Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 22 novembre 2016, n. 4896

In sede di risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, mentre resta a carico dell’Amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato di un errore da ritenersi “scusabile” secondo una valutazione complessiva dell’intera vicenda. In applicazione di questa regola giurisprudenziale – che tiene evidentemente conto della strutturale “disparità delle armi fra le parti” nel giudizio intentato da un privato nei confronti di una P.A. – al danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo non è dunque richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione, potendo egli limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto e dovendosi fare applicazione, al fine della prova dell’elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all’art. 2727 c.c.; e a questo punto spetta all’Amministrazione dimostrare, se del caso, di essere incorsa – appunto – in quell’errore scusabile che, secondo una giurisprudenza consolidata, si verifica in presenza di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma, formulazione ambigua delle disposizioni da applicarsi, complessità della situazione di fatto, comportamento delle parti del procedimento

Consiglio di Stato

sezione IV

sentenza 22 novembre 2016, n. 4896

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Quarta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1347 del 2014, proposto dal

Ministero della giustizia e dal Consiglio Superiore della Magistratura, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Do. Ia. C.F. (omissis), con domicilio eletto presso lo Studio Le. in Roma, via (…);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per il Lazio, sez. I quater, n. 9877/2013, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 novembre 2016 il consigliere Giuseppe Castiglia;

Uditi per le parti l’avvocato dello Stato Ga. Na., per l’Amministrazione appellante, e l’avvocato Fa. Lo., su delega dell’avvocato Do. Ia., per la parte appellata;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con delibera del 6 dicembre 2012, il Consiglio Superiore della Magistratura ha respinto la richiesta avanzata dal dottor -OMISSIS-, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, di essere autorizzato a svolgere attività didattica presso la scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Firenze.

2. Un precedente, analogo atto di diniego (10 novembre 2010) era stato annullato dal T.A.R. per il Lazio, sez. I, con sentenza in forma semplificata 18 gennaio 2011, n. 429.

3. Il dottor-OMISSIS- ha impugnato il provvedimento come pure, dopo la sospensione accordata dal T.A.R. (ordinanza 7 febbraio 2013, n. 574), ha impugnato con motivi aggiunti la successiva delibera del 24 maggio 2013, che confermava il diniego di autorizzazione.

4. Con sentenza 19 novembre 2013, n. 9877, il T.A.R. per il Lazio, sez. I quater:

a) ha dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso rivolto avverso la delibera originaria, per essere stata questa sostituita dalla nuova delibera del 24 maggio 2013;

b) ha accolto i motivi aggiunti proposti contro quest’ultima, ritenuta viziata da eccesso di potere per essere in immotivato contrasto con le precedenti delibere dell’11 febbraio e del 2 dicembre 2011 che, pur in presenza della medesima situazione di fatto (una pregressa sanzione disciplinare comportante la perdita di anzianità di un anno), avevano accordato l’autorizzazione richiesta;

c) ha accolto la domanda risarcitoria nei riguardi del C.S.M., sul presupposto che l’Amministrazione non avrebbe provato – come invece sarebbe stato suo onere – l’assenza della colpa e ha liquidato il danno in euro 240 a titolo di lucro cessante e in euro 4.000, secondo una valutazione equitativa, per danno all’immagine, con rivalutazione e interessi legali;

d) ha condannato le Amministrazioni resistenti al pagamento delle spese di lite.

5. Il Ministero della giustizia e il C.S.M. hanno interposto appello contro la sentenza limitatamente al capo recante la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale (il C.S.M.) e a quello relativo alle spese di giudizio (entrambe le Amministrazioni).

6. L’appello si articola in sei motivi:

a) violazione dell’art. 2043 c.c. Nella specie mancherebbero i caratteri dell’illecito aquiliano, a integrare il quale non basterebbe la mera illegittimità dell’atto impugnato occorrendo invece anche l’elemento soggettivo della condotta (dolo o colpa), apprezzato anche in relazione al margine di discrezionalità della P.A. Il relativo onere della prova, come pure quello concernente gli altri elementi costitutivi dell’illecito, graverebbe sul danneggiato;

b) mancanza di tale prova in concreto, anche perché il primo giudice non avrebbe considerato i margini di discrezionalità spettanti al C.S.M. e avrebbe apoditticamente scorto l’effettiva sussistenza di una violazione grave e manifesta nella negazione per due volte consecutive dell’autorizzazione all’incarico;

c) mancanza del nesso di causalità. Alla data del 22 maggio 2013 il dottor-OMISSIS- non avrebbe mai potuto svolgere le lezioni per essersi concluso nel frattempo il ciclo relativo, e questo escluderebbe il danno patrimoniale. Quanto al preteso danno non patrimoniale, difetterebbe qualunque prova sia diretta che presuntiva della diffusione della notizia nell’ambito dei giuristi fiorentini e del conseguente danno all’immagine;

d) illogicità della sentenza nella concreta liquidazione del danno risarcibile, che sarebbe stato piegato a una funzione sanzionatoria estranea al nostro ordinamento;

e) violazione di legge nella modalità di riconoscimento di rivalutazione e interessi sulla somma liquidata, fatta incongruamente decorrere non dal 22 maggio 2013 (data della delibera annullata, rispetto alla quale si configurerebbe la colpa del C.S.M.), ma dalla prima delibera del 6 dicembre 2012, illegittima ma non illecita. Il T.A.R. avrebbe poi errato nell’attualizzare implicitamente la somma liquidata.

