Palazzo-Spada

CONSIGLIO DI STATO

SEZIONE VI

SENTENZA 9 ottobre 2014, n. 5025

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1803 del 2011, proposto da:
Costruzioni Edili Morandi s.r.l., nella persona dell’amministratore in carica, rappresentato e difeso dagli avv. Innocenzo Gorlani, Claudio Chiola e Mario Gorlani, con domicilio eletto presso Claudio Chiola in Roma, via della Camilluccia, 785;

contro

Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Brescia Mantova e Cremona, nelle persone dei rispettivi titolari in carica, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Comune di Toscolano-Maderno, non costituito;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA – SEZ. STACCATA DI BRESCIA: SEZIONE I n. 00077/2011, resa tra le parti, concernente permesso di costruire – parere negativo di compatibilità paesaggistica

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della difesa statale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 1 aprile 2014 il Cons. Vito Carella e uditi per le parti gli avvocati Chiola e dello Stato Fiorentino;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

I.- La società odierna appellante ha impugnato in primo grado, con l’atto introduttivo, l’ordinanza dirigenziale n. 133 (prot. 14850) del 18 novembre 2008, disponente l’annullamento d’ufficio e il ritiro del permesso di costruire assentito il 6 giugno 2006 (rilasciato nell’erroneo presupposto del tardivo annullamento statale dell’autorizzazione paesaggistica in realtà tempestivamente annullata dalla locale Soprintendenza il 20 luglio 2006); con i motivi aggiunti, la ricorrente ha poi gravato il parere negativo di compatibilità paesaggistica del 23 marzo 2009, emesso dalla medesima Soprintendenza sul progetto di variante a sanatoria paesaggistica che la società interessata aveva attivato il 30 luglio 2007 (allo scopo di regolarizzare in qualche modo le opere nel frattempo realizzate).

Risulta dalla sentenza oggetto di appello che il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia ha respinto tanto i quattro mezzi introduttivi quanto le censure aggiunte e la domanda di risarcimento dei danni proposti dalla ricorrente, con condanna alle spese di lite.

I giudici di prima istanza hanno al riguardo rilevato:

– l’impossibilità giuridica di ravvisare alcun travisamento nel fatto che l’amministrazione, dopo aver sperimentato la via della variante in sanatoria per legittimare con un titolo paesaggistico valido i lavori eseguiti, abbia poi proceduto in modo unilaterale all’autoannullamento del titolo edilizio irregolare, non potendo essere preteso che nel ritiro la relativa motivazione desse conto dell’errore commesso anche dagli uffici comunali;

– l’insussistenza della addotta violazione degli artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42 del 2004 per la mancata sospensione di ogni determinazione sull’autoannullamento del permesso di costruire in relazione alla sanatoria paesaggistica presentata, non preveduta da alcuna norma o orientamento giurisprudenziale a simiglianza dell’ordine di demolizione;

– la non configurabilità dei vizi di violazione dei principi di proporzionalità e di contraddittorietà (perché la misura scelta sarebbe la più grave e perché il Comune ha provveduto dopo diciotto mesi di assoluta inerzia), in quanto l’annullamento in autotutela di un titolo edilizio in nessun modo può essere considerata una sanzione (trattandosi di mero ripristino della legalità violata che non determina alcuna contraddittorietà per la successiva adozione di provvedimento legittimo);

– l’infondatezza della censura di violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 per l’assenza di indicazione di ogni interesse pubblico ulteriore all’eliminazione dell’atto, dato che il provvedimento denunziato ha motivato diffusamente sulla mancanza di legittimo affidamento in capo al destinatario della misura;

– relativamente ai motivi aggiunti contro la negata compatibilità paesaggistica (prescindendo dall’eccezione statale e da ogni ulteriore approfondimento istruttorio non necessario perché a monte la sanatoria paesaggistica non poteva essere concessa), l’inconferenza delle doglianze (la Soprintendenza avrebbe asseritamente motivato il parere contrario solo rilevando che l’edificio è impostato ad una quota superiore di 3 mt. a quella dell’edificio adiacente, mentre, a giudizio della ricorrente, la differenza di quota sarebbe solo di mt. 1,33), atteso che nel caso in esame non era questione di periodo transitorio alla luce dei lavori tutti realizzati dopo la entrata in vigore del d.lgs. n. 157 del 2006 e dell’istanza di compatibilità presentata il 30 luglio 2007;

– la genericità della domanda di risarcimento danni, formulata con clausola di stile.

