La fattispecie di cui all’art. 42, comma 2 del d.lgs. n. 50 del 2016 si riferisce al conflitto di interesse al solo “personale” della stazione appaltante

Consiglio di Stato, sezione quinta, Sentenza 5 giugno 2018, n. 3401.

Le massime estrapolate:

La fattispecie di cui all’art. 42, comma 2 del d.lgs. n. 50 del 2016 si riferisce al conflitto di interesse al solo “personale” della stazione appaltante, espressione che – per quanto interpretata in senso ampio come comprensiva non solo dei dipendenti in senso stretto, ossia i lavoratori subordinati, ma anche di quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna – non consente obiettivamente di ricomprendere anche le società partecipate o controllate dalla stazione appaltante.
La compartecipazione societaria dell’amministrazione aggiudicatrice alla società concorrente non determina alcuna automatica violazione dei principi concorrenziali e di parità di trattamento, di talché, in assenza di prove in ordine a specifiche violazione delle regole di evidenza pubblica, deve escludersi che la mera partecipazione dell’ente pubblico ad una società concorrente rappresenti un elemento tale da pregiudicare la regolarità della gara.

Sentenza 5 giugno 2018, n. 3401

Data udienza 5 aprile 2018

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 8808 del 2017, proposto da:
Consorzio Stabile En. Lo. s.c.a.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ig. Ab., An. Bu. e St. Vi., con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via (…);
contro
Comune di Verona, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Ca. e Fu. Sq., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Verona, piazza (…);
nei confronti
Ag. Li. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gr. Gi., Al. D’A., Gi. Or. e Pi. Fr. Vi., con domicilio eletto presso lo studio legale dell’avvocato Gi. Fr. in Roma, via (…);
Ag. Ve. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Fr., Al. Vo. e Pa. Br., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. del Veneto, Sezione I, n. 811/2017
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Verona, di Ag. Li. s.r.l. e di Ag. Ve. s.p.a.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 5 aprile 2018 il Cons. Valerio Perotti ed uditi per le parti gli avvocati Ab., Vi., Bu., Gu. (in dichiarata delega di Ca.) e Fr. (anche in dichiarata delega di D’A.);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Risulta dagli atti che il Comune di Verona indiceva una procedura di gara ristretta, ai sensi dell’art. 61, d.lgs. n. 50 del 2016, per l’affidamento della concessione relativa al servizio di gestione della rete e degli impianti di pubblica illuminazione del territorio comunale, ponendo a base di gara la proposta di finanza di progetto presentata dal promotore Ag. Li. s.r.l. (società il cui capitale era integralmente detenuto da Ag. Ve. s.p.a.), con aggiudicazione del servizio secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La proprietà della rete interessata dal servizio era in parte dell’amministrazione comunale, in parte di Ag. Ve. s.p.a., società integralmente controllata dallo stesso ente locale.
La durata della concessione era fissata in anni 18, con importo complessivo in euro 130.249.652,00 così suddivisi:
– euro 110.773.652,00 quale canone di rientro per servizio di gestione e manutenzione ordinaria della rete ed impianti;
– euro 19.476.000,00, quale canone di messa in disponibilità della rete e degli impianti.
La base d’asta veniva stabilita in euro 5.250.000,00. Oltre al canone da versare all’aggiudicatario, il Comune si impegnava altresì a versare l’importo di euro 1.082.000,00 (aggiornabile annualmente e non ribassabile in sede di gara), che l’aggiudicatario a sua volta avrebbe dovuto corrispondere ad Ag. Ve. s.p.a. per la messa in disponibilità della rete e degli impianti di proprietà della stessa.
Ai sensi dell’art. 183, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016, al promotore veniva riconosciuto il diritto di prelazione, nella forma dell’adeguamento della propria proposta a quella individuata come aggiudicataria in sede di gara.
