Cassazione logo

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 18 settembre 2014, n. 38346

Ritenuto in fatto

  1. È impugnata la sentenza del 12/07/2012 con la quale la Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Taranto in data 17/04/2007, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di M.F. , in ordine ai reati ascrittigli, per l’intervenuta prescrizione, confermando la condanna dello stesso M. al risarcimento dei danni in favore della parte civile Comune di Taranto, in solido con ulteriori imputati.
  2. I fatti, dei quali si discute ormai solo quanto agli effetti civili del reato, erano stati qualificati come delitto continuato di frode nelle pubbliche forniture e truffa pluriaggravata (artt. 110, 82 cpv., 356, 640, comma 2, 61, numeri 7 e 9, cod. pen.).

In estrema sintesi può dirsi che un raggruppamento di imprese, tra le quali era compresa la Sparaco Spartaco s.p.a. (della quale M. era legale rappresentante), aveva ottenuto l’appalto per la realizzazione di una condotta sottomarina per lo scarico in mare aperto delle emissioni del depuratore di Taranto. L’opera era stata ultimata nel 2000, ma già nel 2002 erano stati individuati gravi danni, in molteplici parti della tubazione, con emissione in acqua di liquidi inquinanti.

Secondo la costruzione accusatoria, le imprese avevano deliberatamente realizzato la condotta con gravissime carenze tecniche (avuto particolare riguardo ai giunti ed alle campate di sollevamento dal fondale marino), al fine di ottenere un risparmio di spese quantificato almeno nel 20%, ed avevano ugualmente preteso ed ottenuto, con la complicità del direttore dei lavori, la liquidazione di riserve per circa 2,2 miliardi di lire.

2.1. La Corte territoriale, in apertura del proprio provvedimento, ha comunque constatato l’estinzione per prescrizione di tutti i reati ascritti all’odierno ricorrente. Si è delitto continuato di frode nelle pubbliche forniture e truffa pluriaggravata (artt. 110, 82 cpv., 356, 640, comma 2, 61, numeri 7 e 9, cod. pen., e dunque della condanna relativa agli effetti civili del reato, dovendo identificarsi il momento consumativo del reato non all’epoca delle prime contestazioni tecniche (luglio 1999), ma nel momento della ultimazione dei lavori, risalente al 31/12/1999.

2.2. Sempre a proposito delle statuizioni civili della sentenza di condanna, i Giudici di appello hanno preliminarmente valutato un’eccezione difensiva volta a raffigurare la revoca implicita della costituzione di parte civile del Comune di Taranto, in dipendenza della successiva proposizione di azione civile, con riguardo agli stessi fatti, a fini di risarcimento del danno.

In realtà – ha osservato la Corte – non vi sarebbe coincidenza tra le domande formulate dalla parte privata. L’azione in sede civile non è promossa contro M. ma solo contro la Sparaco Spartaco, e mira essenzialmente alla risoluzione del contratto di appalto per inadempimento ed al risarcimento dei danni conseguenti, fondandosi tra l’altro su una causa diversa dall’ipotesi del deliberato atteggiamento di frode, e comprendendo anche i danni ambientali, rimasti esclusi dall’oggetto del giudizio in sede penale.

Le stesse notazioni erano già state operate da questa Corte allorquando il Comune di Taranto aveva presentato ricorso avverso una sospensione per pregiudizialità del procedimento civile.

2.3. In punto di fatto il Giudice di appello ha confermato che l’opera commissionata avrebbe dovuto condurre i liquidi di scarico ad alcuni chilometri dalla costa, consistendo nella posizione di una condotta sul fondo marino appoggiata senza soluzione di continuità, e dunque senza campate libere, tanto che la procedura aveva previsto una bonifica preliminare del tracciato, con predisposizione di colmi artificiali ove necessario. Alla fine, ed invece, le campate interessavano circa il 25% della tubazione ed alcune giungevano a 50 metri, con grave pregiudizio per la stabilità e l’integrità della condotta, infatti collassata rapidamente in più punti, e, nel motivato giudizio della Corte, proprio a causa delle campate libere e dell’inadeguatezza dei rimedi che erano stati tentati in qualche punto del tracciato.

