Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione V

sentenza 31 dicembre 2014, n. 6449

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO

IN SEDE GIURISDIZIONALE

SEZIONE QUINTA

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6375 del 2013, proposto da:

SA.BA. S.N.C. DI CO.MA., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Ma.Po., con domicilio eletto presso il suo studio in (…);

contro

ROMA CAPITALE, in persona del Sindaco pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’avv. Ro.Ro. e dall’avv. Al.Ri., entrambi dell’Avvocatura di Roma Capitale, con elezione di domicilio presso l’Avvocatura medesima in (…);

nei confronti di

As.Co. e As.Pi., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’avv. Ma.Lo., con domicilio eletto presso il suo studio in (…);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Roma, Sez. II-ter n. 5150 dd. 22 maggio 2013, resa tra le parti e concernente disdetta concessione demaniale permanente di occupazione di spazio pubblico rilasciata per il locale sito in (…);

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale, dell’As.Co. e dell’As.Pi.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 luglio 2014 il Cons. Fulvio Rocco e uditi per l’appellante Sa.Ba. S.n.c. l’avv. An.Ma. su delega dell’avv. Ma.Po., per Roma Capitale l’avv. Ro.Ro. e per l’As.Co. e l’As.Pi. l’avv. Ma.Lo.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.1. L’attuale appellante, Sa.Ba. S.n.c.. di Ma.Co., espone di essere titolare dell’esercizio di ristorazione denominato “Da.Fi.”, sito in Roma, (…) n. (…).

La Società precisa di essere munita sin dal (…) di concessione permanente di occupazione di suolo pubblico per un’estensione di mq 30,25.

Con provvedimento emesso in data 1 giugno 2012 da Roma Capitale – Municipio Roma Centro Storico è stata disposta la disdetta della concessione demaniale permanente di occupazione di spazio pubblico per l’anzidetta area, comunicando in tal senso, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 10 della deliberazione del Consiglio Comunale n. 75/2010 che l’amministrazione non intendeva rinnovare, alla scadenza del 31 dicembre 2012, l’anzidetta concessione demaniale permanente rilasciata con Ord. P.C.C. n. 1006 del (…) per mq 30.25 al servizio de locale sito in (…) n. (…).

1.2. Con ricorso proposto innanzi al T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, sub R.G. 7145 del 2012 Sa.Ba. ha pertanto chiesto l’annullamento di tale provvedimento, estendendo la relativa impugnazione anche ai suoi atti presupposti e conseguenti, ivi segnatamente comprese le deliberazioni del Consiglio del Municipio di Roma – Centro Storico n. 6 del 25 febbraio 2010, n. 2 del 31 gennaio 2011 e n. 28 del 14 ottobre 2011.

L’appellante ha dedotto in tale primo grado di giudizio le seguenti censure.

I) Violazione di legge (artt. 7 e 8 della L. 7 agosto 1990 n. 241).

Secondo Sa.Ba., il provvedimento di disdetta, dovendosi considerare sostanziale revoca dell’originaria concessione, avrebbe dovuto essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.

II) Violazione di legge (art. 3 della L. 241 del 1990), eccesso di potere per carenza dei presupposti, difetto di istruttoria, di ragionevolezza, contraddittorietà e motivazione incongrua.

Sempre secondo Sa.Ba., il provvedimento di disdetta avrebbe dovuto contenere le ragioni di fatto ed i motivi di diritto che hanno determinato la decisione dell’amministrazione comunale, non potendo essere sufficiente il semplice richiamo della deliberazione del Consiglio Municipale n. 28 del 2011 con cui è stato approvato il Piano di massima occupabilità (P.M.O.) per (…).

III) Violazione di legge (art. 117 Cost., commi 4 e 6; art. 7, lett. b), L.R. 29 novembre 2006 n. 21; Regolamento Regionale di cui alla deliberazione del Consiglio Regionale n. 1 dd. 19 gennaio 2009); incompetenza.

Sa.Ba. afferma che le deliberazioni del Consiglio Municipale di Roma – Centro torico n. 1 del 2009, 6 del 2010, 2 del 2011 e 28 del 2011 si configurerebbero quali provvedimenti di natura regolamentare per la tutela e la disciplina del territorio del Municipio I in tema di occupazione di spazio pubblico, e che – nondimeno – esse sarebbero illegittime per difetto dei presupposti e delle condizioni di legge, in quanto di competenza del Consiglio Comunale, ad esso delegata dalla Regione Lazio.

IV) Violazione di legge (art. 4 bis della deliberazione del Consiglio Comunale n. 83 dd. 5 agosto 2010 che ha modificato e sostituito l’art. 4 bis della deliberazione del medesimo Consiglio Comunale. n. 75 dd. 30-31 luglio 2010 e l’art. 4 bis della deliberazione dello stesso Consiglio Comunale. n. 119 dd. 30 maggio 2005; art. 55, comma 6, della deliberazione del Consiglio Comunale n. 10 d. 8 febbraio 1999; eccesso di potere per difetto di presupposti, vizi del procedimento, eccesso di delega.