Venuto a conoscenza della determinazione del Comune di procedere alla gara, il Consorzio Stabile En. Lo. s.c.a.r.l. segnalava all’amministrazione comunale l’opportunità di non darvi seguito, per aderire invece alla Convenzione Consip applicabile (proponendo in particolare al Comune di emettere una richiesta di preventivo – RPF onde ottenere i dati tecnico-economici necessari almeno alla valutazione comparativa tra le due proposte), essendo il Consorzio affidatario del lotto 2 (che copre Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige) sia per la Convenzione denominata “Servizio Luce 2” del maggio 2011, sia per la Convenzione denominata “Servizio Luce 3” dell’aprile 2015.
Quest’ultima Convenzione veniva prorogata al 20 marzo 2018, con la possibilità per le pubbliche amministrazioni di aderirvi scegliendo la tipologia di contratto attuativo della durata estesa di nove anni.
A tale richiesta il Comune di Verona dava riscontro negativo, provvedendo quindi alla pubblicazione del bando.
Quest’ultimo veniva allora impugnato dal Consorzio avanti al Tribunale amministrativo del Veneto, unitamente alla determina del Comune di Verona n. 6154 del 18 novembre 2016 (recante indizione della procedura ristretta), alla deliberazione della Giunta comunale n. 303 del 3 agosto 2016 (con cui era stato approvato il contratto di messa in disponibilità della rete e degli impianti di pubblica illuminazione), alla deliberazione della Giunta comunale n. 303 del 3 agosto 2016 (con cui era stato approvato il contratto di messa in disponibilità della rete e degli impianti di pubblica illuminazione, destinato a regolare i rapporti tra la società aggiudicataria e la società proprietaria Ag. Ve. s.p.a.), alla deliberazione della Giunta Comunale di Verona n. 453 del 28 dicembre 2015 (recante dichiarazione di pubblico interesse, ai sensi dell’art. 278 del d.P.R. n. 207 del 2010, della proposta di “project financing” presentata dall’Ag. Li. s.r.l.), alla deliberazione del Consiglio comunale n. 66 del 17 dicembre 2015 (recante l’approvazione dell’affidamento in concessione del servizio di illuminazione pubblica), nonché alla nota del Comune di Verona, trasmessa via Pec in data 16 novembre 2016 in risposta alla diffida inoltrata dal Consorzio ricorrente.
A supporto del gravame, quest’ultimo deduceva i seguenti profili di illegittimità:
1) violazione dell’art. 183 del d.lgs. n. 50/2016, dell’art. 26 della l. n. 488/1999, dell’art. 2, comma 225, della l. n. 191/2009, degli artt. 1, 4, 24 e 25 del r.d. n. 2578/1925, degli artt. 8 e ss. del d.P.R. n. 902/1986, nonché violazione dei principi generali in tema di congruità, logicità e completezza della motivazione;
2) violazione degli artt. 113 del d.lgs. n. 267/2000 e 6, comma 1, del d.lgs. n. 175/2016, violazione dei principi generali di correttezza, trasparenza, par condicio, non disparità di trattamento, buona fede, nonché difetto di motivazione;
3) violazione degli artt. 4, 42 e 80 del d.lgs. n. 50/2016, violazione dei principi generali in tema di imparzialità, non discriminazione, parità di trattamento e superamento delle situazioni di conflitto di interessi.
Con motivi aggiunti depositati il 3 gennaio 2017, il Consorzio tornava ad impugnare gli atti già gravati con il ricorso originario, chiedendo la concessione di misure cautelari monocratiche interinali (istanza peraltro respinta con decreto presidenziale n. 2 del 5 gennaio 2017) e deducendo il seguente, ulteriore motivo:
4) violazione degli artt. 4, 83 e 133 e ss. del d.lgs. n. 50/2016, degli artt. 26 della l. n. 488/1999 e 2, comma 225, della l. n. 191/2009, nonché violazione dei principi generali in tema di proporzionalità, tutela della concorrenza e parità di trattamento.