In conclusione, si è ritenuto che i tubi fossero stati semplicemente calati a mare, senza previa bonifica del fondo e con saldature estremamente approssimative, seguendo oltretutto un tracciato diverso da quello del progetto. A giudizio della Corte, l’associazione temporanea di imprese aveva deliberatamente fornito al committente un’opera del tutto inidonea, approfittando delle difficoltà di verifica connesse alla collocazione sottomarina e comunque giovandosi dell’assenza di controlli da parte della commissione di collaudo e della direzione dei lavori.

2.4. In relazione al delitto di truffa, suscettibile di concorso con quello di cui all’art. 356 cod. pen., i Giudici di appello hanno confermato la valutazione di sussistenza del fatto, risolto nella fatturazione di opere mai realizzate.

  1. Ricorrono i Difensori del M. , prospettando molteplici motivi di impugnazione.

3.1. È denunciata anzitutto una violazione dell’art. 82, comma 2, cod. proc. pen.. Il giudizio promosso in sede civile dal Comune di Taranto riguarderebbe anche la responsabilità extracontrattuale connessa ai fatti di causa, e dunque anche il danno da reato. La cattiva esecuzione dell’opera ed i raggiri volti ad ottenerne comunque l’intero pagamento fonderebbero la pretesa risarcitoria del Comune sia nella sede civile che in quella presente, data l’ampiezza della domanda avanzata nella prima, che comprenderebbe ogni titolo di responsabilità.

Sarebbe per altro inconferente l’estraneità del M. al giudizio civile, posto che, a norma dell’art. 185 cod. pen., il reato determina una responsabilità comune del colpevole e del responsabile civile. Il Comune di Taranto avrebbe indebitamente sdoppiato i giudizi per il medesimo fatto, creando il rischio di una doppia condanna che non avrebbe fondamento razionale. Vi sarebbe dunque identità soggettiva nelle due azioni.

Infine, sarebbe spettato al danneggiato indicare nell’atto di promovimento dell’azione civile gli elementi della relativa autonomia dalla domanda formulata in sede penale, cosa che nella specie non sarebbe avvenuta.

3.2. Si lamenta, in base all’art. 606, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., la violazione del combinato disposto degli artt. 157, 158 e 356 cod. pen.: la Corte avrebbe dovuto riconoscere che la sentenza di primo grado era stata pronunciata a reato di frode prescritto, posto che, per giurisprudenza asseritamente pacifica, la consumazione di quel reato coincide con le contestazioni da parte della pubblica amministrazione, nella specie formalizzate dal direttore di lavori, relativamente all’esistenza di campate libere, il 10/07/1999.

La tesi esposta nella sentenza impugnata sarebbe incompatibile con la natura istantanea del reato de quo, e riferita oltretutto a violazioni asseritamente marginali rispetto all’anomalia essenziale dell’opera.

3.3. Vi sarebbe stata, ancora, violazione dell’art. 640 cod. pen., rilevante a norma dell’art. 606, comma 1, lettera b), cod. proc. pen..

È vero che in astratto truffa e frode nelle pubbliche forniture possono concorrere, ma, secondo un autorevole insegnamento dottrinario, il primo reato sarebbe assorbito nel secondo quando gli artifici o raggiri posti in essere coincidono con il quid pluris, rispetto al mero inadempimento, che pacificamente necessita per l’integrazione del reato di cui all’art. 356 cod. pen. Il pagamento degli importi fatturati si risolverebbe dunque in un post factum non punibile.

In una memoria recentemente depositata (2/05/2014) i Difensori di M. hanno aggiunto che il concorso di reati sarebbe concepibile quando il cattivo adempimento dell’obbligazione assunta sia originariamente programmato, ma non quando, come nella specie, il doloso difetto della prestazione sia deliberato al momento dell’esecuzione del contratto, e la ricezione del pagamento costituisca la mera e naturale conseguenza della frode compiuta.