Sa.Ba. rileva che i piani di massima occupabilità inciderebbero illegittimamente anche sulle concessioni di occupazione di spazio pubblico preesistenti e tuttora vigenti, e afferma che i criteri per la redazione dei piani sarebbero illegittimi perché non determinati, non posti e non approvati da alcuna deliberazione municipale, ma individuati dalla Commissione Tecnica istituita senza l’indicazione di precisi e concreti parametri tecnici.

V) Violazione di legge (art. 1, comma 1, lettere i) n) o) p) della L.R. Lazio n. 21 del 2006 e Regolamento regionale n. 1 del 19.1.2009).

Secondo Sa.Ba. il Consiglio Municipale, segnatamente con le sue deliberazioni n. 2 del 2011 e n. 28 del 2011, non solo avrebbe avocato a sé competenze rimesse al Consiglio Comunale dalla Regione, quale organo deputato a legiferare in materia di commercio ex art. 117 Cost., ma avrebbe anche disatteso i principi del regolamento che impongono in particolare la salvaguardia dei livelli occupazionali e la continuità imprenditoriale degli esercizi di somministrazione già esistenti ed operanti nel centro storico.

VI) Violazione di legge (artt. 3 e 97 Cost.: principi di eguaglianza, buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa; art. 1 della L. 241 del 1990: efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa; violazione e falsa applicazione della deliberazione del Consiglio Comunale n. 83 del 2010); eccesso di potere per violazione del principio di ragionevolezza, difetto di istruttoria, disparità di trattamento, sviamento, arbitrarietà del procedimento, violazione del legittimo affidamento e manifesta ingiustizia.

Sa.Ba. sostiene che l’adozione di criteri univoci per la totalità delle strade e delle realtà presenti nel Centro Storico di Roma ed interessate dai Piani di massima occupabilità (P.M.O.) significherebbe livellare, in senso negativo ed arbitrario nella sua oggettiva uniformità, l’attività della totalità degli operatori del commercio del Centro Storico.

Inoltre, la deliberazione n. 2 del 2011 inciderebbe esclusivamente su di una sola categoria commerciale, quella della somministrazione di alimenti e bevande; né sarebbe prevista dallo Statuto di Roma Capitale la possibilità da parte del Consiglio Municipale di assegnare l’istruttoria ad una Commissione Tecnica e – ancor meno – di recepire in modo passivo l’esito di tale istruttoria.

VII) Violazione degli artt. 3 e 97 Cost. (buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa); violazione dell’art. 49 del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267.

Sa.Ba. rileva che nelle deliberazioni sottese alla disdetta impugnata non si ravviserebbe uno studio approfondito sull’impegno di spesa o la diminuzione di entrate; inoltre, mancherebbe il necessario parere del Ragioniere Generale sulla “regolarità contabile” delle deliberazioni medesime.

VII) Illegittimità dei criteri adottati dalla Commissione tecnica per violazione di legge (art. 20 del D.L.vo 30 aprile 1992 n. 285), per eccesso di potere per illogicità, vizi del procedimento istruttorio e difetto di motivazione.

Secondo Sa.Ba. le deliberazioni del Consiglio Municipale n. 2 del 2011 e n. 28 del 2011 sarebbero illegittime perché approvano gli elaborati grafici predisposti in base a criteri individuati dalla Commissione tecnica liberamente e senza la preventiva determinazione dell’amministrazione comunale; inoltre, il Municipio I, prevedendo nella formulazione dei criteri per l’occupazione una distanza minima per il passaggio di pedoni di 2 metri sia filo fabbricato che filo marciapiede, avrebbe violato l’art. 20 del D.L.vo 285 del 1992 che disciplina l’occupazione di spazi pubblici in mancanza di marciapiede.

Sa.Ba. rileva – altresì – che il Consiglio Municipale imporrebbe l’osservanza di distanze libere sia per il transito veicolare, sia per quello pedonale nelle strade a doppio senso di marcia, maggiori rispetto a quelle previste dal Codice della Strada e dalla deliberazione del Consiglio Comunale n. 119 del 2005, astenendosi da una congrua motivazione al riguardo.

2.3. A seguito del deposito di documentazione da parte di Roma Capitale nel giudizio di primo grado, Sa.Ba. ha proposto innanzi al T.A.R. anche i motivi aggiunti di ricorso qui appresso descritti.

IX) Sulla scheda riepilogativa dei criteri per la redazione dei PMO nel territorio del Municipio di Roma Centro Storico approvata nella riunione della Commissione tecnica dd. 9 novembre 2010: violazione di legge ed eccesso di potere.

Sa.Ba. afferma che nei suoi confronti risulterebbe prevista unicamente la superficie di suolo pubblico di mq 7 concedibile in (…), civico (…), sebbene il locale sia ubicato in isola pedonale, e che pertanto i singoli criteri tecnici disposti dal Municipio sarebbero illegittimi in riferimento a specifiche e determinate ipotesi.

X) Sulla scheda di piano relativa a (…) approvata nelle riunioni della Commissione tecnica del 19 maggio 2011 e del 21 luglio 2011, nonché sui verbali delle riunioni della Commissione tecnica del 9.novembre 2010, del 19 maggio2011 e del 21 luglio 2011; violazione di legge ed eccesso di potere.