II.- Con l’appello in esame la società ricorrente ha criticato l’impugnata sentenza a mezzo di sette motivi di doglianza, così rubricati e argomentati:

  1. Violazione del principio del contraddittorio su una questione rilevata d’ufficio (art. 73, comma 3, del Codice del proc. amm.), ovvero la inammissibilità per legge della sanatoria paesaggistica, sollevata dalla difesa statale e mai eccepita dalla Soprintendenza, peraltro inconciliabile in primo luogo con il corso impresso alla pratica di sanatoria avviata dalla ricorrente che ha depositato la documentazione richiesta ad integrazione; secondariamente, con i sopralluoghi disposti dal Tar finalizzati all’esame delle censure di difetto istruttorio e travisamento dei fatti; infine, con la relazione istruttoria dalla Soprintendenza tardivamente depositata in giudizio il 14 dicembre 2010 (il giorno prima dell’udienza), che ammette la sanatoria a condizione della riduzione di un piano del fabbricato.
  2. Violazione di legge (con particolare riguardo agli artt. 2 e 73, comma 1, codice proc. amm. e art. 111 Cost. in riferimento al contraddittorio) a seguito della produzione in giudizio di una relazione alla vigilia della discussione, acquisita in assenza di contraddittorio e recante una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, anche se la causa è stata decisa sulla questione pregiudiziale dell’inammissibilità della sanatoria e a prescindere da tale relazione, ma il termine a difesa è condizione di validità della sentenza per un giusto processo nella parità delle parti, che deve essere valutata a priori rispetto all’esito del giudizio.
  3. Violazione o erronea o falsa applicazione di legge (con particolare riguardo alle disposizioni degli artt. 159 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, come modificati dai d.lgs. nn. 157 del 2006 e 63 del 2008 e dalla legge 129 del 2008), in relazione alla successione temporale delle norme predette che hanno modificato il “Codice Urbani” e alla luce del giudizio di merito espresso dalla Soprintendenza (senza ora considerare il suo contenuto che è oggetto di specifica censura) il quale si inserisce nel filone giurisprudenziale che ammette la sanatoria dell’autorizzazione paesaggistica nella fase transitoria del nuovo Codice (precedenti di questa Sezione Sesta citati) e che rende nella fattispecie ammissibile la sanatoria perché, come precisa la sentenza impugnata, la costruzione del manufatto è intervenuta nel corso del 2007, cioè nel periodo privo della copertura normativa del d.lgs. n. 157 del 2006 (a seguito della sua abrogazione).
  4. Violazione o falsa applicazione di legge (con particolare riguardo alle disposizioni degli artt. 159 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 come modificati dal d.lgs. n. 157 del 2006, dal d.lgs. n. 63 del 2008 e dalla legge n. 129 del 2008, nonché dell’art. 36 del t.u. n. 380 del 2001), dato che, diversamente da quanto esposto in sentenza, la società ricorrente (che non aveva alcuna cognizione per valutare gli effetti del decreto di annullamento giunto in ritardo, a tal punto che non ha neppure impugnato il decreto a fronte del rilascio del permesso di costruire n. 187/2006 emesso dal titolare dell’U.T., convinto che il decreto fosse inefficace) è stata indotta in errore dal Tecnico comunale e tale circostanza, a fronte della richiesta nel 2007 di sanatoria paesaggistica, che pone problematica affine a quella della sanatoria edilizia di cui all’art. 36 del t.u. n. 380/2001, avrebbe dovuto quantomeno indurre nel 2008 e dopo un anno il comune, causa dell’abuso paesaggistico, a soprassedere al ritiro del titolo edilizio nelle more della risoluzione del procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica.
  5. Eccesso di potere per violazione del principio di proporzionalità e manifesta contraddittorietà, essendo la reazione comunale sproporzionata rispetto al ricostruito quadro di causa e in contraddizione di comportamento dopo ben 18 mesi di stallo dalla comunicazione dell’avvio del procedimento di annullamento del permesso di costruire.
  6. Violazione o falsa applicazione di legge (con particolare riguardo alle disposizioni dell’art. 21-nonies legge n. 241/1990), per essere il ritiro impugnato privo di quel connotato essenziale che è l’interesse pubblico ulteriore e non ispirato alle regole del contrarius actus.
  7. Istanza istruttoria (in subordine) ai sensi dell’art. 19 del Codice proc. amm., non potendo ricevere il thema decidendum del ricorso estensioni a discrezione della parte pubblica, che ha adempiuto tardivamente all’ordinanza istruttoria del TAR con la relazione depositata il 14 dicembre 2010 e che ha introdotto in primo grado nuovi elementi di valutazione rispetto a quello (unico) sul quale aveva fondato il proprio parere sfavorevole alla sanatoria (dato paesaggisticamente rilevante che infatti non avrebbe trovato conferma nel riscontro in loco e in ordine alla cui inconsistenza si imporrebbe verificazione o c.t.u.).

