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Suprema Corte di Cassazione

sezione feriale

sentenza del 22 agosto 2013, n. 35424

1. Il ricorso è infondato.

1.1 Il primo motivo, con il quale il ricorrente lamenta inosservanza o erronea applicazione del D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 10 e 79, con riferimento all’obbligo nel caso di specie di predisporre un adeguato ponteggio o agganciare le cinture di sicurezza alla struttura portante del tetto è inammissibile, poichè versato in fatto.

Va in proposito ricordato che la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia logica e compatibile con il senso comune. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere, inoltre, percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze.

Dunque, non è possibile per questa Corte procedere ad una ricostruzione alternativa dei fatti, sovrapponendo a quella compiuta dai giudici di merito una diversa valutazione del materiale istruttorio, se, come nel caso di specie, vi è congrua e logica motivazione nel provvedimento (o, meglio, nei provvedimenti, dato che le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione; cfr.Sez. 2^, n. 5606 del 10/01/2007, Conversa, Rv. 236181).

1.2 Peraltro il motivo articolato nel ricorso richiama del tutto genericamente le dichiarazioni dell’imputato e della persona offesa, al fine di escludere la necessità di predisporre le opere provvisionali richieste dalla normativa speciale, in tal modo sollecitando una rilettura degli elementi probatori e una ricostruzione alternativa della vicenda, implicante una diversa valutazione (in fatto) delle risultanze processuali e non già in una censura riconducibile ad una violazione di legge o ad un vizio di motivazione, desumibile dalla lettura del provvedimento impugnato.

2. Anche il richiamo al travisamento dei fatti, ripreso nel secondo motivo, con il quale è censurata la valutazione operata dai giudici di merito in ordine alla possibilità di ancorare le cinture di sicurezza alla parte della struttura del tetto ricoperta dalle tegole ed alla indisponibilità delle cinture (motivo 2^) ed alla possibilità di predisporre un vero e proprio ponteggio che potesse garantire la sicurezza del lavoratore, in luogo di quello rudimentale predisposto (motivo 2B), è inammissibile.

2.1 Come è noto, in tema di motivi di ricorso per cassazione, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 8, mentre non è consentito dedurre il “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è, invece, consentito dedurre il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano (Sez. 5^, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215).

Nella specie la parte contesta le deduzioni dei giudici di merito, fondate sul diretto esame di una foto dei luoghi, perchè in contrasto con alcune dichiarazioni della stessa persona offesa e, a giudizio del ricorrente, con la stessa foto esaminata, ma ancora una volta sollecita una rilettura degli elementi probatori che non si traduce in un travisamento degli stessi, operazione non consentita in sede di legittimità.

3. Il terzo motivo, riguardante il supposto vizio di motivazione sulla colpa del lavoratore, quanto meno ai fini di una graduazione della colpa del datore, è infondato.

Il ricorrente invoca i principi affermati dalla Quarta Sezione di questa Corte in una sentenza del 2008 (Sez. 4^, n. 40821 del 21/10/2008, ric. Petrillo, non massimata), resa rispetto ad una fattispecie nella quale il lavoratore, indotto da altro soggetto estraneo all’apparato aziendale, aveva finito con l’impegnarsi in un’attività del tutto esorbitante rispetto alle specifiche mansioni affidategli, così ponendo le condizioni per la recisione di qualsivoglia collegamento eziologico con l’attività lavorativa che era stato comandato di effettuare e, in ultima analisi, con la correlativa posizione di garanzia del datore di lavoro. Secondo il ricorrente il lavoratore, nella qualità di esperto di sistemi per la sicurezza, ha contribuito alla causazione dell’evento, predisponendo i ponteggi insieme all’imputato, e per altro verso avrebbe dovuto rifiutare il lavoro e pretendere le opere provvisionali ritenute necessarie.

3.1 A ben vedere, proprio i principi affermati nella decisione invocata, che coincidono peraltro con quelli costantemente affermati da questa Corte, inducono a ritenere infondata la censura.

La sentenza P. richiama la rigorosa giurisprudenza in tema di rilevanza della colpa del lavoratore, ai fini e per gli effetti di escludere l’addebito di responsabilità a carico del datore di lavoro, per la quale, di norma, la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell’infortunio. Ciò in quanto al datore di lavoro è imposto (anche) di esigere il rispetto delle regole di cautela da parte del lavoratore: cosicchè il datore di lavoro è “gerente” anche della correttezza dell’agire del lavoratore. Per l’effetto, la colpa del datore di lavoro non è esclusa da quella del lavoratore e l’evento dannoso è imputato al datore di lavoro, in forza della posizione di garanzia di cui ex lege è onerato, sulla base del principio dell’equivalenza delle cause vigente nel sistema penale, espresso dall’art. 41 c.p., comma 1, (Sez. 4^, n. 5005 del 14/12/2010 – dep. 10/02/2011, Sessa, Rv. 249625; Sez. 4^, n. 10121 del 23/01/2007, Masi, Rv. 236109).

