto sulla base di un titolo giudiziale che ne costituisce il presupposto. Il D.P.R. n. 396 del 2000, rappresenta invero un corpus normativo “servente”, volto esclusivamente a disciplinare gli atti e i registri dello stato civile e le funzioni dei pubblici ufficiali competenti.
Così delimitata la finalità regolatrice del citato D.P.R., deve escludersi che possano desumersi dalle singole disposizioni in esso contenute i modelli matrimoniali e familiari esistenti o consentiti nel nostro ordinamento, i quali devono essere correttamente enucleati dal complesso dei principi costituzionali che unitamente alle regole di diritto positivo li disciplinano. Esclusa pertanto la configurazione dell’attività certatoria del pubblico ufficiale come eseguita in condizione di carenza di potere, la valutazione della legittimità dell’esercizio della funzione esercitata con l’annotazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio legittimamente contratto dalle ricorrenti deriva necessariamente dall’esame delle norme che regolano gli effetti della rettificazione di attribuzione di sesso sui vincoli matrimoniali preesistenti.
3. La L. n. 164 del 1982, nel disciplinare la materia della rettificazione di attribuzione di sesso prevede(va) espressamente all’art. 4, nella formulazione in vigore fino al 4 ottobre 2011, che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, priva di effetto retroattivo, provochi lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso.
Fino all’entrata in vigore della L. n. 74 del 1987, gli effetti della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso su un precedente vincolo matrimoniale erano disciplinati esclusivamente dal citato art. 4. Si riteneva, pressochè unanimemente, che con il passaggio in giudicato di tale sentenza si determinasse in via automatica e senza la necessità di una dichiarazione giudiziale apposita lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio preesistente. L’attenzione degli interpreti, pur non avendo mai trascurato questo peculiare profilo degli effetti della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, era concentrata sul diritto del soggetto al quale era stato riconosciuto il diritto di mutare la propria identità di genere di legarsi e contrarre matrimonio con un partner di sesso diverso da quello scaturito dal percorso di autodeterminazione personale e dalla pronuncia giudiziale. Anche le indicazioni provenienti dalle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo (I. contro Regno Unito ricorso n. 25680/94; Goodwin contro Regno Unito, ricorso n.28957/95; Grant contro Regno Unito ricorso n. 32570/2003) erano tutte rivolte in quegli anni a consentire al soggetto che aveva mutato sesso il pieno godimento del diritto alla vita privata e familiare mediante la possibilità di contrarre matrimonio ai sensi dell’art. 12 della CEDU, o il godimento di diritti sociali conseguenti al genere mutato (trattamento pensionistico a partire dai 60 invece che 65 anni, derivante dall’attribuzione del genere femminile, caso Grant).
Come significativamente riconosciuto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 161 del 1985, con la L. n. 164 del 1982, il legislatore italiano ha accolto un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, “nel senso che ai fini di una tale identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita (….), ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale.
Presupposto della normativa impugnata è, dunque, la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio”. Il cambiamento d’identità di genere costituisce il completamento di un processo teso verso la coincidenza tra “soma e psiche”. L’identificazione cromosomica del sesso non è più un fattore condizionante in modo ineluttabile l’identità di genere, dovendosi riconoscere alla persona umana il riconoscimento del diritto, alle condizioni previste dalle varie leggi che si sono susseguite nei paesi Europei, a rettificare l’attribuzione originaria di sesso, coerentemente con il proprio equilibrio psico fisico.
L’attenzione del legislatore e della Corte Costituzionale, in consonanza con gli orientamenti sopra indicati della CEDU, ancorchè successivi e riferiti a Stati aventi strumenti legislativi diversi o carenti, è stata, in questa prima fase di applicazione delle leggi con le quali è stato riconosciuto il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, prevalentemente rivolta ad includere nel catalogo aperto dell’autodeterminazione anche questo peculiare e spesso sofferto percorso personale e di assicurare, per il futuro, la possibilità di compiere scelte come il matrimonio coerenti con la nuova identità sessuale e di non essere discriminati nella fruizione dei diritti sociali. Vi è stata alla base la diffusa percezione della necessità di una netta soluzione di continuità con il passato del soggetto, in quanto caratterizzato da una condizione di genere non accettata e, partendo da questa premessa, oltre che dalla volontà di non aprire alcun varco alla possibilità di riconoscere matrimoni tra persone dello stesso sesso, si sono introdotte norme, variamente configurate, rivolte alla risoluzione dei rapporti coniugali precedenti. La tecnica normativa, sulla quale si tornerà nel prosieguo, è stata quella di richiedere come condizione per il riconoscimento del diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso lo scioglimento del vincolo precedente o di far conseguire alla pronuncia giudiziale il medesimo effetto.