L’appello ha concluso con le seguenti domande: annullare la sentenza impugnata, restituendo gli atti al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia-Sezione di Brescia; in subordine riformare la sentenza giudicando ammissibile la sanatoria paesaggistica; disporre una verificazione o, se necessaria, una consulenza tecnica; compensare le spese di entrambi i giudizi.

III.- La costituita difesa statale, nell’insistere per il rigetto del gravame come da memoria depositata l’1 marzo 2014, ha in particolare eccepito che anche l’art. 159 del citato T.U. dei beni culturali prevede che i lavori non possano essere iniziati in difetto dell’autorizzazione paesaggistica e l’unica deroga che consente la sanatoria è prevista dall’art. 167 (conformemente l’art. 181) se i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.

L’appellante ha replicato con la memoria dell’11 marzo 2014, in particolare precisando che la questione di causa è se nella fattispecie sia ammessa la sanatoria paesaggistica ratione temporis come da precedenti giurisprudenziali di questa Sezione (Cons. St., Sez. VI, 2 maggio 2007, n. 1917; 21 maggio 2009, n. 3141).

Il comune di Toscolano Maderno non si è costituito in giudizio.

All’udienza del 1 aprile 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.- Sono oggetto di controversia il ritiro in autotutela (ordinanza dirigenziale n. 133/18 novembre 2008) del permesso comunale di costruire (assentito il 6 giugno 2006) a causa del tempestivo annullamento statale (il 20 luglio 2006) della collegata autorizzazione paesaggistica (a suo tempo non impugnata) nonché il susseguente parere negativo di compatibilità paesaggistica adottato il 23 marzo 2009 dalla locale Soprintendenza sul progetto in variante e a sanatoria presentato dalla odierna appellante e autorizzato dal comune.

Come da esposizione in fatto, di là dalle variegate doglianze ammassate dalla ingegnosa difesa nei diversi profili delle censure, la effettiva questione di causa è se tali lavori, consistiti nella realizzazione di “un nuovo edificio residenziale” in zona paesaggistico-ambientale, siano suscettibili di “sanatoria paesaggistica ratione temporis”.

L’appello è infondato e la sentenza merita conferma con le motivazioni di seguito illustrate.

2.- In linea preliminare deve essere osservato come in appello non sia stata riproposta la domanda di risarcimento danni e che contro la “non lieve condanna al pagamento delle spese processuali” liquidate dalla sentenza impugnata (appello pag. 13) non è stato formulato alcun espresso motivo di lamentela, se non la generica prospettazione virgolettata.

Inoltre, va pure in anteprima rilevato che, nell’impugnazione, tra l’autotutela comunale e la negata compatibilità paesaggistica successiva non sussiste nessun diretto collegamento, se non da un punto di vista meramente storico: infatti, l’autotutela sul permesso di costruire assentito (di cui alla pratica edilizia n. 46/2006) è in conseguenza immediata dall’annullamento statale della connessa autorizzazione paesaggistica; la negata compatibilità paesaggistica gravata è invece in relazione diretta alla diversa e nuova pratica edilizia in variante n. 145/2007, relativa ai lavori eseguiti nonostante l’intervenuto annullamento paesaggistico dell’originario progetto programmato.

Essendo questa la tematica dibattuta ed essendo la causa matura per la decisione, non viene a sussistere dunque alcun valido presupposto per dare corso alla domanda di verificazione o di c.t.u., passando la risoluzione della disputa attraverso altro percorso logico-processuale in virtù dei principi di sinteticità e della ragione più liquida.