Reiterava inoltre la domanda di risarcimento danni già proposta con l’introduttivo ricorso.
Costituitosi in giudizio, il Comune di Verona eccepiva preliminarmente l’inammissibilità del ricorso, per difetto di interesse; nel merito ne deduceva l’infondatezza, chiedendone la reiezione.
Anche Ag. Ve. s.p.a. (quale società, partecipata dal Comune di Verona al 100%, proprietaria delle reti di illuminazione pubblica) ed Ag. Li. s.r.l. (promotrice del project financing) si costituivano in giudizio, eccependo la prima – in via pregiudiziale – di non avere la veste processuale di controinteressato, e la seconda l’inammissibilità del gravame.
Nel merito, entrambe concludevano per l’infondatezza del ricorso, che chiedevano fosse respinto.
Con sentenza 30 agosto 2017, n. 811, il Tribunale adito respingeva il gravame, unitamente ai motivi aggiunti.
Avverso tale decisione il Consorzio Stabile En. Lo. s.c.a.r.l. interponeva appello, deducendo i seguenti motivi di impugnazione:
1) Violazione dell’art. 183, D.Lgs. n. 50/2016, dell’art. 26, L. 23 dicembre 1999, n. 488, dell’art. 2, co. 225, L. 23 dicembre 2009, n. 191, degli artt. 1, 4, 24 e 25, R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578, degli artt. 8 e ss., D.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902, nonché violazione dei principi generali in tema di congruità, logicità e completezza della motivazione;
2) Violazione dell’art. 113, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, dell’art. 6, co. 1, D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, nonché violazione dei principi generali di correttezza, trasparenza, par condicio, non disparità di trattamento, buona fede e difetto di motivazione;
3) Violazione degli artt. 4, 42 e 80, D.Lgs. n. 50/2016 e s.m.i., nonché violazione dei principi generali in tema di imparzialità, non discriminazione, parità di trattamento e superamento delle situazioni di conflitto di interessi;
4) Violazione degli artt. 4, 83 e 133 e ss., D.Lgs. n. 50/2016, dell’art. 26, L. 23 dicembre 1999, n. 488, dell’art. 2, co. 225, L. 23 dicembre 2009, n. 191, nonché violazione dei principi generali in tema di proporzionalità, tutela della concorrenza e parità di trattamento.
Il Comune di Verona, costituitosi in giudizio, riproponeva innanzitutto le eccezioni di inammissibilità del gravame già sollevate nel precedente grado di giudizio, evidenziando in ogni caso l’infondatezza del ricorso.
Anche le società Ag. Ve. s.p.a. ed Ag. Li. s.r.l. si costituivano, eccependo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza dell’appello, del quale chiedevano la reiezione.
Successivamente le parti ulteriormente illustravano, con apposite memorie, le proprie tesi difensive ed all’udienza del 5 aprile 2018, dopo la rituale discussione, la causa passava in decisione.
Con il primo motivo di appello, il Consorzio Stabile En. Lo. s.c.a.r.l. – sul presupposto di non aver in realtà mai sostenuto che il (ri)acquisto e/o riscatto delle reti da parte del Comune di Verona costituisse un obbligo per l’amministrazione appellata – deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui vi si legge che “appare immune dalle censure formulate dal Consorzio ricorrente la motivazione della scelta del Comune di Verona di non aderire alla Convenzione, sulla base del fatto che il Comune stesso non ha la titolarità integrale della rete e degli impianti, essendo proprietaria di gran parte di essi, ai sensi dell’art. 113, comma 13, del d.lgs. n. 267/2000, Ag. Ve. S.p.A. (società totalmente partecipata dal Comune medesimo)”.