Come precisato nella richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 161 del 1985, nella L. n. 164 del 1982, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio conseguono alla sentenza che abbia disposto la rettificazione di attribuzione di sesso. Deve, pertanto, escludersi che nell’ampio spettro dei diritti e delle libertà riconducibili alla nuova legge, che secondo la stessa Corte Costituzionale si colloca “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”, sia ricompresa la scelta di conservare il preesistente vincolo matrimoniale, in quanto, proprio per il rilievo costitutivo dell’identità personale attribuito dalla legge (e dalla sentenza n. 161 del 1985) alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, dopo la pronuncia giudiziale tale vincolo legherebbe una coppia dello stesso sesso.
Il bilanciamento d’interessi di rango costituzionale operato dal legislatore del 1982 e dalla Corte Costituzionale risulta privo di ambiguità. Da un lato esiste il diritto al riconoscimento della vera identità del genere del soggetto che desidera rettificare il sesso che gli è stato attribuito alla nascita, dall’altro vi è l’interesse statuale a non modificare i modelli familiari, nonostante il potenziale sacrificio del diritto alla vita privata e familiare che tale bilanciamento determina, non ritenendosi coerente con il sistema di valori fondanti l’ordinamento costituzionale e di diritto interno (considerati al momento di entrata in vigore della legge) l’estensione del diritto all’autodeterminazione fino al punto da consentire la scelta sulla conservazione del vincolo matrimoniale precedentemente contratto secundum legem.
4. Così delineati i contenuti dell’opzione operata dal legislatore del 1982, deve concludersi per l’operatività ope legis della causa di scioglimento del vincolo, una volta passata in giudicato la pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso. Solo mediante questa interpretazione della norma si perviene al rispetto della ratio legislativa rivolta ad escludere la facoltà di scelta sulla conservazione del vincolo. Attesa l’univocità dell’interpretazione della norma anche alla luce della sentenza della Corte Cost. n. 161 del 1985 ed in linea con le opzioni delle legislazioni Europee sul concreto atteggiarsi del bilanciamento degli interessi in gioco, risulta agevole l’indagine sulla questione, sollevata dalle ricorrenti, relativa alla esclusività di questa lettura della norma anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 74 del 1987. La L. n. 898 del 1970, art. 3, come modificato dalla L. n. 74 del 1987, art. 7, ha aggiunto alle altre ipotesi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio quella relativa al passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso.
Poichè la norma si apre con la locuzione “lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi”, secondo la prospettazione delle ricorrenti deve escludersi quanto meno dall’entrata in vigore della L. n. 74 del 1987, che detta pronuncia determini ope legis e senza bisogno di una statuizione giudiziale ad hoc lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, tanto più che anche la L. n. 164 del 1982, art. 4, sancisce l’applicabilità delle disposizioni della L. n. 898 del 1970, e successive modificazioni. Si osserva inoltre da parte delle stesse ricorrenti, del tutto correttamente, che tutte le altre ipotesi descritte dal citato art. 3 richiedono una pronuncia giudiziale.
Come agevolmente riscontrabile dall’esame della novella e dalla lettura della relazione illustrativa, con la L. n. 74 del 1987, non è stata operata alcuna innovazione rispetto al sistema preesistente in ordine ai modelli familiari, non essendo stata questa la finalità dell’intervento legislativo, nè si è proceduto ad una radicale modifica dei casi di scioglimento del matrimonio. La novella appare finalizzata alla razionalizzazione del sistema preesistente, caratterizzato da un regime giuridico ormai datato relativamente al diritto transitorio e all’instaurazione di un modello processuale più spedito ed efficiente. All’interno di quest’opera di ammodernamento delle norme sostanziali e di innovazione delle forme processuali è stata aggiunta tra le ipotesi di scioglimento del matrimonio quella di cui all’art. 3, comma 4, lett. g), riguardante specificamente il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso. Non può, conseguentemente, farsi discendere da un intervento normativo avente una finalità inequivocamente così circoscritta il risultato di una modificazione, ancorchè in termini numericamente limitati, dei modelli matrimoniali preesistenti, come si verificherebbe accogliendo l’opzione interpretativa indicata dalle parti ricorrenti. L’introduzione della lettera g) costituisce invece la logica conseguenza del riferimento all’applicabilità della L. n. 898 del 1970, già contenuta nella L. n. 164 del 1982, art. 4.
Poichè la L. n. 74 del 1987, ha radicalmente mutato il modello processuale relativo al procedimento divorzile, è stato ritenuto dal legislatore necessario estendere l’applicazione del rito camerale anche alle controversie consequenziali (relative ai figli minori o patrimoniali) allo scioglimento automatico del vincolo nell’ambito del nuovo procedimento.