 Considerato in diritto

  1. Il ricorso è proposto sulla base di motivi infondati, e deve dunque essere respinto. Dal rigetto discende la necessaria condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Alla fase di legittimità del giudizio ha presenziato anche la parte civile (il Comune di Taranto), la cui costituzione, come meglio si vedrà tra breve (infra, p. 2) non può intendersi revocata per effetto dell’azione civile a suo tempo proposta nei confronti della società rappresentata dal M. . Il rigetto del ricorso, dunque, comporta la condanna dell’interessato anche alla rifusione delle spese della parte avversa, che la Corte, valutate le circostanze del caso concreto, ed alla luce di tutti i parametri di legge, stima di liquidare in Euro 3.100,00, somma cui dovranno aggiungersi la percentuale fissa prevista a titolo di rimborso forfettario delle spese generali (15%), nonché le ulteriori somme dovute per ragioni fiscali (I.v.a.) o contributive (C.p.a.).

  1. Non può essere in primo luogo condiviso l’assunto, già respinto dalla Corte territoriale, secondo cui il Comune di Taranto, con l’atto di citazione del 18/07/2005 (spedito anche alla Sparaco Spartaco per ottenere la risoluzione del contratto di appalto, la restituzione del prezzo, il risarcimento dei danni contrattuali, extracontrattuali ed ambientali), aveva per implicito revocato la costituzione di parte civile nel presente giudizio, a norma dell’art. 82, comma 2, cod. proc. pen..

Affinché si determini l’effetto previsto da tale ultima norma – ed il concomitante effetto di sospensione del giudizio civile previsto dal comma 3 dell’art. 75 cod. proc. pen. – occorre la coincidenza delle azioni proposte, in ogni loro elemento significativo. In tal senso non solo il tenore letterale delle disposizioni, ma la loro stessa ratto, che mira a prevenire improprie duplicazioni di giudizio sul medesimo oggetto, oltreché a coordinare situazioni di pregiudizialità che assumono rilievo, appunto, solo in caso di coincidenza delle domande.

Il ricorrente non nega il principio ma, propugnando una sorta di valutazione “sostanziale” delle domande proposte dal Comune di Taranto nelle due sedi, ne prospetta una coincidenza necessaria e sufficiente a produrre, anzitutto, l’effetto traslativo. È palese, tuttavia, che la pretesa coincidenza non sussiste, e ciò vale anzitutto, in senso già risolutivo, dal punto di vista soggettivo.

Per stessa ammissione del ricorrente, l’azione civile era stata promossa contro la società contraente dell’appalto, mentre nel giudizio penale la costituzione è intervenuta nei soli confronti del M. , persona fisica in ipotesi responsabile dei fatti di reato produttivi del danno risarcibile. Si tratta all’evidenza di soggetti diversi, e risulta inefficace l’argomento per il quale, del danno provocato da un reato, devono rispondere tutti i soggetti indicati dall’art. 185 cod. pen. (tra i quali il responsabile civile). A parte ogni rilievo sulla coincidenza solo parziale della causa petendi (che nei soli confronti del responsabile civile vanno documentati anche i presupposti della sua responsabilità per la condotta altrui), resta il fatto che il Comune di Taranto non aveva chiesto la citazione della Sparaco Spartaco nel giudizio penale, e comunque non aveva citato M. nel giudizio civile.

La giurisprudenza, del resto, ha espressamente escluso l’effetto sospensivo sul giudizio civile della pregressa costituzione nel processo penale nel caso che le domande siano proposte contro soggetti diversi, trattando anche la specifica ipotesi della citazione spedita al responsabile civile per danno da reato, in pendenza dell’azione promossa nel giudizio penale contro il presunto autore dell’illecito (Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 6185 del 13/03/2009, rv. 607661; si veda anche Cass. civ., Sez. 6-3, Ordinanza n. 17608 del 18/07/2013, rv. 627664, relativa addirittura a caso in cui l’azione civile coinvolgeva anche l’imputato nel processo penale).