Invero, evidenzia il primo giudice, “è pacifico e incontestato tra le parti che la convenzione CONSIP denominata “Servizio Luce 3”, invocata dal ricorrente, presupponga che la proprietà della totalità degli impianti sia del Comune (v. il punto b) dell’atto di segnalazione dell’Autorità Antitrust n. AS1240 del 16 dicembre 2015, all. 8 al ricorso). E’ altrettanto pacifica e incontestata l’assenza di detto presupposto nel caso in esame, essendo Ag. Ve. S.p.A. – come recita il bando di gara (all. 1 al ricorso) – proprietaria della maggior parte delle rete e degli impianti di pubblica illuminazione siti nel territorio del Comune di Verona (lampioni, centraline, condutture), mentre la proprietà degli stessi è solo “in minima parte” dell’Amministrazione comunale; nelle sue difese il Comune precisa che più del 99% degli impianti di illuminazione è attualmente di Ag. Ve. S.p.A.”.
Ad avviso dell’appellante, solo nel corso del processo di primo grado (con inammissibile motivazione “postuma”) il Comune avrebbe indicato, tra le ragioni alla base della mancata adesione alla Convenzione Consip, l’eccessiva onerosità della stessa, laddove la determina impugnata parlava di impossibilità ad aderirvi in ragione della presenza di un terzo soggetto proprietario delle reti, circostanza rispetto alla quale, peraltro, “l’ordinamento prevede […] la soluzione da adottare […] e cioè la previa acquisizione delle reti mediante riscatto”.
Per l’effetto, se è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione la scelta di non riscattare la rete e (quindi) di non aderire alla Convenzione, tale scelta dovrà pur sempre essere supportata da idonea motivazione, che secondo l’appellante nel caso di specie sarebbe invece assente, “essendosi il Comune limitato a rilevare la presenza di un ostacolo giuridico all’adesione senza minimamente indagare sulle soluzioni che l’ordinamento offre per superare legittimamente tale ostacolo, al fine di poter pienamente perseguire l’interesse pubblico”.
Sempre in argomento – prosegue il Consorzio – non sarebbe condivisibile quanto dedotto (sia pur tardivamente) dal Comune circa l’eccessiva onerosità del riscatto, stimato in circa 30 milioni di euro, in quanto tale valore si tradurrebbe in un valore unitario degli impianti all’incirca dieci volte più alto rispetto a quelli medi riscontrati sul territorio; tale stima contraddirebbe inoltre quanto indicato dall’amministrazione nella bozza di contratto di messa in disponibilità degli impianti, laddove il valore convenzionale della rete è indicato in 12 milioni di euro.
Pertanto, conclude l’appellante, detta onerosità sarebbe frutto di un’eccessiva sovrastima, rettificata la quale dovrebbe concludersi che, anche considerando il costo del riscatto, l’adesione alla Convenzione Consip (del tutto comparabile, quanto a prestazioni, all’oggetto del project financing) sarebbe comunque economicamente più conveniente.
Ad un complessivo esame delle risultanze di causa, il Collegio ritiene che il motivo di appello non sia fondato.
La sentenza impugnata, in effetti, correttamente riconosce che la decisione di (ri-)acquistare e/o riscattare gli impianti era una facoltà discrezionale del Comune – stante il chiaro disposto dell’art. 24, comma primo, del r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578 (Approvazione del testo unico della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni e delle provincie) – con la conseguenza che la stessa risultava “sottratta al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che, secondo il noto insegnamento giurisprudenziale (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 10 settembre 2014, n. 4599; T.A.R. Veneto, Sez. III, 29 gennaio 2016, n. 98), essa sia manifestamente inficiata da illogicità, irrazionalità, arbitrarietà od irragionevolezza, ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti”.
Vizi che, nel caso di specie, non appaiono connotare – in modo evidente – la scelta di non procedere al riacquisto delle reti, passaggio comunque preliminare ad un’eventuale adesione alla Convenzione Consip.