Si deve, conseguentemente, ritenere che questa sia l’unica interpretazione logicamente e sistematicamente desumibile dal sistema dei modelli matrimoniali codificato nel nostro ordinamento e dalla complessiva ratio della L. n. 164 del 1982, interamente ispirata dall’esigenza di favorire la corrispondenza tra soma e psiche nell’individuazione della identità di genere senza modificare il preesistente regime giuridico dei rapporti coniugali. Pertanto l’inclusione della L. n. 898 del 1970, art. 3, lett. g), non comporta che lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio per effetto della rettificazione di attribuzione di sesso debbano essere inevitabilmente contenuti in una pronuncia giudiziale, in quanto la norma che ha introdotto questa causa solutoria (L. n. 164 del 1982, art. 4) ne ha stabilito l’operatività automatica in conseguenza soltanto del passaggio in giudicato (indicato espressamente nella L. n. 898 del 1970, art. 3, comma 4, lett. g), ma da ritenersi implicitamente desumibile già dalla formulazione del citato art. 4) della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso.
5. Esclusa, pertanto, la necessità che lo scioglimento del vincolo debba conseguire ad una domanda di parte, occorre tuttavia verificare se l’interpretazione coordinata della L. n. 164 del 1982, art. 4, e della L. n. 898 del 1970, art. 3, non conduca comunque all’inevitabilità di una pronuncia giudiziale, anche in assenza di domanda.
E’ stata adombrata da qualche interprete ed ha trovato parziale riscontro nella giurisprudenza di merito l’ipotesi di una pronuncia officiosa di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, da adottarsi unitamente alla pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso. Con questa soluzione, si afferma, si salvaguarderebbe l’operatività automatica della causa di scioglimento, ma anche il principio della riserva assoluta di giurisdizione che governa il regime giuridico degli status.
La soluzione presta il fianco a radicali critiche. In primo luogo essa non appare rispettosa della lettura coordinata della L. n. 164 del 1982, art. 4, e della L. n. 898 del 1970, art. 3, comma 4, lett. g), risultando l’operatività automatica dell’effetto solutorio condizionata al passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso e non alla mera pronuncia.
Peraltro, al di là dell’ostacolo formale sopra illustrato, si ravvisa una ragione sostanziale ostativa all’accoglimento di questa opzione interpretativa ben più significativa. Lasciare la declaratoria di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio all’iniziativa officiosa del tribunale determina l’effetto di ancorare l’effetto solutorio esclusivamente alla scelta del tribunale, creando un’ingiustificata disparità di trattamento tra le coppie coniugate che versano in questa peculiare condizione, in quanto lo scioglimento del vincolo si verificherebbe secundum eventum litis, ovvero subordinatamente all’esercizio di tale potere officioso. Si tratta, all’evidenza, di una soluzione irragionevole e discriminatoria del tutto inidonea a fornire una risposta adeguata al rilievo costituzionale degli interessi in gioco.
Nè l’iniziativa giudiziale può essere attribuita al pubblico ministero, al quale deve essere notificato, a pena di nullità, l’atto introduttivo del giudizio di rettificazione di sesso, in quanto tale organo ha il limitato potere d’intervenire, ai sensi degli artt. 70 e 72 c.p.c., ma non di promuovere l’azione relativa allo scioglimento del vincolo. La natura personalissima dei diritti coinvolti in tali giudizi incide, infatti, sulla natura e il contenuto della partecipazione del pubblico ministero, il quale ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 5, nel giudizio di divorzio può esclusivamente proporre impugnazione (e non esercitare autonomamente azione) avverso le statuizioni relative agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci, essendo esclusa qualsiasi sua iniziativa officiosa con riferimento alle specifiche vicende del rapporto coniugale.
Alla medesima conclusione si giunge alla luce dell’attuale disciplina del procedimento di rettificazione di attribuzione di sesso introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2011. L’art. 31, infatti, come l’abrogato art. 2, della L. n. 164 del 1982, prevede la partecipazione del pubblico ministero come mero interveniente, oltre che la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio al coniuge ed ai figli.
Peraltro la norma sembra rafforzare l’effetto solutorio sul vincolo matrimoniale preesistente laddove stabilisce che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso “determina” (e non “provoca”) lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, sottolineando l’automatismo e l’operatività ope legis dell’effetto predetto.
In conclusione, come sottolineato dalla prevalente dottrina, la scelta del legislatore, pienamente confermata anche dalla novella introdotta con il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 31, (ratione temporis non applicabile alla fattispecie dedotta nel presente giudizio), risulta univocamente quella di aver introdotto una fattispecie di divorzio “imposto” ex lege che non richiede, al fine di produrre i suoi effetti, una pronuncia giudiziale ad hoc, salva la necessità della tutela giurisdizionale limitatamente alle decisioni relative ai figli minori.
6. Tale soluzione obbligata pone l’interrogativo della sua compatibilita con il sistema costituzionale, integrato dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo come interpretata dalla Corte di Strasburgo (da ritenersi operante come parametro interposto), di riconoscimento e tutela del diritto ad autodeterminarsi nelle scelte relative all’identità personale, di cui la sfera sessuale esprime un carattere costitutivo; del diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale, quando essa assuma i caratteri della stabilità e continuità propri del vincolo coniugale; del diritto a non essere ingiustificatamente discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate, alle quali è riconosciuta la possibilità di scelta in ordine al divorzio; del diritto dell’altro coniuge di scegliere se continuare la relazione coniugale. Il quesito che s’impone, sotto i profili considerati, consiste nella valutazione dell’adeguatezza del sacrificio imposto all’esercizio di tali diritti dall’imperatività dello scioglimento del vincolo per entrambi i coniugi.