Sa.Ba. afferma che la scheda tecnica, all’altezza del numero civico del proprio esercizio, non sarebbe rappresentativa dei criteri approvati ed applicati dalla Commissione tecnica.

I componenti della Commissione, dopo un esame degli stessi, avrebbero inoltre approvato gli elaborati grafici senza richiedere e tenere conto delle indicazioni delle associazioni di categoria dei ristoratori romani e del centro storico della città, così come previsto dalle deliberazioni del Consiglio del I Municipio n. 1 del 2008 e n. 2 del 2011.

2.4. Si è costituita in tale primo grado di giudizio Roma Capitale, concludendo per la reiezione del ricorso.

2.5. Hanno inoltre dispiegato intervento in giudizio ad opponendum le Associazioni “Co.De.” e “Pi.Na.”, parimenti concludendo per la reiezione del ricorso.

2.6. Con sentenza n. 5150 dd. 22 maggio 2013 la Sez. II-ter dell’adito T.A.R. ha respinto il ricorso, condannando Sa.Ba. al pagamento delle spese del giudizio nei riguardi di Roma Capitale, liquidandole nella complessiva misura di Euro 2.000,00.- (duemila/00), nel mentre ha compensato ogni ragione di lite tra la medesima Sa.Ba. e le associazioni intervenienti.

3.1. Con l’appello in epigrafe Sa.Ba. chiede ora la riforma di tale sentenza.

L’appellante deduce al riguardo i seguenti motivi.

1) Sul primo e secondo motivo di ricorso e sul primo motivo aggiunto; sulla qualificazione normativa della disdetta: violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 7 e 8 della L. 241 del 1990 e dell’art. 20 del D.L.vo 285 del 1992; eccesso di potere per difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, di ragionevolezza, contraddittorietà e motivazione incongrua.

2) Sul terzo, quarto e quinto motivo di ricorso: violazione e falsa applicazione degli artt. 117, commi 4 e 6, Cost.; art. 7, lett. b), della L.R. 21 del 2006 e in particolare dell’art. 1, comma 1, lett. i), n), o) e p) del Regolamento Regionale di cui alla deliberazione del Consiglio Regionale n. 1 dd. 19 gennaio 2009, dell’art. 4-bis della deliberazione del Consiglio Comunale n. 119 del 2005 e succ. modd. e dell’art. 55, comma 6, della deliberazione del Consiglio Comunale n. 10 del 1999, nonchè sull’incompetenza a provvedere da parte del Consiglio Municipale.

3) Sul sesto motivo di ricorso: violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 97 Cost.; degli artt. 1 e 3 della L. 241 del 1990; della deliberazione del Consiglio Comunale n. 83 del 2010, nonché sull’eccesso di potere per violazione del principio di ragionevolezza, difetto di istruttoria, disparità di trattamento, sviamento, arbitrarietà del procedimento, violazione del legittimo affidamento e manifesta ingiustizia.

4) Sul settimo motivo di ricorso: violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 97 Cost.; violazione e falsa applicazione dell’art. 49 del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000.

5) Sull’ottavo motivo di ricorso e su entrambi i motivi aggiunti di ricorso: violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del D.L.vo 285 del 1992; eccesso di potere per illogicità, difetto di istruttoria e di motivazione.

3.2. Si è costituita anche nel presente grado di giudizio Roma Capitale, concludendo per la reiezione dell’appello.

3.3. Si sono parimenti costituite nel presente grado di giudizio l’As.Co. e l’As.Pi., rassegnando analoghe conclusioni.

4. Alla pubblica udienza del 15 luglio 2014 la causa è stata trattenuta per la decisione.

5.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.

5.2. Secondo la prospettazione di fondo dell’appellante, il provvedimento di disdetta della concessione da essa impugnato in primo grado dovrebbe più esattamente configurarsi quale revoca della concessione permanente di occupazione di spazio pubblico in precedenza assentita nei suoi riguardi, con conseguente illegittimità del provvedimento medesimo per omessa comunicazione di avvio del procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990; per difetto di motivazione (art. 3 della L. 241 del 1990); per incompetenza del Municipio in materia di adozione del Piano di massima occupazione (PMO); per eccesso di potere avendo il PMO disciplinato non solo il rilascio delle future concessioni ma anche le concessioni già rilasciate, con violazione della delega di cui all’art. 4-bis della deliberazione del Consiglio Comunale n.75 del 2010; della violazione della L.R. 21 del 2006 in materia di salvaguardia delle imprese nel settore della somministrazione; della violazione dei princípi costituzionali di eguaglianza, ragionevolezza, buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa; della violazione di legge per l’omessa acquisizione del parere di regolarità contabile del Ragioniere Generale di Roma Capitale; dell’illegittimità dei criteri adottati dalla Commissione Tecnica.