La circostanza è significativa, stante il rapporto di pregiudizialità che costituisce la premessa logica e testuale della sospensione. Ma non sono mancate affermazioni del principio anche nella giurisprudenza penale, con specifico riguardo alla revoca implicita della costituzione di parte civile, esclusa, tra l’altro, in un caso del tutto analogo a quello presente: “[…] trova applicazione solo quando sussiste una compiuta coincidenza fra le due domande, ed è finalizzata ad escludere la duplicazione dei giudizi. (Nella fattispecie, relativa a colpa medica, la Corte ha ritenuto che l’azione proposta in sede civile contro l’azienda ospedaliera non rappresentasse duplicazione di giudizio rispetto alla costituzione in sede penale contro il sanitario)” (Sez. 4, Sentenza n. 21588 del 23/03/2007, rv. 236722).

Ovviamente, la coincidenza delle azioni dovrebbe sussistere anche dal punto di vista obiettivo, e dunque in relazione alla causa petendi: la “revoca, prevista per il caso in cui l’azione venga promossa anche davanti al giudice civile, trova applicazione solo quando sussiste una compiuta coincidenza fra le due domande, ed è finalizzata ad escludere la duplicazione dei giudizi” (Sez. 2, Sentenza n. 62 del 16/12/2009, rv. 246266).

Nell’interesse di M. , ancora una volta mediante un approccio “sostanziale” al tema, si sostiene che la domanda proposta in sede civile avrebbe “inglobato” quella esercitata in sede penale, atteso il riferimento al risarcimento per responsabilità “extracontrattuale ed ambientale” nel petitum. Si tralascia però, a parte ogni altra considerazione, che l’eventuale estensione della responsabilità della controparte oltre il danno da inadempimento avrebbe al più coinvolto il carattere fraudolento della fornitura, e non il delitto di truffa: delitto non casualmente negato dal ricorrente, ma in realtà ben distinto, essendo consistito (anche) nella falsa predisposizione di fatture, certificati e relazioni, quali artifici utili a conseguire pagamenti che non avrebbero dovuto essere effettuati (infra).

La pretesa estensione comunque – come puntualmente notato dalla Corte territoriale – era già stata negata da questa Corte con la decisione di annullamento del provvedimento che aveva disposto la sospensione del giudizio civile promosso contro la Sparaco Spartaco: “nel caso di specie, infatti il rapporto di consequenzialità giuridica tra le due cause – costituito dal fatto che la decisione della causa presupposta costituisce indispensabile antecedente logico-giuridico, la soluzione del quale pregiudichi in tutto o in parte l’esito della causa da sospendere – non sussiste perché il procedimento civile sospeso è diretto ad ottenere la pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento ascrivibile all’appaltatore (oltre al risarcimento dei danni), laddove il processo penale è diretto ad accertare l’esistenza di reati di truffa e falso ascritti ai legali rappresentanti delle imprese esecutrici dei lavori, reati il cui eventuale accertamento non incide, con effetti di giudicato, sul processo civile. Talché, l’eventuale assoluzione degli imputati non potrebbe comportare per ciò solo il rigetto delle domande proposte in sede civile” (Cass. civ., Sez. 1, Ordinanza n. 20696 del 25/09/2009, non massimata, Comune di Taranto v. Sparaco Ing. Spartaco ed altri).

