Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 31 gennaio 2018, n.4562. La fattispecie prevista dall’art. 348 cod. pen. di abusivo esercizio di una professione ha natura istantanea

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[…]

A fronte della analitica esposizione degli elementi fattuali posti alla base del ragionamento probatorio, del tutto inconferente si palesa l’allegazione della difesa di N.C. , secondo cui i testi sarebbero stati contraddittoriamente ritenuti attendibili in relazione alla soppressione della stragrande maggioranza di animali, ma non in relazione a singole condotte di soppressione, per le quali l’imputata e’ stata assolta. In realta’, il complessivo ragionamento probatorio svolto dai giudici di merito, concernente la gestione ‘criminale’ del canile da parte delle tre imputate, appare estremamente coerente ed anzi, la circostanza che le sentenze abbiano dato conto, in relazione a singoli episodi, di un quadro indiziario poco chiaro, conseguente alla presenza di testimonianze non univoche, costituisce una dimostrazione del vaglio particolarmente attento che e’ stato dagli stessi compiuto e del pieno esercizio dei diritti di difesa che e’ stato assicurato.

Dinnanzi a una accurata ricostruzione degli elementi idonei ad affermare la responsabilita’ delle imputate, la difesa di G. e C. si e’ limitata a sottolineare come l’assenza di patologie fisiche idonee a giustificare la soppressione degli animali, non potesse essere assunta quale elemento dimostrativo dell’assenza di necessita’ dell’abbattimento, che all’epoca sarebbe stato consentito anche in caso di mero disagio psichico dell’animale. E tuttavia tale affermazione e’ rimasta al livello di mera enunciazione, non essendo stato dedotto alcun concreto elemento in grado di dimostrarla.

Ne’ appare rilevante l’osservazione, sempre compiuta dalla difesa di G. e C. , secondo cui le richiamate condotte omissive (in particolare con riferimento agli obblighi certificativi), assunte quali indizi della eliminazione dei cani senza necessita’, in realta’ sarebbero state riferibili soltanto in capo a chi, come N.C. , aveva la gestione operativa del canile ed era tenuta ai relativi adempimenti. Infatti, la responsabilita’ delle imputate e’ stata affermata su base concorsuale e, dunque, attraverso la configurazione, in capo alle due ricorrenti, di una partecipazione congiunta alle azioni ed omissioni direttamente ascrivibili alla stessa N. , il cui movente era stato, dalle stesse, pienamente condiviso.

4. Manifestamente infondate sono, altresi’, le questioni poste con riferimento alla configurabilita’ dell’art. 348 cod. pen., rispetto alle quali le ricorrenti hanno articolato, nelle rispettive impugnazioni, il secondo motivo di doglianza.

Si opina, da parte di tutte le imputate, che non sarebbe stata dimostrata l’esistenza degli elementi qualificanti della fattispecie contestata, quali la continuita’, professionalita’ e onerosita’ della condotta, atteso il carattere meramente volontario e senza retribuzione della stessa.

Tale ricostruzione dei requisiti del delitto de quo parrebbe fondata sul principio espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo il quale ‘integra il reato di esercizio abusivo di una professione (…), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorche’ lo stesso compimento venga realizzato con modalita’ tali, per continuativita’, onerosita’ e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attivita’ professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato’ (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, dep. 23/03/2012, Cani, Rv. 251819). E tuttavia, in quel caso, il riferimento ai menzionati requisiti dell’attivita’ delittuosa era strettamente connesso alla necessita’ di ricondurlo, sul piano probatorio, alla professione abusivamente esercitata e non alla identificazione degli indefettibili elementi di fattispecie. Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la fattispecie prevista dall’art. 348 cod. pen. ha natura istantanea (ovvero solo eventualmente abituale: cosi’ Sez. 2, n. 43328 del 15/11/2011, dep. 24/11/2011, Giorgini e altri, Rv. 251376), sicche’ essa non esige un’attivita’ continuativa od organizzata, ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata (cosi’ Sez. 5, n. 24283 del 26/02/2015, dep. 5/06/2015, Bachetti, Rv. 263905; Sez. 6, n. 11493 del 21/10/2013, dep. 10/03/2014, Tosto, Rv. 259490, relativo a una fattispecie in tema di esercizio abusivo della professione di avvocato, nella quale la Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza che la ricorrente avesse trattato un’unica pratica giudiziaria; negli stessi termini Sez. 6, n. 30068 del 2/07/2012, dep. 23/07/2012, Pinori e altro, Rv. 253272; Sez. 6, n. 42790 del 10/10/2007, dep. 20/11/2007, P.G. in proc. Galeotti, Rv. 238088). E nel caso di specie, le sentenze hanno perfettamente posto in luce come le pratiche di eutanasia ascritte alle tre imputate configurassero delle ipotesi di esercizio della professione di veterinario, in quanto attivita’ allo stesso riservate.

5. Quanto, infine, al quarto motivo di doglianza formulato dalla difesa di N.C. , con il quale viene censurato il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, osserva il Collegio che la valutazione circa la concessione o il diniego delle circostanze di cui all’art. 62-bis cod. pen. si configura come un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalita’ del giudice, che deve motivare nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravita’ effettiva del reato e alla personalita’ del reo (v. tra le tante Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, dep. 23/11/2010, Straface, Rv. 248737; Sez. 1, n. 46954 del 4/11/2004, dep. 2/12/2004, P.G. in proc. Palmisani e altro, Rv. 230591), se del caso anche attraverso il ricorso a formule sintetiche (cosi’ Sez. 4, n. 23679 del 23/04/2013, dep. 31/05/2013, Viale e altro, Rv. 256201).

In questa prospettiva, il giudicante, se si determina per il diniego, non e’ tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo, avuto riguardo ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., senza che, peraltro, sia necessario che il giudice li esamini tutti, essendo in realta’ sufficiente che egli specifichi a quali, tra essi, egli abbia inteso fare riferimento, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (v., ex plurimis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, dep. 3/07/2014, Lule, Rv. 259899; sostanzialmente in termini anche Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, dep. 22/09/2017, Pettinelli, Rv. 271269).

Orbene, nel caso di specie, i giudici di primo grado hanno posto in luce il peculiare atteggiamento soggettivo dell’imputata, connotato da una spiccata intensita’ del dolo e dalla futilita’ dei motivi sottesi alle condotte accertate, laddove la Corte territoriale, in risposta a una specifica doglianza espressa nell’atto di appello, ha sottolineato l’assenza di elementi di fatto valorizzabili, al di la della mera condizione di incensuratezza, per la concessione delle attenuanti generiche, anche ‘tenuto conto del ruolo di preminenza e di responsabilita’ che la stessa ricopriva nella gestione del canile’. In questo modo, attraverso il riferimento a taluni criteri posti dall’art. 133, comma 1 n. 3 e comma 2 n. 1 cod. pen. ed alla regola introdotta dall’art. 1, comma 1, lett. f) del decreto legge 23/05/2008, n. 92, convertito in legge 24/07/2008, n. 125 (secondo cui ‘l’assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non puo’ essere, per cio’ solo, posta a fondamento della concessione’ delle attenuanti generiche), i giudici di merito hanno adeguatamente motivato la decisione assunta, conformandosi alla gia’ richiamata cornice di principio.

6. Sulla base delle considerazioni che precedono i ricorsi devono essere, pertanto, dichiarato inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che ‘la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’’, alla declaratoria dell’inammissibilita’ medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonche’ quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 Euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuna ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2000,00 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende

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