Ciò posto, va evidenziato che l’art. 9 della deliberazione del Consiglio Comunale n. 75 del 30-31 luglio 2010 dispone – per quanto qui segnatamente interessa – nel senso che “per sopravvenute ragioni di pubblico interesse e in qualsiasi momento la concessione (per l’occupazione di suolo pubblico) può essere … revocata, con provvedimento motivato, nel rispetto delle norme generali dell’azione amministrativa stabilite dalla legge … L’avvio del procedimento di revoca è comunicato al concessionario ai sensi degli artt. 7 e 8 della L. 7 agosto 1990 n. 241. Il provvedimento di revoca è notificato secondo le procedure di legge, con l’indicazione dell’autorità cui è possibile ricorrere e del termine per la presentazione del ricorso”.

Il susseguente art. 10 dispone invece, sempre per quanto qui segnatamente interessa, che “le concessioni permanenti possono essere rinnovate con il pagamento del canone per l’anno di riferimento, a condizione che non risultino variazioni e l’Amministrazione non abbia comunicato il proprio diverso intendimento almeno trenta giorni prima della scadenza”.

Dalla lettura dei surriportati due articoli del vigente regolamento comunale in materia di occupazione di suolo pubblico risulta pertanto l’esistenza nel “sistema” del regolamento medesimo di due istituti che, in aggiunta a quello della decadenza del concessionario per inosservanza di suoi obblighi (cfr. ivi l’art. 8), consentono all’amministrazione concedente di rimuovere ex nunc gli effetti del rapporto di concessione durante la sua vigenza mediante – per l’appunto – la revoca della concessione medesima, oppure di non rinnovare quest’ultima alla sua scadenza mediante inoltro di apposito avviso di disdetta al concessionario.

La revoca presuppone, nella necessaria coerenza dell’istituto con quello di carattere generale disciplinato dall’art. 21-quinquies della L. 241 del 1990, la sopravvenienza di specifiche ragioni di pubblico interesse che non consentono la prosecuzione del rapporto in essere e che richiedono una puntuale motivazione in tal senso da parte dell’amministrazione concedente, nonché la formale apertura di un procedimento amministrativo a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990, con ogni conseguente garanzia per il destinatario di tale azione amministrativa.

L’istituto della disdetta di cui all’anzidetto art. 10 del regolamento si conforma – per contro – a un modello civilistico, proprio della c.d. “concessione – contratto”, e si fonda su di una dichiarazione dell’amministrazione concedente che, almeno trenta giorni dalla scadenza della concessione, notifica al concessionario la propria volontà di non rinnovare il rapporto in essere, con la conseguenza che la dichiarazione medesima toglie effetto alla rinnovazione tacita della concessione ottenuta dal concessionario mediante la prosecuzione nel pagamento del canone.

Anche sotto l’immediato profilo formale il provvedimento n. 454004 dd. 1 giugno 2012 recapitato a Sa.Ba. quasi otto mesi prima della scadenza del rapporto concessorio, si configura quale disdetta.

Premesso che il concessionario non vanta alcun diritto d’insistenza, né aspettative di sorta al rinnovo del preesistente rapporto concessorio (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2010 n. 725) e che la previsione nella disciplina di rilascio della concessione di scadenze determinate implica ex se la potestà per l’amministrazione concedente di riesaminare la permanenza

dei presupposti per assentire – o meno – il rinnovo del rapporto concessorio medesimo (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 17 febbraio 2010 n. 921), va evidenziato che l’utilizzo della disdetta di stampo civilistico da parte della pubblica amministrazione nell’ambito dei rapporti concessori è ammesso da Cons. Stato, Sez. V, 13 marzo 2000 n. 327, laddove segnatamente si afferma – tra l’altro – che l’atto di disdetta di un rapporto di concessione è un atto paritetico e non provvedimentale in quanto la struttura, la funzione e gli effetti della clausola di disdetta afferente ad una convenzione costitutiva della concessione, volta ad evitare la rinnovazione tacita del rapporto, corrispondono, senza apprezzabili differenze morfologiche, alla fisionomia tipica delle clausole dei comuni contratti di durata, non presentando, quindi, l’atto di disdetta, alcun tratto tipico dei provvedimenti amministrativi. Infatti, la comunicazione della volontà di non proseguire il rapporto non è affatto caratterizzata dalla valutazione necessaria dell’interesse pubblico, ben potendo essere determinata, in concreto, da altre ragioni, non rappresentando, quindi, l’interesse pubblico il presupposto della disdetta, ma, semplicemente, uno dei motivi, della determinazione assunta dal concedente. La disdetta è riferita alla normale scadenza del rapporto, allo scopo di impedire la rinnovazione tacita del servizio svolto dal precedente gestore, inserendosi nel fisiologico sviluppo paritetico del rapporto, indipendentemente dalle ragioni addotte dall’amministrazione (cfr. ivi).

Nello stesso senso, sulla distinzione tra revoca e disdetta e sulla possibilità per la pubblica amministrazione di utilizzare quest’ultima in luogo della prima si è espressa anche la Corte di Cassazione, SS.UU., 11 maggio 1998 n. 4749.

