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Può, dunque, affermarsi che sussiste il delitto di diffamazione quando tale limite sia oltrepassato, trasformando il legittimo dissenso contro le iniziative e le idee politiche altrui, in una mera occasione per aggredirne la reputazione, con affermazioni che non si risolvono in critica, anche estrema, delle idee e dei comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni e commenti tipicamente ‘di parte’, cioè non obiettivi, ma in espressioni apertamente denigratorie della dignità e della reputazione altrui ovvero che si traducono in un attacco personale o nella pura contumelia (cfr. Cass., sez. V, 5.7.1974, n. 8225, rv. 128431; Cass., sez. V 5.11.1997, n. 11905, rv. 209647; Cass., sez. V, 19.12.2006, n. 4991, rv. 236321; Cass., sez. V, 3.12.2009, n. 7419, rv. 246096).
Orbene non appare revocabile in dubbio che l’espressione di cui si discute, lungi dal rappresentare una radicale critica all’azione politica della Ky., è trasmodata in un vero e proprio attacco inutilmente umiliante nei confronti di quest’ultima ed inutilmente denigratorio della sua dignità, intesa come percezione, innanzitutto, della propria dimensione umana, e della sua reputazione.
Non di una censura sugli obiettivi politico-amministrativi perseguiti dalla persona offesa si è trattato, dunque, ma di un attacco personale, che, facendo leva sulle origini africane della Ky., le ha attribuito caratteri propri degli esseri che vivono nella giungla (dove il Se. la invitava a fare ritorno).
La corte di merito, poi, ha – non illogicamente – inquadrato il dictum dell’imputato nell’ambito della sguaiata polemica politica, che ha visto quale vittima proprio la Ky., da altri assimilata ad una scimmia antropomorfa e, in continuità con tale contesto, ha valutato le esternazioni del Se..
Affermazioni, pertanto, che, lette nel loro contesto, descrivono la persona offesa come incompatibile con il ruolo che è stata chiamata a svolgere nella nostra società.
Dunque evidente è la concezione sottesa allo sprezzante ‘invito’ , teso ad allontanare la persona offesa dal contesto degli uomini civilizzati. Appare, pertanto, del tutto superfluo stabilire se l’imputato avesse voluto assimilare o meno la Ky. ad una scimmia, come ritenuto dalla corte territoriale, peraltro con logico argomentare, posto che l’affermazione del Se. va collocata nel contesto mediatico, sorto intorno alle dichiarazioni del senatore Calderoli sulla somiglianza della Ministra ad un ‘orango’, non a caso riportate dal Se. nel testo inserito nel suo profilo ‘Facebook’.
Quel che rileva, infatti, è l’evidente e gratuito giudizio di disvalore espresso dal Se., fondato sull’appartenenza della Ky. alla razza degli africani di pelle nera, che, secondo l’imputato, ha nella giungla e non nella società civilizzata, il suo habitat naturale, per ragioni storiche ovvero perché assimilabile agli animali, come le scimmie, che vi vivono.
Va, pertanto, condivisa la decisione della corte territoriale anche sulla sussistenza della circostanza aggravante, in premessa indicata, che risulta assolutamente conforme all’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente, come nel caso in cui nelle espressioni denigratorie sia contenuta la parola ‘negro’ (cfr. Cass., sez. V, 8.2.2017, n. 13530, rv. 269712; Cass., sez. V, 28.1.2001, n. 22570, rv. 247495; Cass., sez. V, 23.9.2008, n. 38591, rv. 242219).
Tale circostanza, in altri termini, è configurabile per il solo fatto dell’impiego, come nel caso in esame, di modalità di commissione del reato consapevolmente fondate sul disprezzo razziale, vale a dire quando la condotta posta in essere si manifesta come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, di un sentimento connotato dalla volontà di escludere condizioni di parità per ragioni fondate sulla appartenenza della vittima ad una etnia, razza, nazionalità o religione (cfr. Cass., sez. V, 2.4.2013, n. 30525, rv. 255558; Cass., sez. F. 20.8.2015, n. 38877, rv. 264786).
4. Sulla base delle svolte considerazioni, il ricorso di cui in premessa va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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