Ritiene questa Corte che, limitatamente agli aspetti sopra delineati, vi siano fondati dubbi di legittimità costituzionale in ordine alla soluzione normativa adottata dal legislatore italiano del divorzio “imposto” alla coppia coniugata che sia stata “attraversata” dalla rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti.
La rilevanza della questione deriva dalle già svolte considerazioni sul diretto ed esclusivo nesso eziologico esistente tra la qualificazione giuridica degli effetti della pronuncia di rettificazione del sesso sul rapporto coniugale in atto e la soluzione del quesito riguardante il corretto esercizio del potere dell’ufficiale dello stato civile nella annotazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio, in mancanza di una preventiva statuizione giudiziale ad hoc che contenga anche l’ordine di annotazione. Sulla base dell’attuale assetto normativo, in conclusione, il ricorso dovrebbe essere rigettato. Nell’ipotesi contraria la conseguenza sarebbe la cassazione del decreto impugnato.
Risulta, pertanto, evidente l’incidenza del sospetto d’incostituzionalità sotto i profili e nei termini di seguito illustrati.
7. La norma della cui legittimità costituzionale si dubita è, in primo luogo, la L. n. 164 del 1982, art. 4, applicabile ratione temporis ed abrogata dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 36, nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione di quello celebrato con rito religioso, così introducendo nel nostro ordinamento l’unica ipotesi di divorzio “imposto” ex lege. Peraltro, il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 31, che ha sostanzialmente sostituito il previgente art. 4, contiene la medesima previsione utilizzando il predicato verbale “determina” al posto di “provoca”, con effetto rafforzativo dell’operatività automatica dello scioglimento del vincolo come conseguenza della rettificazione di attribuzione di sesso.
In linea generale si ritiene che l’esercizio del diritto individuale al riconoscimento della propria effettiva identità di genere rispetto a quella determinata dal corredo cromosomico produca, alla luce del regime giuridico sopra illustrato, una compressione del tutto sproporzionata dei diritti della persona legati alla sfera relazionale intersoggettiva, mediante un’ingerenza statuale diretta e non altrimenti eliminabile, neanche limitata al soggetto destinatario della pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso, ma estesa anche al coniuge, ancor più ingiustificatamente colpito da tale interferenza.
I parametri costituzionali coinvolti dall’inadeguato bilanciamento d’interessi costituzionalmente rilevanti operato dal legislatore sono molteplici. In primo luogo appare dubbia la compatibilità del c.d.
divorzio “imposto” con gli artt. 2 e 29 Cost., nonchè con i parametri interposti costituiti dagli artt. 8 e 12 della CEDU. Va al riguardo osservato che, pur essendo l’ordinamento italiano tuttora caratterizzato dall’assenza di norme che attribuiscano riconoscimento giuridico alle c.d. famiglie di fatto ed alle coppie formate da persone dello stesso sesso, il rilievo costituzionale di tali unioni, anche con riferimento ai parametri interposti costituiti dalla CEDU, è stato sancito dalla Corte Costituzionale (sent. 138 del 2010) e dalla giurisprudenza di legittimità (sent. n. 4184 del 2012), oltre che dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (sentenza 24 giugno 2010 caso Schalk e Kopf).
Alla luce dei nuovi principi stabiliti in queste pronunce si può affermare:
– la scelta di estendere il modello matrimoniale anche ad unioni diverse da quella eterosessuale è rimessa al legislatore ordinario.
Non sussiste un vincolo costituzionale (art. 29 Cost.) o proveniente dall’art. 12 della CEDU in ordine all’esclusiva applicabilità del modello matrimoniale alle unioni eterosessuali (Corte Cost. n.138 del 2010; CEDU caso Schalk e Kops);
– l’art. 12, da leggersi anche alla luce dell’art. 8 della Carta dei diritti dell’Unione Europea, tutela anche modelli matrimoniali diversi da quello eterosessuale, lasciando alla legislazione degli Stati e al loro apprezzamento la scelta di estendere o limitare le tipologie di unioni che possono legarsi anche mediante il vincolo matrimoniale vero e proprio (CEDU sentenza 24/6/2010 caso Schalk e Kopf);
– il carattere dell’eterosessualità non costituisce più, di conseguenza, un canone di ordine pubblico nè interno (Corte Cost.
138 del 2010; Cass. 4184 del 2012) nè internazionale (CEDU sentenza Schalk e Kopf);
– le unioni che siano fondate su una stabile e continuativa affectio, ancorchè non riconducibili al modello matrimoniale, ricevono la copertura costituzionale diretta dell’art. 2 (Corte Cost. 138 del 2010), nonchè dell’art. 8 della CEDU (Caso Schalk e Kopf). Tale riconoscimento non si limita alla libertà di vivere la propria condizione di coppia ovvero di non nascondere le scelte riguardanti la sfera emotiva individuale, ma si estende al riconoscimento della situazione oggettiva della stabile convivenza e dei diritti che conseguono alla creazione e al consolidamento di questa formazione sociale costituzionalmente e convenzionalmente garantita.
