Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 14 novembre 2017, n. 5237. Sussiste un rapporto di pregiudizialità logico-giuridica tra il giudizio amministrativo sulla validità del decreto di esproprio

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10.5. Ai fini di interesse i principi elaborati dall’Adunanza plenaria sono così sintetizzabili:
a) la disciplina recata dal nuovo codice, in parte qua (ossia avuto riguardo all’assenza di una stretta pregiudiziale processuale e all’operatività di una connessione sostanziale di tipo causale tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria), era enucleabile anche dal quadro normativo vigente prima dell’entrata in vigore del codice;
b) la mancata operatività di una pregiudizialità processuale si coniuga con gli arresti della prevalente giurisprudenza comunitaria, che considerano la domanda di annullamento e quella di risarcimento rimedi autonomi, pur se escludono la favorevole valutazione della domanda risarcitoria quando essa mascheri un’ormai tardiva azione di annullamento, così come negano la risarcibilità dei danni che sarebbero stati evitati con la tempestiva impugnazione;
c) il più recente orientamento interpretativo del Consiglio di Stato ha spostato l’indagine sul rapporto tra azione di danno e domanda di annullamento dal terreno processuale a quello sostanziale, pervenendo alla conclusione che la mancata promozione della domanda impugnatoria non pone un problema di ammissibilità dell’actio damni ma è idonea ad incidere sulla fondatezza della domanda risarcitoria;
d) sviluppando queste coordinate ermeneutiche deve ritenersi che l’analisi dei rapporti sostanziali debba essere svolto sul piano della causalità;
e) le esigenze di preservazione della stabilità dei rapporti pubblicistici e di prevenzione di comportamenti opportunistici, perseguite dalla giurisprudenza con l’affermazione del principio della pregiudizialità, possono essere soddisfatte con l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1223 e seguenti del codice civile in materia di causalità giuridica; assume rilievo, in particolare, il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, che considera non risarcibili i danni evitabili con un comportamento diligente del danneggiato;
f) la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, c.p.a., è ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’interpretazione evolutiva del capoverso dell’articolo 1227 cit.; il comma 2 del suddetto articolo, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex art. 1223 c.c, regola la c.d. causalità giuridica, relativa al nesso tra danno-evento e conseguenze dannose da esso derivanti; la disposizione introduce un giudizio basato sulla cd. causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza; sul piano teleologico, la prescrizione, espressione del più generale principio di correttezza nei rapporti bilaterali, mira a prevenire comportamenti opportunistici e, in definitiva, l’abuso dello strumento processuale;
g) a mente del comma 2 dell’art. 1227 c.c., il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall’aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno); tale orientamento si fonda su una lettura dell’art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost.;
h) il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose; l’obbligo di cooperazione gravante sul creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, non comprende l’esplicazione di attività straordinarie o gravose attività, ossia un facere non corrispondente all’id quod plerumque accidit;
i) nel novero dei comportamenti ordinariamente esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo vi rientra anche la proposizione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte l’utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio, deve darsi risposta affermativa;
l) in conclusione, anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno;
m) di conseguenza, la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione – anche grazie alla contestuale attivazione della tutela cautelare – avrebbe evitato o mitigato il danno;
n) la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile; detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile.

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