3.- Con il primo mezzo di appello viene criticato l’operato dei giudici di prima istanza che, in violazione dell’art. 73, comma terzo, del Codice del processo amministrativo e del principio del contraddittorio, avrebbero rilevato d’ufficio la questione dell’inammissibilità per legge della sanatoria paesaggistica, sollevata dalla difesa statale e asseritamente mai eccepita dalla Soprintendenza.

Questa rimostranza è priva di pregio, sia perché il Tar non ha affatto messo al centro della sua decisione una questione nuova ed assolutamente estranea al giudizio o mai trattata in alcun atto, come invece diversamente provato dalla prospettazione stessa; sia perché l’inammissibilità intesa dai primi giudici è in senso sostanziale e non di pregiudiziale processuale, nei predetti termini trattata in sentenza, eccezione di merito che verrà quindi esaminata a proposito della negata compatibilità paesaggistica.

Inoltre, a ben vedere, la denunzia in discorso andrebbe più esattamente “derubricata” a integrazione postuma da parte della difesa statale del censurato provvedimento negativo della compatibilità da parte della Soprintendenza.

Tanto tuttavia viene a denotare che nella fattispecie si è completamente al di fuori da un rilievo d’ufficio e come tale aspetto, peraltro non oggetto di esplicito reclamo in giudizio, non trovi neppure riscontro nell’impugnato diniego del Soprintendente, il quale nelle sue premesse muove dall’avvenuto annullamento nel 2006 (a suo tempo non gravato) dell’autorizzazione paesaggistica comunale relativa al progetto n. 46/2006, nonostante ciò, eseguito con la realizzazione di superfici e volumi utili in zona paesaggistico-ambientale vincolata.

4.- Destituita di fondamento è altresì la seconda censura, di violazione del giusto processo a causa della tardiva produzione in giudizio della relazione a cura della Soprintendenza e senza dare termine a difesa, anche se è ammesso che “la causa è stata decisa sulla questione pregiudiziale della inammissibilità della sanatoria e a prescindere da tale relazione”.

Sul punto è sufficiente notare, come da precedente di questo Consiglio (Cons. St., Sez. V, 7 febbraio 2012, n. 656), che il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo, quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa, come accade nel caso concreto in cui la difesa privata mira a collegare situazioni paesaggistiche tutt’affatto diverse nell’intento di superare l’incontestabilità dell’annullamento statale della ricordata autorizzazione paesaggistica sul progetto n. 46/2006.

Il principio nazionale ed europeo del giusto processo in rapporto al processo amministrativo, contrariamente a quanto sostenuto dalla società ricorrente, va applicato in senso sostanziale e non formale, nel bilanciamento tra la discrezionalità giudiziaria che esso presuppone ai fini di una effettività della tutela giurisdizionale ed esigenza di sollecita definizione del giudizio.

La parte interessata, infatti, ha solo la facoltà di illustrare al giudice le ragioni che potrebbero giustificare il differimento dell’udienza o la cancellazione della causa dal ruolo, ma la decisione finale in ordine al concreto svolgimento della discussione spetta comunque al giudice, il quale deve verificare l’effettiva opportunità di rinviare l’udienza, giacché solo in presenza di situazioni particolarissime, direttamente incidenti sul diritto di difesa delle parti, il rinvio dell’udienza è per lui doveroso (Cons. St., Sez. V, 22 febbraio 2010, n. 1032).

Nella specie, non è stato minimamente vulnerato nessun principio di parità delle parti o diritto di difesa in quanto, per stessa ammissione, detta relazione non è assurta a presupposto della decisione, e, quindi, non si è verificato alcun difetto di procedura rilevante e, perciò, la società ricorrente non è stata privata del suo giusto (reale) processo, semmai di quello sperato su basi non aderenti a legge.

5.- Le doglianze dalla terza alla sesta critica pongono profili di questione che vanno trattati nel loro insieme in relazione all’atto gravato cui afferiscono e che non meritano altrettanta condivisione nelle loro tesi perché infondate.

Il primo riguarda il dichiarato illegittimo sproporzionato ritiro del titolo edilizio comunale, senza soprassedere nelle more della risoluzione del procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica e in assenza di una valutazione dell’interesse pubblico specifico alla rimozione, dopo ben 18 mesi dall’avvio del procedimento di annullamento del permesso di costruire, messo peraltro in esecuzione dalla società interessata per errore indotto da parte del Tecnico comunale.