Nell’endiadi “diritto alla vita privata e familiare”, contenuta nell’art. 8 della CEDU, l’attenzione, dopo il consolidamento dei diritti individuali, si è rivolta alle conseguenze relazionali delle scelte personali e private, ovvero alla dimensione “familiare” di tali scelte, nell’accezione che a tale attributo da la giurisprudenza della CEDU, sostanzialmente coincidente con il contenuto delle “formazioni sociali” cui si riferisce l’art. 2 Cost..
In questo quadro profondamente rinnovato e sempre più frequentemente arricchito dalla felice “contaminazione” delle fonti costituzionali Europee, convenzionali ed internazionali, in cui si collocano i diritti delle persone, deve essere valutata la compatibilita costituzionale della L. n. 164 del 1982, art. 4, rispetto ai parametri costituiti dagli artt. 2 e 29 Cost., e nella loro qualità di norme interposte ex art. 10 Cost., comma 1, e art. 117 Cost., degli artt. 8 e 12 della CEDU, non omettendo di considerare che la stessa Corte Costituzionale nella pronuncia n. 161 del 1985 ha riconosciuto che questa legge “si colloca nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione”.
Al riguardo deve osservarsi che lo scioglimento del vincolo coniugale, disposto ex lege come conseguenza automatica della rettificazione dell’attribuzione di sesso, determina l’eliminazione “chirurgica” di una relazione stabile e continuativa che ha dato vita ad un nucleo familiare, costituzionalmente protetto dall’art. 29 Cost.. All’interno dell’affectio coniugalis, consacrata dalla celebrazione del matrimonio, è maturata la scelta di uno dei partners della rettificazione di attribuzione di sesso, verosimilmente, in mancanza dello scioglimento volontario del vincolo, condivisa dall’altro. La univoca previsione normativa esclude, in prospettiva futura, qualsiasi rilievo all’esistenza e alla stabilità di tali tipologie di relazioni, ignorandone il rilievo primario di formazioni sociali costituzionalmente garantite, all’origine, dagli artt. 2 e 29 Cost., in un contesto costituzionale nel quale è ormai largamente condivisa l’esigenza di riconoscere alle unioni di fatto, anche tra persone dello stesso sesso, uno statuto giuridico di diritti ed obblighi che quanto meno “in specifiche situazioni” (così Corte Cost. 138 del 2010) assicuri un trattamento omogeneo a quello delle coppie coniugate, proprio in virtù della copertura costituzionale ad esse attribuita dallo sviluppo degli orientamenti delle Corti, sopra illustrato.
Le scelte appartenenti alla sfera emotiva ed affettiva costituiscono il fondamento dell’autodeterminazione.
Esse, nella nostra cultura giuridica, si esplicano al di fuori di qualsiasi ingerenza statuale. Sul canone indefettibile del consenso è fondato in via esclusiva l’istituto del matrimonio, dalla costituzione del vincolo al suo scioglimento. Si tratta dell’esercizio di un diritto personalissimo, delimitato da condizioni minime di accesso, nel quale si manifesta una tra le più rilevanti scelte della vita. L’opzione normativa del divorzio “imposto” ex lege al soggetto che si è determinato a rettificare il proprio sesso e all’altro coniuge incide sul contenuto minimo ed ineludibile del predetto diritto e mina alla radice lo stesso diritto all’identità di genere che la rettificazione di sesso intende riconoscere, in quanto produce l’esclusione di un’altra dimensione di pari rilievo, quella relazionale, all’interno della quale la scelta operata trova generalmente la sua più rilevante manifestazione.
La questione relativa alla compatibilita costituzionale di un regime giuridico che da un lato riconosce il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso e dall’altro determina il mutamento della condizione giuridica relazionale preesistente ha assunto un rilievo primario anche in altri paesi Europei, rendendo necessario l’intervento delle Corti costituzionali e, di recente, della CEDU. Nel 2009, infatti, analogo quesito è stato sottoposto alla Corte Costituzionale tedesca. In questo Stato la legislazione relativa al diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso (salve altre differenziazioni di regime non rilevanti in questa sede) si fondava sulla preventiva necessità di sciogliere il vincolo matrimoniale preesistente come condizione di ammissibilità dell’azione. In comune con la legislazione italiana vi era dunque la necessità di porre fine al matrimonio preesistente, come “prezzo” da pagare per il riconoscimento del diritto all’effettiva identità di genere. La Corte Costituzionale tedesca (pronuncia BVerfG, 1 BvL 10/051) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in questione, ritenendo che la richiesta di estinguere il matrimonio sia produttiva di una limitazione sostanziale del diritto al riconoscimento legale della propria identità personale, in quanto impone al richiedente di scegliere tra due diritti ugualmente protetti dalla Costituzione. Ha affermato la Corte tedesca che le caratteristiche essenziali del matrimonio sono l’aspettativa di una durevole comunità di vita e la volontarietà dello scioglimento del vincolo e che su di esse lo Stato non può interferire.