f) illegittimità della condanna alle spese processuali, alla luce della liceità della condotta delle Amministrazioni appellanti, che dovrebbe condurre a un’equa compensazione o, in subordine, a una riduzione dell’importo liquidato.

7. Il dottor-OMISSIS- si è costituito in giudizio per resistere all’appello, sostenendo l’inammissibilità del primo motivo (che non conterrebbe specifiche censure contro i capi della sentenza gravata) e in subordine l’infondatezza, nonché l’infondatezza dei motivi rimanenti.

7.1. In seguito l’appellato ha depositato documentazione comprovante l’avvenuto rilascio dell’autorizzazione allo svolgimento delle medesima attività didattica per gli anni 2014, 2015, 2016.

8. All’udienza pubblica del 3 novembre 2016, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

9. In via preliminare, il Collegio:

a) osserva che la ricostruzione in fatto, sopra riportata e ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non è stata contestata dalle parti costituite ed è comunque acclarata dalla documentazione versata in atti. Di conseguenza, vigendo la preclusione posta dall’art. 64, comma 2, c.p.a., devono darsi per assodati i fatti oggetto di giudizio;

b) dà atto che non sono stati impugnati i capi della sentenza concernenti la declaratoria di improcedibilità del ricorso contro la delibera del 6 dicembre 2012, l’annullamento della delibera del 24 maggio 2013, la condanna al risarcimento del danno patrimoniale. Su tali capi si è perciò formato il giudicato interno.

10. L’appello è in parte fondato, secondo quanto ora si dirà.

a) La Sezione ritiene di non dover prendere in esame l’eccezione di inammissibilità del primo motivo dell’appello, perché questo è infondato nel merito.

Senza riprendere dal fondo l’esame di temi ampiamente discussi e approfonditi, il Collegio è dell’avviso che la struttura dell’illecito extracontrattuale della P.A. non diverga dal modello generale delineato dall’art. 2043 c.c. Ne sono dunque elementi costitutivi: quello soggettivo (dolo o colpa), il nesso di causalità, il danno, l’ingiustizia del danno medesimo (giurisprudenza ormai del tutto prevalente: cfr. per tutte, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 31 dicembre 2014, n. 6450; sez. III, 23 aprile 2015, n. 2040; sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 284; sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1436; sez. IV, 23 maggio 2016, n. 2111).

Sull’analisi di tale struttura, peraltro, non vi è, contrasto tra le parti.

Il dissenso riguarda invece la prova dell’elemento soggettivo, che secondo la sentenza impugnata ricadrebbe sull’Amministrazione (ovviamente come prova negativa) e secondo quest’ultima, invece, sul danneggiato.

A questo proposito, il Collegio non vede ragione di discostarsi dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo la quale, in sede di risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, mentre resta a carico dell’Amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato di un errore da ritenersi “scusabile” secondo una valutazione complessiva dell’intera vicenda.

In applicazione di questa regola giurisprudenziale – che tiene evidentemente conto della strutturale “disparità delle armi fra le parti” nel giudizio intentato da un privato nei confronti di una P.A. – al danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo non è dunque richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa dell’Amministrazione, potendo egli limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto e dovendosi fare applicazione, al fine della prova dell’elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all’art. 2727 c.c.; e a questo punto spetta all’Amministrazione dimostrare, se del caso, di essere incorsa – appunto – in quell’errore scusabile che, secondo una giurisprudenza consolidata, si verifica in presenza di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma, formulazione ambigua delle disposizioni da applicarsi, complessità della situazione di fatto, comportamento delle parti del procedimento (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 19 novembre 2012, n. 5846; sez. IV, 11 marzo 2013, n. 1468; sez. V, 27 marzo 2013, n. 1773; sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4439).

Nel caso di specie, il Collegio riscontra nella contraddittorietà fra gli atti adottati dal C.S.M. (organo – è superfluo sottolineare – di elevata competenza tecnico-giuridica) la “violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa” (per usare le parole di Cass. civ., ss. uu., 22 luglio 1999, n. 500), concretantesi sostanzialmente nella mancanza di linearità dei comportamenti, e non rinviene nessuno di quegli elementi che – come prima detto – potrebbero fondare il c.d. errore scusabile dell’Amministrazione, idoneo a escluderne la responsabilità civile.