Su questi punti, in via assorbente e dirimente, va subito osservato che la sanatoria di cui alla variante edilizia n. 145/2007 implicava la preliminare dichiarazione di illegittimità del titolo originario, altrimenti essa non sarebbe stata praticabile in difetto di tale logico suo presupposto che rileva ai fini normativi e procedimentali.

L’annullamento statale del nulla-osta ambientale su un intervento edilizio programmato (nella specie non impugnato e nonostante ciò realizzato), determina infatti l’obbligo per l’autorità comunale, successivamente alla caducazione dell’atto autorizzatorio e a ripristino dell’interesse pubblico paesaggistico violato (costituzionalmente protetto dall’art. 9 quale valore prioritario e assoluto), di rinnovare l’atto stesso integrandone la motivazione (ove ritenga la perdurante sussistenza dei presupposti di legge per rilasciarlo) o negandolo in via definitiva (ove ravvisi il carattere insuperabile delle ragioni ostative illustrate nel corpo del provvedimento statale di annullamento).

Il diniego paesaggistico sulla variante in sanatoria qui in discussione, scrutinata dalla Soprintendenza non nel merito ma invece sotto l’aspetto della legittimità di compatibilità dell’intervento edilizio eseguito rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo, si limita appunto a mettere in rilievo il suo contrasto con il predetto annullamento e con le norme di tutela paesaggistica.

In diritto è pure da osservare che la valutazione paesaggistica deve essere condotta dal comune in maniera puntuale, mediante descrizione delle opere e del contesto ambientale in specifico riferimento all’area di ubicazione del manufatto ed indicare le specifiche ragioni per le quali esso sia ritenuto compatibile con i valori paesaggistici tutelati dal vincolo.

Né la società appellante può ora venire contro il fatto proprio di non avere a suo tempo impugnato detto annullamento e, pur tuttavia, ugualmente realizzato l’intervento stesso; o contro l’attività a lei favorevole dell’amministrazione comunale che ha soprasseduto nella ricerca di una soluzione tecnica che portasse a superare l’abuso commesso dalla proprietà, la quale non può dirsi ignara e non consapevole perché –a tacer d’altro- operatrice del settore edile; ovvero di avere essa attivato la variante in sanatoria paesaggistica e sulla quale la territoriale Soprintendenza con la cennata relazione depositata tardivamente in primo grado, nella discrezionalità propria a estrema difesa del vincolo paesistico-ambientale, ha manifestato le condizioni per il rilascio dell’autorizzazione a sanatoria al fine di ricondurre a conformità l’edificio (eliminazione di un piano residenziale con tetto a copertura piana).

Sotto quest’ultimo aspetto è pertanto anche adombrabile difetto d’interesse sopravvenuto all’impugnazione della negata autorizzazione sulla predetta variante in sanatoria, spettando ad essa società ricorrente adeguarsi o meno e non pretendere di conservare l’unità abitativa nella situazione di fatto attuale, a nulla rilevando che la quota di impostazione del manufatto rispetto a quella dell’edificio adiacente non sia di metri 3, bensì di mt. 1,33, differenza comunque esistente ed ammessa in atti, di cui non è stata dedotta e provata alcuna conformità rispetto alle relative norme tecniche di attuazione.

6.- Il secondo gruppo di profili da trattare si collega all’affermata suscettibilità di sanatoria in via transitoria dell’autorizzazione paesaggistica denegata (non è chiaro per la verità se il riferimento è al primo diniego non impugnato oppure alla variante annullata ovvero ad entrambi e al ritiro), in relazione alle modifiche apportate agli artt. 159 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 dai successivi d.lgs. n. 157 del 2006 e 63 del 2008 nonché dalla legge n. 129 del 2008.

Le prospettazioni al riguardo formulate dalla società appellante, prima che infondate in diritto, sono da respingere in punto di fatto, atteso che nel caso concreto il progetto assentito il 6 giugno 2006 e rilasciato nell’erroneo presupposto del tardivo annullamento statale dell’autorizzazione paesaggistica (la quale costituisce atto autonomo e presupposto del permesso di costruire) in realtà era stata tempestivamente annullata dalla Soprintendenza il 20 luglio 2006.