Né vale richiamare, da ultimo, la giurisprudenza secondo la quale “sussistono i presupposti della revoca tacita della costituzione di parte civile, qualora nell’atto di citazione, successivamente proposto davanti al giudice civile, non siano determinati gli elementi di autonomia che contraddistinguono la diversità della nuova domanda risarcitoria o restitutoria, in guisa da realizzare una inequivoca coincidenza fra le due domande civili e, quindi, un duplice esercizio della medesima azione che integra l’ipotesi della revoca di cui all’art. 82, comma secondo, cod. proc. pen.” (Sez. 5, Sentenza n. 28753 del 08/06/2005, rv. 232298). Ove intesa nel senso che sussisterebbe in generale un “onere di distinzione” da parte del soggetto che agisce in sede civile relativamente ad una causa petendi in qualche modo legata ai fatti posti ad oggetto d’una domanda avanzata in sede penale, l’affermazione non potrebbe essere condivisa. Ma la massima citata, in verità, attiene ad un giudizio nel quale la Corte aveva già stabilito la piena coincidenza dei soggetti e della causa petendi, ed aveva negato che l’effetto di revoca della costituzione di parte civile potesse essere prevenuto dall’interessato mediante il mero inserimento, nell’atto di citazione, della espressione “per gli ulteriori profili non contestati in sede penale, come selezionatrice del danno domandato”.

Nel caso di specie – come subito si comprende – manca la situazione di base indispensabile per la comparazione con il precedente, e cioè la obiettiva coincidenza dei soggetti e dei fatti.

  1. Il ricorso è infondato anche nella parte in cui postula la violazione, ad opera della Corte territoriale, del disposto dell’art. 578 cod. proc. pen..

È certo vero, infatti, che il Giudice di appello il quale dichiari estinto il reato per prescrizione non può pronunciarsi relativamente alle statuizioni civili adottate con la sentenza di condanna in primo grado, se l’estinzione del reato è antecedente alla sentenza medesima (Sez. U, Sentenza n. 10086 del 13/07/1998, rv. 211191, e successive conformi). Tuttavia, nella specie, la Corte territoriale ha espressamente escluso che la prescrizione fosse maturata prima della sentenza riformata.

Il ricorrente contesta l’assunto con riguardo al solo delitto di cui all’art. 356 cod. pen., di talché la questione non sarebbe comunque decisiva, residuando le statuizioni concernenti il delitto di truffa: delitto che, in effetti, può considerarsi consumato con il versamento delle riserve indebitamente percepite dall’azienda del ricorrente, in epoca relativamente più prossima, e che la Difesa non casualmente approccia, piuttosto, prospettandone il preteso assorbimento nella fattispecie di frode in pubblica fornitura.

Le allegazioni difensive, ad ogni modo, devono considerarsi infondate anche riguardo al reato di cui all’art. 356 cod. pen..

Nella sentenza impugnata non si nega, sul piano astratto, la possibilità di una consumazione “anticipata” del reato, in relazione a contestazioni che l’amministrazione destinataria della fornitura formalizzi nei confronti dell’agente, così dando luogo ad un accertamento delle inadempienze realizzate. Si è affermato, però, che nel caso concreto la “contestazione” individuata dalla Difesa dell’imputato – precoce al punto da comportare una scadenza del termine prescrizionale anteriore alla sentenza del Tribunale – era stata solo parziale, e quindi irrilevante. L’allusione concerne una missiva del 10/07/1999, con la quale il direttore dei lavori aveva comunicato alle imprese impegnate nella realizzazione della condotta che si era riscontrata le presenza di campate libere della tubatura. A tale missiva – ha osservato la Corte – aveva dovuto aggiungersene un’altra (27/10/1999), che aveva riscontrato tra l’altro l’abnorme lunghezza di alcune delle campate libere. Soprattutto, l’esatta portata dei difetti dell’opera era stata accertata solo in seguito, grazie alle perizie condotte nell’ambito del processo penale. Quindi – si è concluso – il reato deve intendersi nella specie consumato alla data del 31/12/1999, epoca di ultimazione dei lavori, con decorrenza tale, quanto al termine di prescrizione, da collocare l’evento estintivo in epoca successiva alla sentenza di condanna (pronunciata il 17/04/2007).