Ciò posto, non può nella specie che ribadirsi la natura vincolata della disdetta, che deve ineluttabilmente seguire l’esercizio della discrezionalità amministrativa e tecnica che caratterizza la deliberazione del consiglio municipale n.28 del 31 gennaio 2011, con la quale è stata approvata la scheda di dettaglio del piano di massima occupabilità (P.M.O.) di (…), nonché la deliberazione del consiglio comunale di Roma n. 2 del 2011 che al punto 2 del suo dispositivo stabilisce che “…le eventuali o.s.p. già concesse fino alla data di approvazione dei Piani di Massima Occupabilità si intendono concesse fino alla loro naturale scadenza da considerarsi dalla data di comunicazione del rilascio della o.s.p., fatta salva la possibilità di rinnovo, ed eventuale applicazione degli istituti della disdetta e della decadenza”.

Se così è, non può comunque essere accolta la censura di omesso inoltro dell’avvio del procedimento di cui all’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990, posto che l’amministrazione non poteva che adottare un atto del contenuto qui riferito, dovendosi inderogabilmente attenere al rispetto delle prescrizioni contenute nel P.M.O.

Risulta, infatti, palese, come richiede l’art. 21 octies della L. 241 del 1990, e senza necessità di ulteriore dimostrazione, che nella fattispecie non poteva che essere adottato un atto di disdetta del contenuto in concreto posto in essere, poiché altrimenti sarebbero state eluse le prescrizioni adottate dall’amministrazione municipale in sede di pianificazione delle aree concedibili in occupazione.

5.3. Va parimenti respinta la censura dedotta dall’appellante in ordine alla carenza di motivazione dell’atto impugnato: e ciò in quanto, non essendosi in presenza di un atto di revoca, non era necessaria una motivazione puntuale ma, al contrario, risulta più che sufficiente, nel caso di specie, l’anzidetto riferimento alla formulazione delle prescrizioni contenute nella scheda tecnica del P.M.O. riguardante (…), nella quale è situato l’esercizio commerciale dell’appellante.

5.4. Né è ravvisabile una “violazione dell’affidamento” per essere stato concluso nel passato un protocollo d’intesa tra l’amministrazione comunale e le associazioni degli operatori di settore del 6 aprile 2006, in quanto proprio la delibera del Consiglio Municipale n. 6 del 2010, ha previsto, tra l’altro, “di incaricare a tal fine l’U.O.T., nella persona del suo dirigente, di produrre entro un anno dall’approvazione della delibera le planimetrie in scala 1/500, riguardanti lo stato delle occupazioni di suolo pubblico nelle aree di cui al punto 3), per deliberare nelle commissioni competenti e quindi in consiglio i relativi piani, tenendo conto delle indicazioni provenienti da apposita commissione tecnica che verrà istituita con atto del direttore e che si avvarrà della collaborazione della polizia municipale, della U.O. amministrativa, della sovrintendenza e degli altri uffici interessati al rilascio delle o.s.p., e tenendo conto delle indicazioni che perverranno dalle competenti commissioni consiliari, da parte delle associazioni dei cittadini residenti e delle associazioni di categoria”.

Risulta inoltre con ogni evidenza che non può comunque essere sostenuta la fondatezza della censura di violazione dell’affidamento qualora si consideri la naturale recessione della posizione di questi rispetto all’intera ridefinizione dei parametri di massima occupabilità per il centro storico di Roma, il cui riferimento è ben rimarcato nella disdetta impugnata.

5.5. L’appellante ha inoltre riferito dell’esistenza di un parere reso in materia dal Consiglio di Stato in sede consultiva (cfr. Sez. I, n. 4644 del 2011 in data 15 dicembre 2011, n. affare 601/2010 e in adunanza del 16 novembre 2011 in senso difforme a quanto sin qui evidenziato.

Tale aspetto è già stato affrontato da questa stessa Sezione con sentenza n. 893 del 25 febbraio 2014, laddove si afferma al riguardo che ci si deve discostare dal contenuto di tale parere, “data la peculiarità della fattispecie trattata in quella sede”: e ciò in quanto il parere stesso è stato reso sulla scorta dell’analisi di differenti atti presupposti, non essendo esso incentrato sulla delibere predette deliberazioni del Consiglio Municipale nn. 2 e 28 del 2011 che attengono a (…), ma attengono all’impugnazione di provvedimenti emanati precedentemente ad esse.

5.7. Neppure possono essere accolti i motivi d’appello con i quali è stata dedotta la violazione dell’art. 1, comma 1, lettere i), n), o) e p) della L.R. 21 del 2006 e del regolamento regionale n. 1 del 19 gennaio 2009, nonché eccesso di potere per difetto di presupposto, vizi del procedimento, eccesso di delega.

L’appellante, in buona sostanza, sostiene che la disciplina dell’occupazione di suolo pubblico riguarderebbe la competenza dei soli Comuni, ma non anche dei loro Municipi e – tantomeno – delle loro commissioni tecniche.

Va a questo riguardo precisato che – a ben vedere – tali censure non attengono al potere dei Municipi di adottare i piani di massima occupazione, ma alla sola possibilità che attraverso tali piani possano essere introdotte ed individuate dai Municipi medesimi altre aree in cui sia vietata la concessione di occupazioni di suolo pubblico.

