Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 5 febbraio 2018, n. 744. L’utilizzazione per la firma digitale di un formato diverso da quello prescritto dalle norme tecniche costituisce difformità che, in applicazione dell’art. 156, comma 3, c.p.c., non si traduce in nullità

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16. Passando ad esaminare le censure proposte dall’appellato, le argomentazioni volte a supportare il profilo di illegittimità accolto dal TAR incorrono evidentemente nel divieto di nuove censure sancito dall’art. 104 cod. proc. amm., e devono essere dichiarate inammissibili.

Per quanto esposto, non può essere sindacato in questa sede se l’Ufficio elettorale provinciale avesse o meno il potere di sindacare il requisito in questione, in quanto causa di ineleggibilità e non di incandidabilità e come tale estranea alla propria competenza (così come ogni connessa questione di giurisdizione, mai sollevata in primo grado).

Ciò chiarito, occorre esaminare le censure effettivamente dedotte in primo grado e riproposte in appello.

Riguardo al primo ordine di censure, può convenirsi con l’appellante che una disposizione di legge elettorale non possa essere interpretata da un Sottosegretario di Stato mediante un parere reso singulatim, e che dal recepimento nell’atto di indizione dei comizi elettorali del parere reso da costui non derivasse alcun vincolo giuridico allo svolgimento da parte dell’Ufficio elettorale provinciale dei propri compiti istituzionali di applicazione delle disposizioni normative, alla luce delle indicazioni univoche contenute nelle circolari ministeriali.

L’odierno appellato sostiene che l’Ufficio elettorale non poteva non considerare il contenuto del decreto di indizione, giacché il suo atto finale non è che l’esito del procedimento composto dal decreto di indizione dei comizi elettorali e degli atti per la presentazione delle candidature. O che, quanto meno, avrebbe dovuto prendere motivata posizione contraria rispetto al parere governativo e al decreto di indizione dei comizi elettorali, incorrendo altrimenti in difetto di istruttoria e motivazione.

Il Collegio ritiene che, di fronte al tenore testuale univoco dell’art. 1, comma 60 della legge 56/2014, non vi sia alcuno spazio interpretativo che possa essere esercitato sia in sede di indizione dei comizi che in sede di valutazione delle candidature.

Le argomentazioni contenute nel parere non appaiono convincenti.

Il requisito di durata minima residua del mandato è previsto per l’elezione a presidente della provincia e non è previsto per l’elezione a consigliere provinciale.

Riguardo a quest’ultimo incarico, la stabilità dell’organo collegiale è perseguita dalla previsione dell’art. 1, comma 78, l. cit.., secondo la quale “I seggi che rimangono vacanti per qualunque causa, ivi compresa la cessazione dalla carica di sindaco o di consigliere di un comune della provincia, sono attribuiti ai candidati che, nella medesima lista, hanno ottenuto la maggiore cifra individuale ponderata. Non si considera cessato dalla carica il consigliere eletto o rieletto sindaco o consigliere in un comune della provincia.”.

Tale previsione, sulla quale fa perno il parere invocato dall’appellato, riguarda la sospensione della causa di decadenza dalla carica di consigliere provinciale, costituita dalla cessazione del mandato di sindaco o consigliere comunale che ha legittimato l’elezione e la partecipazione al consiglio, nell’ipotesi di rielezione e conseguente riacquisizione del requisito. Come tale, ha una finalità di garanzia della continuità (in senso approssimato) della composizione del consiglio e della partecipazione alle attività dell’organo, dovendosi altrimenti procedere ad elezioni suppletive per reintegrare i componenti di volta in volta cessati ovvero andando incontro ad una progressiva riduzione dei componenti. Vale a dire, una finalità del tutto analoga a quella sottesa al comma 60, i cui effetti rilevano però al momento dell’assunzione della carica, non al momento del venir meno della stessa.

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