Ora, una parte della giurisprudenza ha sostenuto, lungo il corso degli anni, che il momento consumativo del reato coincide con la compiuta esecuzione della prestazione difforme, e dunque, generalmente, con la consegna delle cose destinate all’amministrazione o con l’ultimazione del lavoro allo scopo necessario (Sez. 3, Sentenza n. 22024 del 21/04/2010, rv. 247622, relativa ad un contratto di compravendita, con consegna dell’aliud pro alio; in precedenza, Sez. 1, Sentenza n. 2708 del 01/12/1984, rv. 167515). Parte della dottrina ha notato, al proposito, che la conformità o difformità della prestazione dovuta all’amministrazione non potrebbe che essere verificata una volta esaurita l’attività esecutiva, essendo sempre possibile, in corso d’opera, una variazione adeguatrice del lavoro eseguito o della stessa pattuizione concernente le caratteristiche della prestazione. La giurisprudenza più risalente esigeva addirittura la redazione del verbale di ultimazione dell’opera (Sez. 6, Sentenza n. 540 del 27/04/1971, rv. 118472).

È certo vero che una parte ulteriore della giurisprudenza ha prospettato ipotesi di consumazione “anticipata” del reato, muovendo dalla premessa che occorra distinguere a seconda della tipologia del contratto e della corrispondente attività esecutiva. Proprio con riferimento all’appalto di opere pubbliche, ad esempio, alcune remote pronunce hanno conferito rilievo a qualunque deviazione dal corretto percorso esecutivo, non appena la stessa si sia verificata, senza necessità di conclusione dell’opera (Sez. 6, Sentenza n. 11754 del 21/10/1982, rv. 156564; Sez. 6, Sentenza n. 11326 del 21/03/1994, rv. 199361; Sez. 6, Sentenza n. 2885 del 03/02/1998, rv. 210385). Si precisa per altro, nella prospettiva indicata, che l’inadempimento dovrebbe essere comunque oggetto di accertamento e contestazione da parte dell’amministrazione interessata (Sez. 6, Sentenza n. 12947 del 07/10/1999, rv. 216397; in precedenza, Sez. 6, Sentenza n. 9555 del 08/07/1983, rv. 161161).

Si tratta per la verità di una soluzione problematica, da più punti di vista.

Per un verso occorrerebbe assicurare la necessaria distinzione tra condotta punibile e relativo accertamento, e dunque precisare in che termini le formali doglianze del contraente pubblico possano influire sulla consumazione del reato. Per altro verso, anche convenendo sul possibile rilievo di una inadempienza materializzata in modo per così dire definitivo, prima dell’ultimazione dell’opera, parrebbe chiara la necessità di attribuire rilevanza anche ad altre difformità del processo esecutivo, per quanto successivamente realizzate o accertate, non sembrando concepibile la loro degradazione a post factum non punibile.

Riguardo al ruolo della contestazione dell’appaltatore, vanno considerate tra l’altro le possibili interazioni tra contraenti nel corso dell’esecuzione, nelle situazioni regolate dagli artt. 1659 segg. cod. civ., così da connettere appunto l’integrazione dell’inadempimento alla maturazione dello scarto (da verificare ovviamente ex post) tra l’opera in corso di esecuzione e la volontà negoziale del committente. Del resto, la condotta tipica non costa del mero inadempimento contrattuale, ma della fraudolenta dissimulazione dell’aliud pro alio (Sez. 6, Sentenza n. 36567 del 09/05/2001, rv. 220296; Sez. 6, Sentenza n. 26231 del 12/04/2006, rv. 235171; Sez. 6, Sentenza n. 11144 del 25/02/2010, rv. 246544; Sez. 6, Sentenza n. 5317 del 10/01/2011, rv. 249448), di talché devono certamente assumere rilievo, sul piano della consumazione, le attività di controllo condotte dall’amministrazione contraente (pur senza spingersi ad inserire un evento decettivo tra gli elementi costitutivi della fattispecie).