In particolare, la determina comunale n. 6154 del 18 novembre 2016 non si limita a dar atto della pratica impossibilità – allo stato – di aderire alla Convenzione, presupponendo questa che l’ente pubblico “sia anche proprietario della rete di illuminazione pubblica”, ma altresì rilevava – da un lato – come la stessa non disciplinasse “i rapporti del gestore del servizio con un’eventuale società patrimoniale di cui all’art. 113, comma 13, del TUEL che, tra l’altro, si deve far carico dei costi di manutenzione straordinaria degli impianti di sua proprietà” e – dall’altro – come, “prevedendo una durata del contratto di 5 anni in caso di contratto standard o di 9 anni in caso di contratto esteso, non consente di effettuare importanti interventi di efficientamento energetico previsti dalla legge e di cui necessita l’attuale rete di illuminazione, ammortizzabili in un periodo contrattuale più lungo”.
Invero, la durata del rapporto previsto nel project financing era di 18 anni, giustificati con la necessità di assicurare un congruo ammortamento dei rilevanti costi di investimento.
Anche la precedente nota 14 novembre 2016, di riscontro al Consorzio, chiariva parte delle ragioni tecnico-operative sottese alla scelta di non aderire alla Convenzione, date in primo luogo dal fatto che “la rete e gli impianti destinati al servizio di pubblica illuminazione non sono di proprietà del Comune di Verona ma di un terzo soggetto, che in tale veste, ad esempio, si fa carico della manutenzione straordinaria degli impianti”; ciò infatti – anche alla luce di quanto previsto dall’art. 113, comma 13 del Tuel – comportava la necessità di “una regolamentazione contrattuale specifica, per disciplinare i rapporti fra i tre soggetti interessati (titolare del pubblico servizio, società proprietaria della rete e società concessionaria della gestione del servizio) sia di natura economica che operativa. Detta circostanza si presenta del tutto incompatibile con l’adesione ad una convenzione, che non prevede modifiche o adattamenti a specifiche esigenze dell’Ente, in caso contrario configurandosi quale potenziale affidamento diretto”.
Alla luce di tali rilievi, la decisione del Comune di Verona di non procedere alla ri-acquisizione – con gestione in proprio – della proprietà delle reti, non può dirsi ictu oculi arbitraria ed illogica, essendo evidentemente sorretta da ponderazioni di discrezionalità tecnica ed opportunità amministrativa che non spetta però al giudice sindacare, se del caso sostituendole con una propria e diversa valutazione.
In tale contesto, d’altronde, a fronte della scelta amministrativa di procedere ad un’articolata operazione di investimenti strutturali, non poteva neppure dirsi irragionevole la scelta relativa alla durata del rapporto concessorio, determinante ai fini dell’ammortamento degli investimenti medesimi, questione sostanzialmente elusa dal Consorzio, nella propria nota del 3 novembre 2016: “la durata di 9 anni della Convenzione Consip non risulta svantaggiosa rispetto ai 18 anni proposti da Ag. Li. S.r.l. in quanto un periodo inferiore implica un impegno minore per il Comune con l’ulteriore vantaggio che tra 9 anni il Comune potrà bandire una nuova gara con un importo a base d’asta più basso, visto il beneficio degli investimenti/lavori di riqualificazione ottenuti nell’ambito del contratto Consip di nove anni”.
E’ evidente al riguardo che la posizione del Consorzio, lungi dall’evidenziare profili di irragionevolezza circa la soluzione prospettata, finiva a ben vedere per proporre una soluzione alternativa, probabilmente plausibile, ma inidonea ex se a palesare l’illegittimità dell’opzione prescelta dall’amministrazione.
Neppure appare condivisibile la tesi dell’appellante, secondo cui i servizi offerti dal concessionario Consip sarebbero del tutto sovrapponibili ed analoghi a quelli di cui alla gara per project financing: al riguardo, appaiono condivisibili i rilievi formulati da Ag. Li. s.r.l., che evidenzia come nel primo caso si sarebbe in presenza di un contratto che prevede sì un livello standard, garantito dal canone annuale, nel quale sono però ricomprese solamente la fornitura di energia elettrica, la gestione degli impianti e la manutenzione ordinaria degli stessi.