Ciò posto, la Sezione è dell’avviso che il T.A.R. abbia correttamente evidenziato il rapporto intercorrente tra la disposizione di cui all’art. 2, comma 2, della delibera consiliare n. 119 del 2005 recante l’approvazione del regolamento Cosap e in forza della quale “la Giunta Comunale individua con deliberazione le aree che non possono costituire oggetto di concessione” e quella di cui all’articolo 4 bis, comma 4, secondo cui “… i Municipi possono subordinare il rilascio di concessione di suolo pubblico alle prescrizioni di appositi piani che individuino la massima occupabilità delle aree di rispettive competenza. Tali piani sono approvati dal consiglio del Municipio”.

Il T.A.R. ha evidenziato al riguardo, con motivazione approfondita e convincente che, mentre spetta solo alla Giunta Comunale stabilire le aree della città che non possono costituire oggetto di concessione, il potere attribuito ai singoli Municipi di individuare la massima occupabilità delle aree rientranti nella propria circoscrizione territoriale non elide affatto la possibilità di escludere dalla concessione di suolo pubblico permanente specifiche zone: e infatti, anche a voler prescindere dalla mancanza di un apposito divieto espresso o anche di un limite intrinseco in tal senso desumibile dalle anzidette norme regolamentari, risulta del tutto logico e ragionevole ammettere – come già evidenziato dallo stesso T.A.R. – che nella concreta individuazione della massima occupabilità delle aree rientranti nella loro circoscrizione (e nella conseguente disciplina di tale occupabilità attraverso l’adozione dei piani di massima occupabilità) i singoli Municipi, in dipendenza della specifica situazione di fatto esistente e per altrettanti specifici e motivati interessi pubblici, possano escludere dalle concessioni alcune aree, diverse ed ulteriori da quelle individuate dalla Giunta Comunale.

E, del resto, mentre la scelta in tal senso operata da quest’ultima trova la propria giustificazione nell’interesse pubblico di carattere generale, ossia inerente all’intero territorio urbano, quella operata dai singoli Municipi può – e deve- fondarsi nelle esigenze, anch’esse pubbliche e generali, ma limitate all’ambito territoriale dei Municipi medesimi.

Va anche rilevato al riguardo che con deliberazione n. 10 del 18 gennaio – 8 febbraio 1999 il Consiglio Comunale di Roma ha approvato il “Regolamento del decentramento amministrativo”, recante la disciplina dell’organizzazione e delle funzioni delle Circoscrizioni, poi divenute Municipi per effetto della deliberazione consiliare n. 22 dd. 19 gennaio 2001..

A’ sensi dell’art. 26 dello Statuto di Roma Capitale, i Municipi “esercitano le funzioni” loro attribuite dalla legge, dallo statuto medesimo o dal regolamento del decentramento, nonché le ulteriori funzioni loro devolute con deliberazione dell’Assemblea capitolina (olim C consiglio Comunale).

In tal senso, quindi, l’organo consiliare di Roma Capitale delega proprie funzioni al Municipio, e ciò nell’applicazione dei princípi fondamentali del decentramento e della sussidiarietà.

Consegue dunque da ciò che la delega dal Comune al Municipio della competenza amministrativa della materia in questione è stata del tutto legittimamente disposta mediante una norma regolamentare adottata dall’organo consiliare, ossia l’anzidetto art. 4-bis, comma 4, del Regolamento comunale in materia di occupazione di suolo pubblico.

5.6. L’appellante, peraltro, sostiene pure che, ove anche si riconoscesse la legittimità della delega anzidetta conferita ai Municipi, nondimeno sarebbe ravvisabile un eccesso di delega al riguardo, nonché eccesso di potere dello stesso Municipio I per i criteri adottati, nonché per la formazione ed istituzione della Commissione tecnica municipale: e ciò sulla base di quanto previsto dall’art. 4 bis delle deliberazioni del Consiglio Comunale n. 119 del 2006, n. 75 del 2010 e n. 83 del 2010.

Anche tale prospettazione dell’appellante non può essere accolta.

L’art. 1 della L.R. 29 novembre 2006 n. 21, indica, quali finalità della disciplina dello svolgimento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande, tra le altre: “ n) il giusto equilibrio tra gli obblighi di tutela dei contesti ambientali, artistici ed architettonici e l’esigenza di occupazione di suolo pubblico per le attività di somministrazione di alimenti e bevande, con particolare riferimento alle piazze e alle vie dei centri storici ed ai centri commerciali naturali, al fine di perpetuare usi e tradizioni locali e salvaguardare l’occupazione; o) la salvaguardia dei locali storici; p) il corretto equilibrio tra la necessità di sviluppo economico ed occupazionale e quella di tutela dei cittadini con particolare riferimento alla riduzione dell’inquinamento acustico”.

L’art. 2, comma 1, del regolamento regionale n. 1 dd. 19 gennaio 2009 dispone, a sua volta, che “i Comuni, nell’adozione degli atti in materia di occupazione di suolo pubblico, tengono conto dei seguenti criteri generali:… d) garanzia dell’equilibrio tra lo svolgimento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande, di seguito denominate attività di somministrazione, e le esigenze di tutela e di promozione degli aspetti storico-artistici nell’ambito dei contesti urbani in cui le suddette attività sono insediate, con particolare riferimento ai centri storici e alle aree relative alla cosiddetta città consolidata”.

La disciplina ora riferita conferisce in tal modo all’amministrazione comunale (e, conseguentemente ai Municipi a ciò eventualmente delegati) un potere di valutazione discrezionale complessa che non può risolversi tout court a vantaggio dello sviluppo economico ed occupazionale, ma necessita di un bilanciamento tra interessi che devono convivere in modo ordinato; e, sotto questo profilo, i criteri contenuti nel P.M.O. non appaiono nella specie viziati da illogicità, contraddittorietà o ingiustizia manifesta.

Con deliberazione del consiglio municipale, infatti, è stato approvato – tra l’altro – l’elaborato predisposto dalla Commissione tecnica preposta alla stesura del piano di massima occupabilità, relativo a (…): e ciò sulla scorta di criteri particolarmente articolati che rassicurano, come correttamente rimarcato dal T.A.R. circa l’avvenuta ponderazione di tutti gli interessi coinvolti.

5.7. Né possono trovare accoglimento le censure dell’appellante circa l’errata, omessa e insufficiente statuizione sui criteri concretamente adottati dal Municipio nella redazione del piano di massima occupabilità per l’area pubblica esterna antistante il locale oggetto della concessione di occupazione di spazio pubblico..

L’appellante, in tal senso, ha dedotto l’erroneità della sentenza impugnata laddove il T.A.R. ha ritenuto priva di fondamento la censura relativa alla asserita illegittimità dei criteri per la redazione dei piani, perché non determinati e non approvati da alcuna deliberazione del Municipio, ma direttamente individuati dalla Commissione tecnica istituita al riguardo senza l’indicazione di precisi e concreti parametri tecnici.

L’appellante, sotto altro profilo, ha pure dedotto l’illogicità di quanto ritenuto dal T.A.R. ,secondo il quale la società interessata “avrebbe dovuto dimostrare la manifesta illogicità degli specifici criteri che non hanno consentito l’assentibilità dell’occupazione del suolo antistante l’esercizio commerciale”.

Il Collegio, per parte propria, rileva che l’individuazione delle aree da ricomprendere nei piani di massima occupabilità e gli stessi criteri in forza dei quali operare tale individuazione costituiscono espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa e, in quanto tali, sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l’ipotesi della manifesta irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà ed illogicità delle scelte e salvo il caso che queste ultime siano determinate da un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti, richiedendosi comunque che le scelte correttamente operate siano suffragate da adeguata motivazione da cui possa ricostruirsi il percorso logico-giuridico che le hanno giustificate (cfr. sul punto, anche recentemente, in ordine ai limiti del sindacato della discrezionalità tecnico-amministrativa, la sentenza di questa Sezione n. 3315 dd. 2 luglio 2014).

Nel caso di specie nessuna di tali evenienze negative si è verificata, non potendosi evidentemente gli anzidetti vizi concretarsi soltanto nelle soggettive e diverse opinioni della società appellante, le quali in realtà si atteggiano come mero dissenso alle diverse determinazioni dell’amministrazione.

I criteri utilizzati dall’amministrazione per l’ individuazione dei predetti piani di massima occupabilità, quali l’esistenza per le singole aree considerate di precedenti richieste di occupazione di suolo pubblico e la vicinanza dell’area considerata con altre zone già sature di attività di somministrazione, ben lungi dal costituire inammissibili restrizioni alla libera attività commerciale ed in generale alla concorrenza, rappresentano ragionevoli e non illogici, né arbitrari elementi di astratta valutazione dei diversi interessi pubblici che devono essere tra di loro ponderati al fine del corretto e adeguato assetto e della loro efficace disciplina, cui è finalizzata la stessa adozione dei piani predetti.

In tal senso, quindi, non è accoglibile la censura di disparità di trattamento tra operatori economici che siano già titolari di concessioni e operatori cui non sarebbe consentito di fruire di tali titoli; nè è seriamente contestabile l’alto pregio storico-culturale dell’area in questione; né va sottaciuto che anche la sola esistenza di un futuro progetto di sistemazione dell’area non costituisce un mero espediente sviato per negare le concessioni di occupazione di spazio pubblico.

Sotto questo profilo, pertanto, legittimamente l’amministrazione ha esercitato il proprio potere di recesso dalle concessioni rilasciate precedentemente all’adozione del piano, avvalendosi della propria facoltà di non rinnovarle.

Il fine perseguito dall’amministrazione comunale risulta quindi del tutto chiaro e consiste nell’adeguare la situazione materiale alle previsioni e prescrizioni dello strumento di piano, le quali rimarrebbero per contro inattuate se fosse impedito di intervenire sulle concessioni di occupazione di suolo pubblico preesistenti; e, se così è, il Municipio è stato vincolato nella propria scelta di disdettare queste ultime, in modo da rendere il nuovo piano applicabile a tutti i potenziali concessionari, ivi compresi quelli nei confronti dei quali sono state emesse le disdette, e ai quali è stato quindi rivolto l’invito a presentare nuove istanze.

In tal modo è stata pertanto assicurata la necessaria parità di trattamento a tutti gli operatori del settore, risultando – semmai – ben evidente che la pretesa dell’appellante si cololca in chiaro contrasto con le stesse caratteristiche di fondo dell’istituto della concessione e con la regolamentazione convenzionale ad esso accessiva.

Anche sotto questo profilo va pertanto ribadito che pur dando la concessione luogo – nella specie – a moduli gestionali di stampo consensuale, questi ultimi devono comunque essere conformi al pubblico interesse al quale le concessioni amministrative rispondono, che il pubblico interesse consiste nell’uso particolare di un bene pubblico se non nel modo e nella misura in cui tale uso sia – per l’appunto – coerente con l’interesse pubblico medesimo; e che in questa chiave si spiega la natura precaria di tale uso, ossia la sua soggezione al potere di disdetta dell’amministrazione concedente.

Quanto poi alla circostanza che i criteri per la redazione dei piani sarebbero stati definiti solo dalla commissione tecnica, è da condividersi quanto evidenziato dal T.A.R., laddove ha ritenuto che l’approvazione dei citati criteri sarebbe avvenuta in re ipsa, mediante l’approvazione da parte del Consiglio municipale della scheda di dettaglio del piano.

5.8. Da ultimo, vanno respinte le censure di difetto di motivazione della sentenza in ordine all’asserita violazione dell’art. 97 Cost., nonché dell’art. 49del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267, dedotta dall’appellante laddove sostiene l’illegittimità della disdetta e dei piani di occupazione in quanto sulla stessa non sarebbe stato chiesto il parere del Ragioniere Generale del Comune ancorchè la disdetta e piani medesimi inciderebbero comunque sulle entrate comunali.

Al riguardo va evidenziato che il giudice di primo grado ha affermato – in via del tutto condivisibile – che l’amministrazione comunale è chiamata ad una valutazione discrezionale complessa, la quale non può risolversi tout court a vantaggio dello sviluppo economico ed occupazionale, ma necessita di un bilanciamento tra interessi che devono integrarsi tra loro in modo ordinato, e che in tale contesto non assumono rilevanza primaria eventuali perdite occupazionali o mancate entrate di natura tributaria conseguenti alla decadenza di concessioni di occupazione di spazio pubblico nel centro storico, prevalendo – su qualsiasi altro interesse – l’interesse pubblico alla salvaguardia dei luoghi storici e artistici della Città.

Inoltre, lo stesso giudice di primo grado ha altrettanto fondatamente evidenziato che – a ben vedere – neppure sussiste alcuna legittimazione dell’attuale appellante in ordine alla proposizione di tale censura e, in particolare, sull’asserita mancanza di uno studio sull’impegno di spesa o la diminuzione di entrate, nonché sull’assenza del parere del Ragioniere Generale circa la “regolarità contabile” del provvedimento impugnato in primo grado.

Va anche soggiunto che i pareri previsti dal testo unico degli enti locali (ivi compreso quello di regolarità contabile di cui all’art. 49 del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000 non costituiscono requisito di legittimità delle deliberazioni alle quali si riferiscono “in quanto preordinati all’individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile” (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 26 settembre 2013 n. 4766; Sez. IV, 22 giugno 2006, n. 3888; 23 aprile 1998 n. 670) e che – comunque – rientra nella potestà decisionale della Giunta e del Consiglio Comunale la possibilità di disattendere i pareri medesimi quand’anche acquisiti: il che dà luogo – al più – a mere irregolarità, a fronte delle quali non è configurabile nei destinatari alcuna posizione di interesse legittimo tutelabile in sede giurisdizionale.

6. Le spese e gli onorari del presente grado di giudizio seguono la regola della soccombenza, e sono liquidati nel dispositivo, per quanto attiene al rapporto processuale instauratosi tra l’appellante e Roma Capitale, nel mentre va compensata ogni ragione di lite tra l’appellante medesima e l’As.Co., nonché con l’As.Pi..

Va – altresì – dichiarata irripetibile la somma corrisposta nel presente grado di giudizio a titolo di contributo unificato, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 9 e ss. del T.U. approvato con D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante Sa.Ba. S.n.c. al pagamento delle spese e degli onorari del presente

grado di giudizio a favore di Roma Capitale, complessivamente liquidati nella misura di Euro 3.000,00.- (tremila/00) oltre ad I.V.A. e C.P.A

Compensa ogni ragione di lite tra l’appellante medesima e l’As.Co., nonché con l’As.Pi..

Dichiara – altresì – irripetibile la somma corrisposta nel presente grado di giudizio a titolo di contributo unificato, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 9 e ss. del T.U. approvato con D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 luglio 2014 con l’intervento dei magistrati:

Alessandro Pajno – Presidente

Fulvio Rocco – Consigliere, Estensore

Nicola Gaviano – Consigliere

Fabio Franconiero – Consigliere

Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere

Depositata in Segreteria il 31 dicembre 2014.

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