La decisione non incide in alcun modo sul contenuto tradizionale del matrimonio nè determina l’apertura verso l’instaurazione di matrimoni con persone dello stesso sesso, non consentiti dalla legge tedesca. Pur essendo possibile una limitazione dei diritti fondamentali della persona, ove giustificata da un fine legittimo e realizzata con un mezzo proporzionato all’obiettivo, il riconoscimento della possibilità di proseguire il rapporto matrimoniale, nell’ipotesi in cui uno dei coniugi abbia mutato sesso, lascia inalterata l’unione nella sua configurazione tradizionale, mentre la soluzione contraria mina alla radice il diritto all’identità personale del richiedente e il diritto al matrimonio dell’altro coniuge. Con questa pronuncia, peraltro, viene colta la profonda differenza tra le nozioni di “identità di genere” ed “orientamento sessuale” (ampiamente sottolineata anche nella sentenza della Corte Cost. n. 138 del 2010) ed è affermato che la rimozione dello scioglimento coattivo del vincolo coniugale non determina l’introduzione indiretta della possibilità di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso, essendo il percorso psicologico e, frequentemente, medico chirurgico legato alla condizione di transessualità ontologicamente diverso da quello compiuto dal soggetto che si determina verso l’uno o l’altro orientamento sessuale.
In precedenza, anche la Corte Costituzionale austriaca, con la pronuncia n. 17849 dell’8 giugno 2006, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che stabiliva l’intrascrivibilità della rettificazione di sesso in mancanza dello scioglimento del vincolo pregresso. La norma censurata è stata ritenuta in contrasto con il diritto dell’individuo al rispetto della sua vita privata, così come sancito dall’art. 8 CEDU. In un ordinamento come quello austriaco, che esclude il riconoscimento di matrimoni contratti tra persone dello stesso sesso, la Corte Costituzionale ha ritenuto che la peculiarità della condizione personale di chi chiede la rettificazione di attribuzione di sesso e il diritto alla continuazione di un legame duraturo e stabile come il matrimonio non possano essere sacrificati senza il consenso dei coniugi.
Deve, pertanto, affermarsi che l’ingerenza statuale situata “a monte” o a “valle” del procedimento di rettificazione di attribuzione di sesso, consistente nell’obbligo preventivo o nell’effetto solutorio successivo sul vincolo coniugale, determina la lesione di un diritto che ha la stessa natura, ampiezza e centralità, nello sviluppo della personalità dell’essere umano, di quello all’identità di genere. Ne risulta minato alla radice il diritto all’autodeterminazione del soggetto che intende procedere alla rettificazione di attribuzione di sesso, conseguendo a tale opzione la eliminazione per il futuro del diritto alla vita familiare, realizzato mediante la scelta del vincolo matrimoniale e, dunque, dotato del massimo grado di tutela giuridica. Per effetto della rettificazione dell’attribuzione di sesso il preesistente matrimonio rimane deprivato di qualsiasi ancoraggio giuridico e di qualsiasi forma di tutela, pur essendo stato legittimamente celebrato e, ciò che più rileva, pur mancando il consenso di entrambi i coniugi alla produzione di tale radicale effetto.
Il vulnus al diritto a mantenere ferma l’opzione per la vita familiare coniugale appare ancor più accentuato nei confronti dell’altro coniuge, costretto a subire le gravi conseguenze sulla sua sfera emotiva, e sull’assetto giuridico delle proprie scelte relazionali, della rettificazione di sesso operata dall’altro coniuge, trovandosi ipso iure, e in contrasto con la propria volontà, nella condizione di essere privato dello status coniugale.
Il sacrificio, in questa ipotesi, è del tutto unilaterale e privo di alcuna compensazione, costituendo esclusivamente la soppressione, mediante ingerenza statuale, della volontà individuale nell’esercizio del diritto personalissimo allo scioglimento del matrimonio. Gli effetti imperativi della norma non trovano alcun bilanciamento rispetto alla posizione del coniuge che si trova privato di un fondamentale diritto della persona, costituzionalmente garantito dagli artt. 2 e 29 Cost..
Appare pertanto configurabile un contrasto tra la L. n. 164 del 1982, art. 4, e gli artt. 2 e 29 Cost., e con gli artt. 8 e 12 della CEDU, nella parte in cui la norma censurata fa conseguire come effetto automatico del passaggio in giudicato della pronuncia di rettificazione di attribuzione di sesso lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dal soggetto che ha esercitato il diritto sopra indicato, con conseguenze irreparabili sulla conservazione del vincolo anche nei confronti dell’altro coniuge.