Sussiste, in conclusione, l’elemento soggettivo della fattispecie.

b) In linea di principio, può essere oggetto di discussione il peso da riconoscere a una precedente sanzione disciplinare rispetto al rilascio dell’autorizzazione a svolgere un incarico extragiudiziario. Tuttavia, il Consiglio ha posto in essere comportamenti contraddittori nell’ambito della medesima vicenda, accordando prima e negando poi l’autorizzazione all’insegnamento in presenza di quel medesimo illecito disciplinare, senza spiegare – se non in termini puramente tautologici – le ragioni di questo mutamento di indirizzo e trincerandosi (nelle difese dell’Avvocatura) nella titolarità di una potestà discrezionale, che nessuno certo nega, ma che nel caso di specie è stata esercitata in maniera contraddittoria e irragionevole, con modalità tali, dunque, da consentire di darne largamente per provata la colpa come elemento costitutivo dell’illecito aquiliano.

c) Sussiste il nesso di causalità fra la condotta colpevole e il danno patrimoniale sofferto dal privato, perché alla data di adozione della prima delibera di rigetto impugnata il ciclo delle lezioni non era ancora esaurito cosicché l’appellato, ove autorizzato, avrebbe potuto svolgere l’incarico e riceverne il corrispettivo. Peraltro, come detto in precedenza, l’appello non contesta la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, sicché questa particolare articolazione del terzo motivo può essere trascurata.

Quanto al danno non patrimoniale, sotto il profilo del danno all’immagine, questo sembra sufficientemente provato in relazione a una vicenda che si è svolta in un ambito ristretto e che, proprio per le sue ondivaghe oscillazioni tra concessioni e dinieghi, ha verosimilmente suscitato commenti e critiche, incidendo in termini potenzialmente negativi (secondo una valutazione di id quod plerumque accidit) sull’immagine pubblica di giurista della parte privata.

d) Non potendo il danno all’immagine essere provato secondo il suo preciso ammontare, la relativa liquidazione è avvenuta secondo equità, in applicazione del criterio dettato dagli artt. 1226 e 2056 c.c.. Nulla lascia supporre – e la contraria affermazione resta indimostrata – che, decidendo in tal senso, il T.A.R. abbia inteso imprimere al risarcimento una non consentita funzione sanzionatoria.

Tuttavia il Collegio è dell’avviso che il T.A.R., pur procedendo correttamente a tale valutazione equitativa, non abbia adeguatamente considerato – nel fare propria la stima operata dal ricorrente – la circostanza che il danno non patrimoniale da questi sofferto si riporta sì in parte alla condotta del C.S.M., ma in parte discende anche dal suo stesso illecito disciplinare, a suo tempo accertato e sanzionato.

Per questa ragione, il Collegio reputa congruo ridurre alla metà (e cioè a euro 2.000) l’importo liquidato a tale titolo in favore dell’odierno appellato, fermi restando rivalutazione e interessi legali come disposto dal primo giudice.

e) Correttamente rivalutazione e interessi sono stati fatti decorrere dal 6 dicembre 2012, data di adozione della prima delibera impugnata, affetta dai medesimi vizi (anche sotto il profilo dei presupposti dell’illecito aquiliano) di quella annullata dal primo giudice.

Non si vede dove il Tribunale regionale abbia operato dunque quella attualizzazione delle somme dovute che le Amministrazioni reputano errata e contraria agli indirizzi della Corte di cassazione.

f) La liquidazione delle spese di giudizio appare congrua, tenuto conto che le Amministrazioni non hanno impugnato il capo principale della sentenza (la pronunzia di annullamento), che il T.A.R ha correttamente applicato la regola della soccombenza e che l’importo liquidato è conforme alla prassi giudiziaria per giudizi di analogo contenuto.

11. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello – come anticipato – è in parte fondato e in tale parte va pertanto accolto, con parziale riforma della sentenza impugnata secondo quanto prima si è detto.

12. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, cfr. Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663).

13. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.

14. Alla luce dell’esito della controversia, le spese del presente grado di giudizio vanno compensate fra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, secondo quanto più ampiamente esposto in motivazione, e, per l’effetto, riforma in tale parte la sentenza impugnata. Lo rigetta per il resto.

Compensa fra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità dell’interessato, manda alla segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellata.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 novembre 2016 con l’intervento dei magistrati:

Filippo Patroni Griffi – Presidente

Raffaele Greco – Consigliere

Fabio Taormina – Consigliere

Giuseppe Castiglia – Consigliere, Estensore

Nicola D’Angelo – Consiglier

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