Invece, per quanto concerne la manutenzione straordinaria, l’adeguamento normativo e l’efficientamento energetico, il sistema disposto dalla Convenzione prevede che tali attività siano garantite (ad integrale carico del gestore) solamente entro il 10% dell’importo del canone, laddove l’amministrazione potrebbe ancora chiedere un’ulteriore quota di efficientamento – comunque non eccedente il 20% – ma con costi a suo integrale carico.
Ne consegue che se quest’ultima intendesse attivare – come nel caso in esame – degli ulteriori interventi eccedenti le quote sopra descritte, dovrebbe rivolgersi al mercato mediante un’autonoma procedura di gara, con relativi oneri.
Inoltre, come noto, nella finanza di progetto (nel cui perimetro sarebbero peraltro ricomprese tutte le attività di efficientamento energetico, adeguamento normativo e manutenzione straordinaria), l’investimento iniziale è a totale carico del gestore del servizio, in capo all’ente locale essendovi solamente l’obbligo di corrispondere il canone pattuito.
Altra differenza strutturale che non consente di parlare di perfetta sovrapponibilità delle opzioni negoziali è poi quella della responsabilità relativa ad inefficienze e/o danni che dovessero verificarsi nel corso della gestione:
interamente a carico dell’aggiudicatario della gara, nel caso della finanza di progetto, sul quale – come si è detto – grava l’onere di garantire (a fronte del solo canone contrattuale) la manutenzione straordinaria e l’adeguamento continuo dell’intero impianto,
a carico dell’amministrazione (in quanto ritornata titolare di reti ed impianti) nel caso di adesione alla Convenzione Consip.
Con il secondo motivo di appello viene invece dedotto – sul presupposto che le società Ag. Li. s.r.l. ed Ag. Ve. s.p.a. avessero finora gestito il servizio di illuminazione in esame attraverso il modello in house – che il Comune di Verona impropriamente si sarebbe servito dello strumento del project financing – con il solo obiettivo, in realtà, di utilizzare l’istituto della prelazione assicurata al promotore, integralmente di proprietà comunale – laddove avrebbe invece dovuto applicare, in primo luogo, gli strumenti del controllo analogo di cui disponeva, anziché utilizzare la formula della finanza di progetto al fine di risolvere i problemi sorti nella gestione in house.
Ciò al fine di evitare la denunciata “distorsione della ratio della normativa finalizzata ad assicurare che i soggetti affidatari pubblici di servizi di interesse economico generale siano effettivamente controllati dalle Amministrazioni concedenti e che, in difetto, il ricorso al mercato avvenga in modo trasparente e senza forzature volte ad assicurare il permanere della gestione pubblica anche al di fuori delle ipotesi a ciò deputate”.
Il motivo di gravame è inammissibile, oltreché infondato.
Va in primo luogo evidenziata la carenza di interesse dell’appellante ad eccepire lo scorretto ricorso, da parte dell’amministrazione, allo strumento del project financing in luogo della gestione diretta del servizio secondo lo schema dell’in house providing, atteso che in entrambi i casi il Consorzio sarebbe stato escluso dal rapporto.
Nel merito, attesa la genericità della doglianza, va condiviso quanto ritenuto dal primo giudice, per cui “anzitutto il ricorrente non individua alcuna specifica disposizione normativa, né alcun principio generale, da cui deriva il divieto, per una società partecipata, di farsi promotrice di una proposta di cd. finanza di progetto, destinata all’affidamento tramite una procedura ad evidenza pubblica”; quindi, per quanto concerne l’adombrato sviamento di potere insito nel ricorso alla procedura ristretta impugnata, cui si sarebbe ricorso unicamente per eludere le regole dell’evidenza pubblica, effettivamente insufficienti sono gli indizi addotti dal Consorzio a sostegno della propria doglianza.