Conforta il prospettato dubbio di costituzionalità, sotto il profilo del parametro interposto degli artt. 8 e 12 della CEDU, una recentissima pronuncia della Corte Europea dei diritti umani (Caso H. contro Finlandia 13 novembre 2012), nella quale viene affrontata una questione analoga a quello oggetto del presente giudizio.
Nell’ordinamento finlandese per poter registrare la rettificazione dell’attribuzione di sesso, qualora il richiedente sia unito in matrimonio, è necessario il preventivo consenso dell’altro coniuge al fine di trasformare il matrimonio in unione civile registrata (civil partnership). La Corte ritiene che nella specie coesistano due posizioni in conflitto che necessitano di un adeguato bilanciamento:
il diritto al rispetto della vita privata e familiare di chi richiede la predetta registrazione (nella specie costituita dall’attribuzione di un codice identificativo del genere) e l’interesse dello Stato a mantenere intatti i modelli matrimoniali predefiniti per legge.
Rilevato che nel sistema finlandese è previsto il riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso e che le modalità di tutela di questa stabile e duratura relazione sono sostanzialmente identiche a quelle del matrimonio, anche in ordine ai diritti dei figli, la Corte EDU ha osservato che il bilanciamento d’interessi compiuto dal legislatore non risulta sproporzionato nè sotto il profilo dell’art. 8, nè sotto quello dell’art. 12, nè infine sotto quello dell’art. 14, non essendo discriminatoria la scelta normativa compiuta.
Alla luce delle indicazioni fornite da detta pronuncia della Corte Europea dei diritti umani la mancanza di proporzionalità e l’ingiustificata ingerenza statuale appaiono senz’altro ravvisabili, in ordine ai parametri costituiti dagli artt. 8 e 12, in un sistema che non offre alcuna alternativa ai coniugi, determinando una netta e definitiva soluzione di continuità tra passato e presente della relazione coniugale e decretandone la irreversibile caducazione.
Ed invero nel nostro ordinamento, da uno stato di massima stabilità e protezione giuridica costituzionale e di diritto positivo non soltanto codicistico, si trasmigra, contro la volontà dei componenti la coppia coniugata, verso una condizione di totale indeterminatezza – attesa l’inesistenza di alternative o di soluzioni gradate enucleatali dal sistema – del contesto giuridico all’interno del quale collocare la relazione dotata all’origine del grado massimo di tutela. Non può essere trascurato, peraltro, che la sfera dei diritti complessivamente connessi alla rettificazione di sesso ed al fenomeno del transessualismo è del tutto peculiare e non omologabile od equiparabile alla condizione della coppie dello stesso sesso che richiedono a vario titolo il riconoscimento delle proprie relazioni stabili.
Occorre ancora osservare che del tutto insufficienti ad attuare un adeguato bilanciamento d’interessi risultano le indicazioni provenienti dalla pronuncia della Corte Cost. n. 138 del 2010 e da questa Corte con la sentenza n. 4184 del 2012, in ordine alla riconducibilità delle unioni tra persone dello stesso sesso alle formazioni sociali costituzionalmente rilevanti, con il conseguente sistema di tutele “in specifiche situazioni”, attesa l’incompatibilità tra la condizione della coppia che non può accedere all’unione coniugale e quella di chi ha legittimamente scelto un’unione coniugale proprio in virtù della duratura cristallizzazione dei diritti e degli obblighi ad essa connessi.
8. Si profila inoltre un rilevante sospetto di incostituzionalità della norma in esame rispetto al parametro costituzionale costituito dall’art. 24 Cost..
Ed invero la L. n. 164 del 1982, art. 2, (e l’attualmente vigente D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 31) nel procedimento di rettificazione di attribuzione di sesso prevede la notificazione del ricorso al coniuge ed ai figli, ma la posizione di litisconsorte in tale giudizio, con la conseguente facoltà di adottare le scelte difensive attinenti all’oggetto, non esclude che il coniuge resti totalmente privo di tutela con riguardo all’effetto automatico dello scioglimento del vincolo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso, non potendo egli opporsi nè in quella sede nè in separato giudizio a tale scioglimento.
9. L’ingiustificata compressione del diritto di agire giudizialmente a tutela del mantenimento dell’unione coniugale riguarda peraltro anche il coniuge che procede alla rettificazione di sesso, il quale può agire per il riconoscimento del diritto ad una diversa identità di genere, ma deve subire, senza alcuna tutela giurisdizionale, gli effetti di questa decisione sul vincolo coniugale preesistente.
10. Sorge, infine, non ravvisandosi alcuna altra ipotesi di divorzio “imposto” ex lege che si produca senza l’impulso giudiziale di almeno uno dei coniugi, un ulteriore dubbio di costituzionalità della più volte citata L. n. 164 del 1982, art. 4, rispetto al parametro costituzionale costituito dall’art. 3 Cost., correlato all’art. 24.