Per mitigare gli effetti del richiamato principio, la sentenza P. richiama anche il concorrente principio dell’interruzione del nesso causale, esplicitato normativamente dall’art. 41 c.p., comma 2, in forza del quale anche la condotta colposa del datore di lavoro che possa essere ritenuta antecedente remoto dell’evento dannoso, allorchè intervenga un comportamento assolutamente eccezionale ed imprevedibile del lavoratore, finisce con l’essere neutralizzata e privata di qualsivoglia rilevanza efficiente rispetto alla verificazione di un evento, che, per l’effetto, è addebitabile materialmente e giuridicamente al lavoratore.

Per interrompere il nesso causale occorre, comunque, un comportamento del lavoratore che sia “anomalo” ed “imprevedibile” e, come tale, “inevitabile”; cioè un comportamento che ragionevolmente non può farsi rientrare nell’obbligo di garanzia posto a carico del datore di lavoro (tra le tante, Sez. 4^, n. 23292 del 28/04/2011, Millo, Rv.250710; Sez. 4^, n. 7267 del 10/11/2009 – dep. 23/02/2010, Iglina, Rv. 246695; Sez. 4^, n. 25532 del 23/05/2007, Montanino, Rv. 236991).

Per escludere la responsabilità del datore di lavoro occorre un comportamento del lavoratore definibile come “abnorme”, che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro.

Come ipotesi tipiche di interruzione del nesso causale per effetto di condotta colposa del lavoratore, sono indicate quella del lavoratore che violi “con consapevolezza” le cautele impostegli, ponendo in essere in tal modo una situazione di pericolo che il datore di lavoro non può prevedere e certamente non può evitare; quella del lavoratore che provochi l’infortunio ponendo in essere, colposamente, un’attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento “esorbitante” rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile (ed evitabile) per il datore di lavoro.

3.2 Dalla casistica richiamata nella decisione, appare evidente come il caso in esame sia del tutto diverso: la persona offesa T. non ha tenuto alcun comportamento abnorme in fase di esecuzione del lavoro, poichè cadde appoggiando un piede al di fuori della tavola di legno per recuperare un martello, condotta assolutamente prevedibile ed ordinaria.

3.3 Nè può essere invocata la sua responsabilità in fase di predisposizione dei sistemi di sicurezza, per la sua supposta qualifica di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (argomento sul quale il ricorrente insiste ripetutamente nel ricorso): ciò perchè la responsabilità penale del datore di lavoro non è esclusa per il solo fatto che sia stato designato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, cui sono demandati dalla legge compiti diversi intesi ad individuare i fattori di rischio, ad elaborare le misure preventive e protettive e le procedure di sicurezza relative alle varie attività aziendali (Sez. F, n. 32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 247996; Sez. 4^, n. 27420 del 20/05/2008, Verderosa, Rv. 240886). E’ vero che secondo gli arresti più recenti questa Corte il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere ritenuto responsabile, in concorso con il datore di lavoro od anche a titolo esclusivo, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione; nel caso di specie, però, è assorbente il rilievo, desumibile dalla sentenza di primo grado, riprodotta testualmente in quella di appello, secondo il quale il T. era stato nominato rappresentante dei laboratori per la sicurezza il 15 aprile 2002, per un periodo di tre anni, per cui all’epoca dell’infortunio egli sicuramente non lo era più.

3.4 Correttamente, allora, con motivazione logica ed adeguata, i giudici di merito hanno escluso che la sua condotta, priva di caratteri di eccezionaiità o abnormità, potesse essere considerate anche solo ai fini di un concorso di colpa nella causazione dell’evento lesivo.

4. Il quarto motivo, relativo al giudizio di bilanciamento delle attenuanti generiche, è inammissibile.

4.1. In proposito va rimarcato che tanto il riconoscimento delle attenuanti generiche, tanto il connesso giudizio di bilanciamento con le aggravanti, sono statuizioni che l’ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica. Nel caso di specie la Corte d’appello non ha mancato di motivare la propria decisione sui punti in questione, facendo riferimento alla gravità dell’infortunio, che ha comportato una lunga malattia ed una menomazione dell’integrità fisico psichica del 17% ed al mancato pagamento del danno e della provvisionale imposta con la decisione di primo grado.

Si tratta di elementi che, in quanto riconducibili alla gravità del danno per la persona offesa ed alla condotta susseguente al reato, rientrano a pieno titolo nella valutazione di riconoscibilità delle attenuanti generiche, operata facendo riferimento alle situazioni contemplate nell’art. 133 c.p.; a tal fine va ricordato che il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2^, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163).

Nè può dubitarsi che il giudice possa prendere in esame, al fine della valutazione prevista dall’art. 62 bis c.p., il mancato risarcimento del danno cagionato, soprattutto in presenza di una condanna alla provvisionale, poichè tale circostanza viene in rilievo sotto il profilo della condotta susseguente al reato, e dunque è direttamente riconducibile al parametro indicato dall’art. 133 c.p., comma 2, n. 3.

5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni di cui all’art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 9 agosto 2013.

Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2013

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