Secondo consolidato principio giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, IV, 8 gennaio 2013, n. 32), lo sviamento di cui trattasi ricorre quando il pubblico potere viene esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva dello stesso, ovvero quando l’atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico; la relativa censura deve peraltro essere “supportata da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dare conto delle divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non bastando mere supposizioni od indizi, che non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità perseguita in concreto” dall’amministrazione (ex multis, Cons Stato, VI, 3 luglio 2014, n. 3355).
Dimostrazione che nel caso di specie non è stata fornita dall’odierno appellante, il quale non ha fornito alcun obiettivo argomento dimostrativo che “la lex specialis di gara è stata predisposta con contenuti tali da non poter fare altro che portare all’aggiudicazione del servizio ad Ag. Li.”.
Con il terzo motivo di appello, il Consorzio lamenta poi la sussistenza di un potenziale conflitto di interessi, atteso che il Comune di Verona – per il tramite di Ag. Ve. s.p.a., società patrimoniale totalitariamente detenuta dal Comune – indirettamente verrebbe a controllare il promotore Ag. Li. s.r.l.
In breve, la sentenza impugnata non avrebbe considerato che il promotore (Ag. Li. s.r.l.) era controllato dalla società cui gli altri concorrenti dovrebbero versare un canone (Ag. Ve. s.p.a.) per l’utilizzo delle reti di cui questa è proprietaria, con l’evidente distorsione economica che potrebbe ad esempio verificarsi laddove il promotore, in caso di dissesto, “dovrebbe essere ricapitalizzato dalla stessa società cui ha versato il canone di messa in disponibilità, mentre tale circostanza non potrebbe ovviamente riguardare gli altri concorrenti che Ag. Ve. s.p.a. di certo non finanzia”.
Anche questo motivo, invero piuttosto generico, non appare fondato.
Ritiene infatti il Collegio che correttamente il primo giudice abbia escluso la ricorrenza, nel caso di specie, della fattispecie di cui all’art. 42, comma 2 del d.lgs. n. 50 del 2016, riferendosi il conflitto di interesse al solo “personale” della stazione appaltante, espressione che – per quanto interpretata in senso ampio come comprensiva non solo dei dipendenti in senso stretto, ossia i lavoratori subordinati, ma anche di quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), “siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna” (così Cons. Stato, V, 11 luglio 2017, n. 3415) – non consente obiettivamente di ricomprendere anche le società partecipate o controllate dalla stazione appaltante.
Più in generale, come chiarito dal precedente di Cons. Stato, VI, 11 luglio 2008, n. 3499, “la compartecipazione societaria dell’amministrazione aggiudicatrice alla società concorrente non determina alcuna automatica violazione dei principi concorrenziali e di parità di trattamento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2004, n. 6325; Cons. Giust. Amm., 24 dicembre 2002, n. 692)”, di talché, “in assenza di prove in ordine a specifiche violazione delle regole di evidenza pubblica, deve escludersi che la mera partecipazione dell’ente pubblico ad una società concorrente rappresenti un elemento tale da pregiudicare la regolarità della gara”.
Infine, con il quarto motivo di appello viene dedotta, in relazione al bando di gara del project financing, la presunta sproporzione operata dall’amministrazione nella fissazione dei requisiti di qualificazione sotto il profilo tecnico-organizzativo: in particolare, attraverso tale previsione di cui ai p.tti 12.1.2 e 12.5 del disciplinare di gara, il Comune di Verona avrebbe “del tutto reso impossibile la partecipazione di soggetti formati da più operatori, poiché, imponendo che la mandataria (o il concorrente singolo) sia titolare di un contratto che da solo compre il 66% dei punti-luce presenti nell’intero servizio in gara e addirittura l’83% dell’intero requisito richiesto, ha posto un requisito del tutto sproporzionato”.