Gli artt. 16 (Autorizzazione) e 26 (Procedimento di autorizzazione in via transitoria) del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 27 aprile 2006, n. 97, S.O.), hanno sostituito integralmente i rispettivi artt. 146 e 159 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42: questo sostituito ultimo articolo lega la durata del regime transitorio ad un termine certo (quello individuato dall’art. 156, primo comma, in tema di verifica e adeguamento dei piani paesistici entro l’1 maggio 2008) e dispone espressamente (6° comma) che anche nel periodo transitorio si applica l’art. 146, comma 12 (secondo cui “L’autorizzazione paesaggistica, fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”).

La fattispecie in esame si è dunque consumata ed esaurita in piena vigenza dei sostituiti artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42 del 2004 e si ricorda che la prima autorizzazione paesaggistica annullata dalla Soprintendenza non è stata fatta oggetto di gravame, per cui essa si è consolidata e dalla stessa non si può prescindere nell’odierno versante processuale.

Conseguentemente non sono influenti, tanto il d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), quanto la legge 2 agosto 2008, n. 129 (di conversione del decreto-legge 3 giugno 2008, n. 97), il cui art. 4-quinquies ha sostituito il comma 8 dell’art. 159 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (“Sono fatti salvi gli atti, anche endoprocedimentali, ed i provvedimenti adottati dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63, fino alla data di entrata in vigore della presente disposizione, in applicazione dell’ articolo 159 del presente codice, nel testo vigente anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63”), dato che il procedimento dell’autorizzazione paesaggistica di cui alla pratica edilizia n. 46/2006 si era concluso con l’annullamento non opposto della relativa autorizzazione.

Peraltro, relativamente alla autorizzazione paesaggistica inerente alla variante edilizia n. 145/2007 annullata dalla Soprintendenza con l’impugnato decreto del 23 agosto 2009 in esame, è appena il caso di notare l’inconciliabilità della deduzione che “il divieto di sanatoria ha ripreso a decorrere con la legge n. 129/08 e soltanto dalla sua entrata in vigore nell’agosto 2008” (memoria pag. 2), alla luce del costante orientamento di questo Consiglio secondo cui, in relazione al rapporto tra istanza di sanatoria edilizia ed autorizzazione paesaggistica, a prescindere dal momento dell’introduzione del vincolo, ciò che rileva è la data di valutazione della domanda di sanatoria e non quella di costruzione dell’immobile, essendo irrilevante che il vincolo paesaggistico sia sopravvenuto rispetto alla commissione dell’abuso e alla data di presentazione della domanda di sanatoria.

Non conferenti sono infine i richiamati precedenti di questa Sezione (VI, 2 maggio 2007, n. 1917, e 21 maggio 2009, n. 3140 e non 3141), che si riferiscono ad autorizzazioni in sanatoria rilasciate nel testo originario sotto la vigenza dell’art. 159 del nuovo Codice dei beni culturali di cui al d.lgs. n. 42 del 2004 e prima delle modifiche introdotte nel 2006 dal d.lgs. n. 157 (seguite dalle successive innovazioni già citate), che hanno previsto una tutela crescente e più rigorosa della disciplina paesaggistica.

7.- . Le considerazioni che precedono hanno illustrato con ampiezza come il comune e la Soprintendenza abbiano correttamente operato nella specifica vicenda, senza eccedere e senza alcun travisamento dei fatti sottesi, ragione per la quale può ritenersi che i profili principali di infondatezza riscontrati siano sufficienti a sorreggere il rigetto dell’appello in esame.

Invero, il principio di sinteticità che deve permeare la redazione degli atti del giudice (art. 3 codice del processo amministrativo), al pari di quelli delle parti, non implica la necessità di una motivazione che, in modo meccanico e pedissequo, assuma partitamente a riferimento ogni singolo profilo argomentativo della parte.

L’appello deve essere dunque respinto siccome infondato e la sentenza va confermata per le argomentazioni innanzi sviluppate.

Le spese di lite relative al grado seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto (ricorso numero: 1803 del 2011), respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata come da motivazione.

Condanna la società appellante al pagamento delle spese di lite relative al grado che si liquidano nella misura complessiva di € 2.500,00 (euro duemilacinquecento/oo) a favore della difesa statale.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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