Suprema Corte di Cassazione
sezione feriale
sentenza 26 settembre 2014, n. 39986
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 15/11/2013, la Corte di appello di Catania confermava la sentenza del Tribunale di Catania sez. dist. di Giarre del 26/3/2012, che aveva condannato C.S. e M.F. alla pena di Euro 1000,00 di multa ciascuno per il reato di cui all’art. 595 cod. pen. oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
1.1. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di riconosciuta responsabilità degli imputati in ordine al reato loro ascritto ed in punto di trattamento sanzionatorio con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
2. Avverso tale sentenza propongono ricorso gli imputati per mezzo del loro difensore di fiducia, sollevando i seguenti motivi di gravame:
2.1. manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., in ordine alla riconducibilità agli imputati della commissione del fatto di reato contestato. Con riferimento alla M. si evidenzia che le risultanze dibattimentali non hanno fornito alcuna prova che sia stata la stessa ad affiggere o a disporre l’affissione della missiva diffamatoria nei confronti delle parti civili; quanto poi al C. , si eccepisce che l’attribuzione del fatto allo stesso è stata fondata esclusivamente sulle dichiarazioni delle persone offese costituite parti civili.
2.2. erronea interpretazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen., con riferimento alla configurabilità del reato di cui all’art. 595 cod. pen. per l’insussistenza dell’elemento oggettivo. Rappresentano, al riguardo, che la missiva in questione non contiene alcun epiteto ingiurioso o altre espressioni dalle quali possa desumersi l’offesa all’altrui reputazione; evidenziano poi che la dichiarazione di morosità, che si assume essere contraria al vero, era invece rispondente a verità, come le stesse parti civili hanno dichiarato; eccepiscono, poi, la carenza del requisito della comunicazione con più persone, in quanto le persone offese hanno dichiarato di avere subito rimosso la missiva senza che nessuno ne potesse prendere visione.
2.3. erronea interpretazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen., con riferimento alla configurabilità del reato di cui all’art. 595 cod. pen., per l’insussistenza dell’elemento soggettivo e per la presenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. Si rappresenta, al riguardo, che la diffusione della nota in questione era volta solamente a sollecitare il pagamento di quanto dovuto, essendo carente negli imputati l’animus diffamarteli. Si sostiene poi che la punibilità del fatto era esclusa, in quanto i ricorrenti portavano a conoscenza degli interessati le decisione assunte, così soddisfacendo un oggettivo interesse alla comunicazione.
2.4. mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., in ordine alla richiesta di concessione delle attenuanti generiche.
2.5. violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen., con riferimento al diniego della condanna dei querelanti P.A. e M.C. alla rifusione delle spese ed al risarcimento del danno ex art. 427 cod. proc. pen..
2.6. si eccepisce , infine, l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Considerato in diritto
3. Il ricorso deve essere rigettato, per essere infondati tutti i motivi proposti.
Quanto al primo motivo trattasi di questioni che attengono a valutazioni di merito che sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di specie. (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999, Rv. 214794; Sez. U., n. 12 del 31.5.2000, Rv. 216260; Sez. U. n. 47289 del 24.9.2003, Rv. 226074). E così segnatamente la Corte territoriale da atto, adeguatamente, degli elementi probatori in forza dei quali il fatto era stato attribuito agli attuali ricorrenti, facendo riferimento, per la M. , alla circostanza che la comunicazione ritenuta diffamatoria era stata sottoscritta proprio dalla stessa e per il C. alle dichiarazioni rese da due testimoni che avevano riferito di avere visto lo stesso mentre affiggeva la comunicazione in questione al portone d’ingresso del condominio. Ed ancora la Corte territoriale ha dato atto del vaglio di credibilità al quale sono state sottoposte le deposizioni delle persone offese con motivazione immune da vizi di legittimità, evidenziando come non erano emersi motivi per ritenere che le stesse avessero riferito il falso. Ed il ragionamento seguito dalla Corte territoriale appare conforme al costante orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in base al quale, il convincimento sull’attendibilità della persona offesa, in quanto sostenuto da congrua e logica motivazione, non può soffrire censure di legittimità (sez. 2 n. 3438 del 11/6/1998, Rv. 210937). Inoltre, sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte (sez. 4 n. 16860 del 13/11/2003, Rv. 227901; sez. 4 n. 44644 del 18/10/2011, Rv. 251661), avvalorata da un recente intervento delle sezioni unite (sez. U n. 41461 del 19/7/2012, Rv. 253214), le regole dettate dall’art. 192 comma 3 cod.proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, come avvenuto nel caso di specie, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, verifica che, in tal caso, deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Ed a tali canoni di valutazione si è rifatta la Corte territoriale nel pervenire ad un giudizio di attendibilità di quanto riferito dalle persone offese.