D’altra parte, come accennato, l’inadempimento non può che essere apprezzato, nel caso di prestazioni complesse e progressive, nella sua compiuta fisionomia, anche considerando che rileva la dissimulazione operata in danno del contraente. Si è recentemente affermato, al proposito, che il “delitto di cui all’art. 356 cod. pen. presuppone un inadempimento fraudolento che si ponga come momento di una complessiva inesecuzione della prestazione, letta nella sua integrante e non parcellizzata tramite i singoli momenti attraverso i quali si realizza, salvo che gli stessi assumano un rilievo essenziale rispetto alla corretta esecuzione degli obblighi assunti (Sez. 6, Sentenza n. 50334 del 02/10/2013, rv. 257847).

Dunque, se anche si ammette la rilevanza di difformità materialmente realizzate ed accertate dalla amministrazione interessata, deve prendersi atto che non è sufficiente un qualsiasi scarto nell’attività esecutiva, né una qualsiasi discussione interlocutoria tra la stessa amministrazione e l’appaltatore. Dovrà al minimo richiedersi che la frode nell’esecuzione sia maturata nei suoi profili essenziali, che la identificano e la qualificano come fatto storico posto ad oggetto della imputazione, e che in questi termini sia stata riconosciuta e contestata dal contraente pubblico.

In questa prospettiva, e per tornare al caso di specie, è palese la irrilevanza della prima missiva spedita all’associazione di imprese dal direttore dei lavori, l’unica in concreto suscettibile (per l’epoca di spedizione) di produrre effetti favorevoli alla tesi difensiva. Ciò anzitutto perché la missiva si riferiva ad una parte soltanto dei vizi essenziali dell’opera, che sarebbero in seguito risultati decisivi per determinarne la clamorosa inadeguatezza (oltre alla denunciata esistenza di campate libere, la qualità delle saldature, la utilizzazione di “materassi” di sostegno rapidamente sfaldati, la insufficienza delle coperture cementizie, ecc). In secondo luogo la missiva, per come riportata nella sentenza impugnata (senza che nel ricorso siano sviluppate al proposito osservazioni critiche), metteva in rilievo una caratteristica dell’opera che avrebbe dovuto essere evitata o circoscritta (tanto da indurre una variazione progettuale del tracciato della condotta, meno interessato da dislivelli del fondo marino) ma soprattutto, negli intenti del mittente, essere superata mediante gli opportuni interventi tecnici: la funzione essenziale della missiva era stata quella di sollecitare un incontro tra direttore dei lavori e tecnici delle imprese operanti, “per discutere […] quali provvidenze mettere al più presto in atto le sollecitazioni indotte”.

Non solo dunque un atto ancora privo di riferimenti a profili decisivi della frode nell’esecuzione, ma anche un atto di carattere del tutto interlocutorio, non ancora consistente in quella attività di “accertamento e contestazione” che la giurisprudenza in questione ha indicato come segnale od elemento rilevante per la consumazione del reato.

La missiva del 27/10/1999, piuttosto, conteneva riferimenti precisi e sostanziali ai vizi essenziali dell’opera (anche se non tutti), e denunciava i malfunzionamenti già verificati, sollecitando l’appaltatore ad adottare i rimedi necessari. Sennonché, anche ammettendo l’individuazione nell’atto in questione del momento consumativo del reato, e dunque del tempo di decorrenza del termine prescrizionale, non si perverrebbe ad un risultato favorevole per la tesi difensiva: il reato, infatti, dovrebbe considerarsi prescritto al 27/04/2007, e dunque in epoca successiva alla data di pronuncia della sentenza di primo grado.

  1. È infine infondata la tesi che, nel caso di specie, il delitto di truffa sarebbe “assorbito” in quello di frode nella fornitura dell’opera commissionata dal Comune di Taranto.

Anzitutto va ricordato come una giurisprudenza ampiamente maggioritaria ammetta il concorso, anche formale, tra le due fattispecie in considerazione. A tale risultato si perviene talvolta, e facilmente, escludendo che una condotta artificiosa e la causazione d’un danno e del relativo profitto siano elementi essenziali del delitto di cui all’art. 356 cod. pen., con la conseguenza che la ricorrenza di detti elementi nel caso concreto non potrebbe che comportare l’integrazione di entrambe le figure criminose (Sez. 2, Sentenza n. 11989 del 28/06/1982, rv. 156687; Sez. 6, Sentenza n. 6769 del 19/03/1985, rv. 170025; Sez. 6, Sentenza n. 5102 del 25/03/1998, rv. 213672; Sez. 2, Sentenza n. 15667 del 20/03/2009, rv. 243951).