Con riferimento a tale specifico parametro devono essere assunte come tertium comparationis le ipotesi di scioglimento del vincolo o cessazione degli effetti civili del matrimonio indicate nella L. n. 898 del 1970, art. 3, sub. 1, lettere a), b), c) e sub 2), lettera d), che non richiedono da parte del giudice alcun controllo sull’effettiva disgregazione della convivenza familiare, in quanto si tratta di cause solutorie che, per la estrema gravità delle condotte che ne costituiscono il nucleo, sono ritenute, con una valutazione astratta e predeterminata compiuta dal legislatore, radicalmente impeditive della continuazione della convivenza coniugale. La riserva di giurisdizione e la necessità della domanda di parte, tuttavia, non vengono meno neanche in queste fattispecie, assimilabili sotto il profilo della non necessità di un sindacato sulla concreta ed oggettiva situazione coniugale all’ipotesi di cui alla lettera g) oggetto di censura. La diversità di regime giuridico, sotto il duplice profilo della necessità dell’accertamento giudiziale e della volontarietà (quanto meno di uno dei coniugi) della scelta relativa allo scioglimento del vincolo, relativa alle ipotesi da ultimo descritte comparate a quella di cui alla L. n. 164 del 1982, art. 4, risulta del tutto priva di una ragionevole giustificazione, alla luce degli artt. 3 e 24 Cost..
11. In conclusione, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, devono essere sollevate per le ragioni sopra illustrate:
1) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, art. 4, nella formulazione anteriore all’abrogazione intervenuta per effetto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 36, nella parte in cui dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca l’automatica cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso senza la necessità di una domanda e di una pronuncia giudiziale, con riferimento ai parametri costituzionali degli artt. 2 e 29 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 10 Cost., comma 1, e art. 117 Cost., degli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo con riguardo ad entrambi i coniugi;
2) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, artt. 2 e 4, con riferimento al parametro costituzionale dell’art. 24 Cost., nella parte in cui prevedono la notificazione del ricorso per rettificazione di attribuzione di sesso all’altro coniuge, senza riconoscere a quest’ultimo il diritto di opporsi allo scioglimento del vincolo coniugale nel giudizio in questione, nè di esercitare il medesimo potere in altro giudizio, essendo esclusa la necessità di una pronuncia giudiziale dalla produzione ex lege dell’effetto solutorio in virtù del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso;
3) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, artt. 2 e 4, con riferimento all’art. 24 Cost., negli stessi termini di cui sub 2), con riguardo al coniuge che ha ottenuto la rettificazione di attribuzione di sesso;
4) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, art. 4, con riferimento al parametro costituzionale dell’art. 3 Cost., per l’ingiustificata disparità di regime giuridico tra l’ipotesi di scioglimento automatico, operante ex lege, del vincolo coniugale previsto da tale norma in relazione alla L. n. 898 del 1970, art. 3, comma 4, lett. g), e successive modificazioni e le altre ipotesi indicate in detto art. 3, sub. 1, lett. a, b, c) e sub 2, lett. d).
P.Q.M.
La Corte, visto l’art. 134 Cost., e L. n. 87 del 1953, art. 23 e ss., dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le seguenti questioni di legittimità costituzionale:
1) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, art. 4, nella formulazione anteriore all’abrogazione intervenuta per effetto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 36, nella parte in cui dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca l’automatica cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso senza la necessità di una domanda e di una pronuncia giudiziale, con riferimento ai parametri costituzionali degli artt. 2 e 29 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 10 Cost., comma 1, e art. 117 Cost., degli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
2) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, artt. 2 e 4, con riferimento al parametro costituzionale dell’art. 24 Cost., nella parte in cui prevedono la notificazione del ricorso per rettificazione di attribuzione di sesso all’altro coniuge, senza riconoscere a quest’ultimo il diritto di opporsi allo scioglimento del vincolo coniugale nel giudizio in questione, nè di esercitare il medesimo potere in altro giudizio, essendo esclusa la necessità di una pronuncia giurisdizionale dalla produzione ex lege dell’effetto solutorio in virtù del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso;
3) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, artt. 2 e 4, con riferimento all’art. 24 Cost., negli stessi termini di cui sub 2), in relazione al coniuge che ha ottenuto la rettificazione di attribuzione di sesso;
4) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 164 del 1982, art. 4, con riferimento al parametro costituzionale dell’art. 3 Cost., per l’ingiustificata disparità di regime giuridico tra l’ipotesi di scioglimento automatico, operante ex lege, del vincolo coniugale previsto da tale norma in relazione alla L. n. 898 del 1970, art. 3, comma 4, lettera g), e successive modificazioni e le altre ipotesi indicate in detto art. 3, sub. 1, lett. a), b), c) e sub 2, lett. d).
Dispone la immediata trasmissione degli atti e della presente ordinanza, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte comunicazioni e notificazioni, alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio.
Ordina la notificazione della presente ordinanza alle parti in causa, al Pubblico Ministero e al Presidente del Consiglio dei Ministri e la sua comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Dispone che in caso di diffusione siano omesse le generalità delle parti.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 12 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2013.
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