Ed anche con riferimento all’elemento oggettivo del reato di diffamazione, le doglianze compendiate nel secondo motivo proposto si rivelano infondate, avendo i giudici di merito fatto corretta applicazione dei principi di diritto costantemente affermati da questa Corte di legittimità e condivisi dal Collegio (sez. 5 n. 4562 del 2/4/1973, Rv. 124270; sez. 3 n. 35543 del 18/9/2007, Rv. 237728). In tal senso è stato, correttamente, dato atto che la comunicazione contenente i nominativi dei condomini morosi affissa al portone condominiale, anche in presenza di un effettiva morosità degli stessi condomini, costituiva una condotta diffamante, non sussistendo alcun interesse da parte dei terzi alla conoscenza di quei fatti, anche se veri.
Quanto, poi, all’elemento soggettivo del reato, di cui tratta il terzo motivo di ricorso, altrettanto correttamente la Corte territoriale ha evidenziato che, ai fini dell’integrazione del delitto di diffamazione è sufficiente il dolo generico, che può assumere anche la forma del dolo eventuale, ravvisabile laddove l’agente faccia consapevolmente uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive (sez. 5 n. 4364 del 12/12/2012, Rv. 254390).
Deve poi escludersi la ricorrenza, nel caso di specie, dell’esimente del diritto di cronaca e di critica invocato dai ricorrenti. Ora, premesso che la scriminante in parole è in astratto ipotizzabile non solo in relazione all’attività di giornalisti o scrittori, ma anche rispetto al comune cittadino, occorre sempre valutare la rilevanza della diffusione della notizia che deve essere funzionale al corretto svolgimento delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali. In tale direzione, deve rilevarsi che la diffusione della comunicazione attraverso la sua affissione al portone d’ingresso, essendo potenzialmente conoscibile da un numero indeterminato di persone, integrava il delitto contestato, per essere carente, al di fuori del ristretto ambito condominiale, un qualsiasi interesse alla conoscenza della circostanza relativa alla morosità di alcuni condomini.
Quanto poi alla mancata concessione delle attenuanti generiche, di cui al quarto motivo di ricorso, la sentenza impugnata fa riferimento all’assenza di elementi tali da imporre una mitigazione del trattamento sanzionatorio. E sul punto, conformemente all’orientamento espresso più volte da questa Corte, deve rilevarsi che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis cod.pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in Cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6 n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419; sez. 2 n. 3609 del 18/1/2011, Rv. 249163). Ed ancora, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6 n. 34364 del 16/6/2010, Rv. 248244).
Anche la censura relativa al diniego della condanna dei querelanti P.A. e Ma.Ca. alla rifusione delle spese ed al risarcimento del danno ex art. 427 cod. proc. pen., di cui al quinto motivo proposto, si rivela infondata, in quanto, prescindendo dalla motivazione resa sul punto nella sentenza impugnata, dal tenore complessivo della stessa, letto congiuntamente alla decisione di primo grado, si evince che i giudici di merito hanno, legittimamente, escluso qualsiasi ipotesi di colpa dei querelanti nell’avere esercitato il diritto di querela in considerazione della complessità della vicenda.
Da ultimo rileva il Collegio che alla data odierna non è maturato il termine di prescrizione di cui agli artt. 157 e ss. cod. pen. del reato che risulta consumato il 23/2/2006, tenuto conto dei periodi di sospensione del giudizio di primo grado pari a mesi dieci e giorni cinque e del giudizio di appello per ulteriori mesi due e giorni uno.
P.Q.M.
Rigetta A ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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