C’è in effetti da rilevare come, pur volendo accogliere l’orientamento più recente, per il quale è necessario un connotato di “malizia” (cioè di deliberata dissimulazione dei vizi della prestazione) affinché l’inadempimento assuma rilievo quale frode nella fornitura pubblica (supra), l’elemento del danno e del profitto resta comunque estraneo al piano degli elementi costitutivi della fattispecie, e non si riesce a vedere come, in base alle regole di comune applicazione nella materia del concorso di reati, lo stesso potrebbe venir degradato a post factum non punibile (ad esempio, Sez. 6, Sentenza n. 7679 del 17/01/1972, rv. 122349).

Soprattutto, l’analisi deve essere approfondita almeno fino a distinguere tra i casi in cui il comportamento fraudolento è strumentale alla realizzazione della condotta di inadempimento ed i casi nei quali, sulla vicenda pertinente all’appalto od alla fornitura, si innestano artifici o raggiri funzionali al compimento di atti di disposizione patrimoniale che l’amministrazione non avrebbe compiuto se non, appunto, in conseguenza del comportamento fraudolento.

Nella seconda prospettiva la condotta tipica della truffa aggravata si cumula in termini del tutto incidentali alla fraudolenta inesecuzione (nel senso che può fare del tutto difetto), e non ricorrono neppure i presupposti logici per discutere di apparenza del concorso, a partire dalla specialità per finire con fenomeni più o meno ammissibili di c.d. “assorbimento”.

Proprio questa, d’altronde, è la situazione che la pubblica accusa ha ipotizzato in sede di contestazione ed i Giudici di merito hanno ritenuto in sede di ricostruzione del fatto. L’opera era stata eseguita con modalità e tecniche incredibilmente inadeguate. Il direttore dei lavori (pure inizialmente “ostile” alle imprese e poi, come nota la Corte territoriale, “convertito” ad un atteggiamento collaborativo nel giro di poche settimane) – per quanto progressivamente ma sicuramente informato dei difetti dell’opera – aveva firmato gli stati di avanzamento e lo stato finale dei lavori (nonostante l’assenza di collaudo), consentendo pagamenti progressivi (che avrebbero dovuto essere negati con eccezione di inadempimento) e svincolo finale delle polizze fideiussorie. Soprattutto aveva sottoscritto la relazione necessaria e sufficiente ad indurre lo svincolo ed il versamento di somme per le quali erano state apposte riserve sui registri di contabilità, per una somma superiore, a questo solo titolo, ad 1,2 miliardi di lire. Il tutto naturalmente, nella prospettazione accusatoria, in concorso con gli imprenditori impegnati nella esecuzione dell’appalto.

Una siffatta logica della doppia imputazione è stata appieno recepita dalla Corte territoriale, la quale ha messo anzitutto in rilievo come le imprese avessero tra l’altro fatturato (e riscosso) con riguardo a lavorazioni mai effettuate (fatto già questo logicamente non “assorbibile” nella frode connessa alla esecuzione dell’opera secondo criteri tecnici inadeguati). In secondo luogo, trattando in specifico della posizione dei direttore dei lavori Carlo Salvi, ma con rilievi ovviamente essenziali per l’intera sentenza, ha ripreso in fatto ed in diritto la logica dell’imputazione di truffa, così come sopra si è sommariamente descritta.

Le censure difensive quindi, qualunque ne sia il fondamento sul piano astratto e generale dei rapporti tra figure criminose, sono certamente prive di efficacia nella concreta fattispecie.

P.Q.M.

 Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in Euro 3.100,00, aumentate del 15% per spese generali, oltre a I.v.a. e C.p.a.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *