Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 11 luglio 2017, n. 3409

Il soggetto interveniente ad adiuvandum nel giudizio di primo grado non è legittimato a proporre appello in via principale e autonoma, salvo che non abbia un proprio interesse direttamente riferibile alla sua posizione, come nel caso in cui sia stata negata la legittimazione all’intervento o sia stata emessa nei suoi confronti la condanna alle spese giudiziali.

Consiglio di Stato

sezione V

sentenza 11 luglio 2017, n. 3409

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Quinta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2635 del 2008, proposto da:

Al. Ma. e altri, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato Ro. Ba., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Li. Ma. in Roma, via (…);

contro

Regione Lazio, in persona del presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ro. Ma. Pr., domiciliata in Roma, via (…);

nei confronti di

Ro. An. e altri, non costituiti in giudizio;

Sb. Gi., Ra. So. non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA, SEZIONE, I TER, n. 2022/2007, resa tra le parti, concernente una delibera di giunta regionale con cui sono stati aboliti gli assegni mensili previsti per i partecipanti corsi professionali di formazione per operatori socio – sanitari

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Regione Lazio;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 6 luglio 2017 il consigliere Fabio Franconiero e uditi per gli appellanti l’avvocato Fo., su dichiarata delega dell’avvocato Ba.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Gli appellanti in epigrafe, frequentanti corsi professionali per il conseguimento della qualifica di operatore socio – sanitario organizzati dalla Regione Lazio nei trienni 1992-1995 e 1993-1996, impugnano la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio – sede di Roma, di rigetto del ricorso per l’annullamento della delibera regionale con cui erano stati aboliti gli assegni mensili per il rimborso delle spese di frequenza di questi corsi a decorrere dall’anno 1994-1995 (delibera consiliare n. 1230 del 7 marzo 1995).

2. Gli appellanti premettono di essere intervenuti nel giudizio promosso da altri soggetti che avevano frequentato i corsi professionali in questione (n. di r.g. del Tribunale amministrativo regionale del Lazio 10811/1995) e contestano la statuizione di rigetto dell’impugnazione, fondata dal Tribunale amministrativo sul presupposto che alla Regione è attribuito il potere di stabilire per ogni piano di formazione professionale annuale “il tipo e la misura degli interventi finanziari ed individuare le somme necessarie per la sua attuazione”, in occasione dell’approvazione di ogni piano annuale delle attività formative degli operatori socio – sanitari, e che in ragione di ciò nessuna aspettativa vantano coloro che hanno beneficiato di queste erogazioni per gli anni precedenti.

3. In particolare, gli appellanti censurano la pronuncia di primo grado innanzitutto perché il Tribunale amministrativo ha dichiarato il ricorso inammissibile (così in dispositivo), malgrado lo stesso giudice di primo grado adito lo abbia esaminato nel merito, ritenendolo infondato.

4. Con riguardo alla statuizione di rigetto nel merito gli appellanti sottolineano in secondo luogo che i bandi di concorso ai quali hanno partecipato prevedevano “le erogazioni per i corsi triennali con i relativi stanziamenti dei fondi sin dall’inizio”. Sulla base di ciò i medesimi appellanti traggono la conseguenza che una volta ammessi ai corsi professionali era sorto a loro favore il diritto a percepire gli assegni mensili per l’intero triennio di durata e che, quindi, la delibera regionale n. 1230 del 7 marzo 1995 impugnata non avrebbe potuto incidere su tale posizione giuridica, ma avrebbe dovuto avere effetto “per i concorsi da bandire in futuro”.

5. Nell’appello si conclude nel senso che la lesione dell’affidamento così maturato comporterebbe una violazione del diritto ad un processo equo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e del diritto di proprietà ai sensi dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla medesima Convenzione. In ragione delle violazioni così prospettate, gli appellanti chiedono che sia rimessa alla Corte costituzionale la questione della legittimità “delle richiamate norme e provvedimenti dell’ordinamento regionale” per contrasto con l’art. 117, comma 1, della Costituzione.

6. Per resistere all’appello si è costituita in giudizio la Regione Lazio.

DIRITTO

1. L’appello è innanzitutto inammissibile, perché proposto dagli intervenienti ad adiuvandum nel giudizio di primo grado, promosso da altri soggetti.

2. La costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato afferma infatti che il soggetto interveniente ad adiuvandum nel giudizio di primo grado non è legittimato a proporre appello in via principale e autonoma, salvo che non abbia un proprio interesse direttamente riferibile alla sua posizione, come nel caso in cui sia stata negata la legittimazione all’intervento o sia stata emessa nei suoi confronti la condanna alle spese giudiziali (cfr. da ultimo: Cons. Stato, IV, 22 febbraio 2016, n. 724; V, 13 febbraio 2017, n. 614; VI, 6 agosto 2013, n. 4121, 12 luglio 2010, n. 4495). Questa regola di origine giurisprudenziale – ora recepita dall’art. 102, comma 2, Cod. proc. amm., secondo cui l’interventore “può proporre appello soltanto se titolare di una posizione giuridica autonoma” – costituisce il corollario del carattere dipendente del suo interesse nel giudizio principale, il quale non gli consente altro che di aderire alle censure formulate dal ricorrente, poiché diversamente opinando l’intervento in giudizio potrebbe costituire uno strumento per l’elusione del termine di decadenza, Cons. Stato, III, 14 dicembre 2016, n. 5268, 26 ottobre 2016, n. 4487; IV, 29 febbraio 2016, n. 853, 29 gennaio 2016, n. 351).

Ebbene, questa evenienza è proprio quella che si verificherebbe nel caso di specie laddove si consentisse agli odierni appellanti, cointeressati rispetto alla delibera di giunta regionale impugnata rispetto agli altri frequentanti i corsi professionali originari ricorrenti in primo grado, di devolvere nel giudizio d’appello la domanda di impugnazione ritualmente proposta da questi ultimi davanti al Tribunale amministrativo e da quest’ultimo respinta.

3. L’appello è peraltro manifestamente infondato nel merito.

4. Con riguardo al primo ordine di censure è sufficiente rilevare che la dichiarazione di inammissibilità del ricorso contenuta nel dispositivo e il contrasto tra questa statuizione e il contenuto della motivazione della sentenza, laddove invece il ricorso risulta esaminato e respinto del merito, non comporta alcun errore di giudizio della pronuncia di primo grado suscettibile di riforma in appello.

Il contrasto in questione si traduce infatti in un errore di carattere materiale, che non impedisce di comprendere le ragioni sostanziali della decisione finale, comunque sfavorevole agi odierni appellanti, e che dunque non è in grado di inficiare quest’ultima. Ne consegue che la dichiarazione di inammissibilità formalmente emessa dal Tribunale amministrativo deve essere interpretata come statuizione di rigetto del ricorso nel merito.

5. Venendo ora ad esaminare le censure di ordine sostanziale contenute nel presente appello, la Sezione reputa condivisibili le puntuali motivazioni che hanno indotto il Tribunale amministrativo a respingere il ricorso di primo grado.

I fondi necessari per assicurare ai frequentanti i corsi professionali di operatore socio – sanitario erano infatti destinati ad essere stanziati in occasione del piano annuale delle attività formative ai sensi della legislazione regionale allora vigente (ex art. 28 della legge regionale 24 giugno 1980, n. 87; Disciplina delle attività di formazione professionale degli operatori socio sanitari non laureati). In questa sede la Regione Lazio era tenuta a formulare le proprie scelte circa l’opportunità di confermare le provvidenze economiche in contestazione nel presente giudizio. Si tratta di una decisione di esclusiva competenza dell’amministrazione e di carattere eminentemente discrezionale, condizionata dalle risorse disponibili.

6. Per contro l’orizzonte temporale triennale, corrispondente alla durata complessiva dei corsi ha rilievo ai fini del conseguimento del titolo professionale. Altra cosa sono invece le risorse stanziate per favorire le iscrizioni ai corsi e sostenere sul piano economico i frequentanti, le quali come poc’anzi rilevato si correlano alle disponibilità del bilancio regionale e alle valutazioni discrezionali circa il relativo impiego per il fine in discussione del presente giudizio.

7. Per queste considerazioni è corretta la conseguenza che il Tribunale amministrativo ha ricavato in ordine all’impossibilità di vantare un’aspettativa giuridicamente qualificata a ricevere l’assegno mensile per il rimborso delle spese di frequenza del corso. In particolare, deve escludersi che l’avere beneficiato dell’assegno per un anno comporti l’acquisto di un diritto di credito per l’intero triennio. Come infatti accennato in precedenza, l’assegnazione di risorse con questa destinazione è demandata alle scelte discrezionali della Regione.

8. Per le medesime considerazioni non è configurabile alcuna violazione del diritto di proprietà ai sensi dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali. Ciò per la dirimente ragione che nessun acquisto di un diritto di credito dell’assegno per l’intera durata triennale del corso è configurabile per il solo fatto di averne beneficiato al momento dell’ammissione al ciclo di formazione.

9. Peraltro, tale asserita violazione della norma convenzionale europea non è stata nemmeno dedotta nel giudizio di primo grado.

In quest’ultimo erano stati articolati due motivi: uno di violazione del procedimento di discussione ed approvazione degli atti di giunta regionale ed uno per carente motivazione della delibera con cui l’assegno mensile per la frequenza del corso professionale è stato abolito in considerazione della posizione dei ricorrenti, iscritti in anni precedenti nei quali avevano ricevuto tale provvidenza.

La censura in esame è quindi nuova ai sensi dell’art. 345, comma 1, cod. proc. civ. (applicabile al momento della proposizione dell’appello; ora, in piena continuità normativa: art. 104, comma 1, cod. proc. amm.).

10. Palesemente infondata è l’ulteriore censura di contrasto della delibera giuntale impugnata con il diritto ad un equo processo sancito dall’art. 6 della citata Convenzione europea. Nel presente contenzioso non è infatti in discussione la durata o le modalità con cui si è svolto un giudizio, ma se è illegittimo un provvedimento amministrativo che ha abolito una provvidenza economica.

11. Peraltro, anche questo motivo avrebbe dovuto essere proposto nel ricorso di primo grado, ma così non è stato.

12. L’appello deve pertanto essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna gli appellanti a rifondere alla Regione Lazio le spese di causa, liquidate in € 3.000,00, oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 luglio 2017 con l’intervento dei magistrati:

Giuseppe Severini – Presidente

Claudio Contessa – Consigliere

Fabio Franconiero – Consigliere, Estensore

Raffaele Prosperi – Consigliere

Valerio Perotti – Consigliere

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