A fronte del rilievo, di cui alla sentenza impugnata, secondo cui – nel caso di specie – non si potrebbe parlare di previsione illegittima del bando di gara, avendo il Comune di Verona semplicemente inserito – con valutazione non irragionevole – un requisito di carattere tecnico, l’appellante deduce che “tale scelta, seppur astrattamente ammissibile poiché insita nella discrezionalità propria della Stazione Appaltante, doveva essere nel caso di specie adeguatamente motivata in quanto comportava un significativo scostamento dai parametri stabiliti dalla Consip, cui la normativa riconosce il ruolo di benchmark”. In pratica, il primo giudice avrebbe omesso qualsiasi considerazione circa la ritenuta abnormità del requisito tecnico di cui si è detto (non posseduto dall’appellante), nella misura in cui esclude soggetti che (come l’appellante) abbiano comunque superato la gara Consip.
Neppure tale motivo può dirsi fondato.
In realtà, la sentenza impugnata è chiara nel considerare del tutto ragionevole e non sproporzionato il requisito tecnico in questione, nel contesto del servizio posto in gara in una città delle dimensioni di Verona, anche laddove lo stesso finisca per escludere, in concreto, la partecipazione di soggetti che abbiano invece superato la qualifica svolta da Consip.
Ciò in quanto si è in presenza di procedure del tutto diverse, essendo basata la gara Consip solo su un requisito di ordine economico, laddove il Comune di Verona aveva giustappunto inserito, con valutazione afferente il merito amministrativo e, comunque, di per sé non irragionevole (dunque, non sindacabile a priori dal giudice), anche un requisito di carattere tecnico.
Del resto, devono ritenersi legittimi i requisiti richiesti dalle stazioni appaltanti quando, pur essendo ulteriori e più restrittivi rispetto alla normativa di settore, rispettino il limite della logicità e della ragionevolezza e, cioè, della loro pertinenza e congruità a fronte dello scopo perseguito (ex multis, Cons. Stato, V,15 dicembre 2005, n. 7139).
Nel caso di specie, il Consorzio lamenta la non frazionabilità, tra i componenti di un ipotetico Rti, del predetto requisito di carattere tecnico: al riguardo, rileva però il Collegio come il medesimo requisito vada riferito ai cd. “servizi di punta”, relativamente ai quali vale in primo luogo la regola per cui la previsione di eventuali ulteriori requisiti “qualora siano costituiti dai cc.dd. “servizi di punta”, non sembrano violare i principi di proporzionalità e ragionevolezza” (Cons. Stato, V, 15 dicembre 2005, n. 7139).
Nel caso di specie, l’impossibilità di frazionamento del requisito in esame è da riferirsi al fatto che, in quanto servizio di punta, deve essere riconducibile esclusivamente in capo alla mandataria, venendo altrimenti meno “proprio la stessa causa giustificatrice della richiesta di un contratto di punta, inteso come esperienza di particolare pregnanza in servizio analogo, e verrebbe altresì a concretizzarsi una disparità di trattamento tra imprese individuali, cui viene addossato l’onere di avere svolto tali servizi, e gli RTI che invece potrebbero ripartire tale onere tra i vari partecipanti” (Cons. Stato, V, 10 settembre 2010, n. 6550).
Conclusivamente, alla luce dei rilievi sovra esposti, l’appello va respinto. Per l’effetto, il Collegio ritiene di poter comunque soprassedere dall’esame delle preliminari questioni di rito, sebbene prima facie almeno in parte non destituite di fondamento, eccepite dalle parti appellate.
La novità e peculiarità delle questioni trattate giustifica in ogni caso l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese di lite del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa integralmente tra le parti le spese di lite del grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 aprile 2018 con l’intervento dei magistrati:
Claudio Contessa – Presidente FF
Fabio Franconiero – Consigliere
Raffaele Prosperi – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Valerio Perotti – Consigliere, Estensore

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