Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione IV

sentenza 22 maggio 2014, n. 2633

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO

IN SEDE GIURISDIZIONALE

SEZIONE QUARTA

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6895 del 2006, proposto da:

Comune di Ravenna, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Fo.Pa. ed altri (…), con domicilio eletto presso Ma.Fe. in Roma, viale (…);

contro

El.Ma., Do.Mi., rappresentati e difesi dall’avv. An.Mo., con domicilio eletto presso Gi.Gr. in Roma, corso (…);

nei confronti di

Provincia di Ravenna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Lo.Va., con domicilio eletto presso Ma.Sc. in Roma, via (…);

e con l’intervento di

ad adiuvandum:

Regione Emilia Romagna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Fa.Da., con domicilio eletto presso Gi.Gr. in Roma, corso (…);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Emilia Romagna – Bologna, Sezione I, n. 00609/2006, resa tra le parti, concernente approvazione piano urbanistico attuativo

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 marzo 2014 il Cons. Giuseppe Castiglia e uditi per le parti gli Avvocati Fo.Pa. ed altri (…);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

I signori El.Ma. e Do.Mi. sono proprietari di un’area nella località S. Stefano di Ravenna, destinata dal PRG del 1993 a zona C2 (nuovi insediamenti prevalentemente residenziali e, residualmente, ad attrezzature) da attuarsi mediante piano urbanistico esecutivo – PUE (successivamente denominato piano urbanistico attuativo – PUA).

Il 19 gennaio 2005 essi, insieme con altri proprietari del medesimo ambito, hanno chiesto al Comune la prescritta autorizzazione preventiva alla presentazione del piano, accordata con provvedimento dirigenziale n. 39207 del 18 maggio dello stesso anno. Ne è seguita, in data 22 giugno 2005, la presentazione del piano.

Senonché il giorno seguente, con deliberazione n. 117, il Consiglio comunale di Ravenna ha adottato il piano strutturale comunale – PSC, insieme con le relative NTA, che ha classificato il comparto in questione come “spazio rurale” e, in minima parte, “sistema della mobilità”.

Di conseguenza, con provvedimento n. 51060 in data 15 luglio 2015, il dirigente del servizio gestione urbanistica ha disposto la sospensione del procedimento di approvazione del PUA, applicando le misure di salvaguardia per contrasto con il PSC, adottato nel frattempo.

Pertanto i signori Ma. e Mi. hanno proposto ricorso, impugnando

– la determinazione dirigenziale n. 51060 del 2005;

– la deliberazione consiliare n. 117 del 23 giugno 2005;

– occorrendo, la determinazione dirigenziale n. 64317 del 24 agosto 2005, di interpretazione delle norme transitorie delle NTA.

Con sentenza 8 maggio 2006, n. 608, il TAR per l’Emilia-Romagna ha accolto in parte il ricorso, annullando la determinazione dirigenziale citata e gli artt. 1 e 15 delle NTA al PSC per violazione degli artt. 41 e 43 della legge regionale 24 marzo 2000, n. 20 e falsa applicazione dell’art. 12 della medesima legge.

In sintesi, il Tribunale regionale ha ritenuto che l’assenza di autonoma capacità conformativa del PSC, la non diretta applicabilità dello stesso, la mancanza di una definitiva tavola di corrispondenza tra vecchia e nuova zonizzazione escludessero la possibilità del ricorso alle misure di salvaguardia. Il Comune si sarebbe dovuto invece adeguare alla disciplina transitoria della legge regionale richiamata, dando attuazione alle previsioni contenute nel PRG vigente sino all’approvazione di tutti i nuovi strumenti (PSC; regolamento urbanistico e edilizio – RUE; piano operativo comunale – POC), dalla quale solo deriverebbe l’effettività delle previsioni urbanistiche successivamente adottate.

Il Comune di Ravenna ha interposto appello contro la sentenza e ne ha anche chiesto la sospensione dell’efficacia esecutiva, formulando una domanda cautelare che la Sezione ha accolto con ordinanza 3 novembre 2006, n. 5763.

Nel merito, il Comune deduce la violazione di legge e l’illogicità della motivazione con riguardo a due distinti profili.

1. Quanto all’annullamento dell’art. 15 delle NTA e del provvedimento dirigenziale n. 51060 del 2005, il TAR, nel ricostruire la transizione dal vecchio al nuovo modello di pianificazione urbanistica generale, avrebbe erroneamente ritenuto applicabili le sole disposizioni dettate dagli artt. 41 e segg. della legge regionale n. 20 del 2000, escludendo le misure di salvaguardia previste dall’art. 12 della medesima legge.

Con tale art. 12, la Regione si sarebbe conformata alla norma posta dall’articolo unico della legge 3 novembre 1952, n. 1902, poi rifluita nell’art. 12, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (c.d. testo unico dell’edilizia; d’ora in poi: t.u.), norma che rappresenterebbe un principio fondamentale, non derogabile da parte del legislatore regionale a norma dell’art. 117, terzo comma, Cost.

Adeguandosi a tale principio, la Regione ne avrebbe esteso il campo di applicazione, prevedendo la salvaguardia anche per gli strumenti di pianificazione territoriale (e non solo per quelli di pianificazione urbanistica) rispetto alle istanze volte a ottenere sia titoli edilizi singoli che strumenti urbanistici attuativi.

La disposizione dell’art. 12, dunque, avrebbe valenza generale e – pena, altrimenti, la compromissione della sua rilevanza pratica – non presupporrebbe affatto la messa a regime del nuovo modello di pianificazione attraverso l’approvazione di tutti gli strumenti in cui questo si articola. Nelle more, anzi, ancora più avvertita sarebbe l’esigenza di evitare la compromissione del territorio.

Quanto poi alla norma transitoria dell’art. 41, essa sarebbe in parte ovvia (il comma 1, che stabilisce la continuità nell’applicazione del PRG sino all’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici), in parte servirebbe a indicare quali varianti dei previgenti strumenti urbanistici generali siano ammissibili in pendenza dell’adozione della strumentazione generale sostitutiva di quella precedente.

Dal combinato disposto degli artt. 12 e 41 risulterebbe che, sino all’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici generali, varrebbe il precedente PRG, con applicazione delle misure di salvaguardia a tutela di tutti i nuovi strumenti, a partire dal PSC. Questo non sarebbe un semplice documento programmatico o una dichiarazione di intenti, ma – a norma dell’art. 28 – avrebbe una evidente capacità conformativa del territorio, il quale rischierebbe di essere danneggiato ove dall’approvazione di tale piano non discendesse la possibilità di adottare misure di salvaguardia.

L’applicabilità dell’art. 12 deriverebbe anche da ciò, che le misure di salvaguardia previste dalla disposizione varrebbero con riferimento non solo ai piani urbanistici, ma anche ai piani territoriali (di livello superiore a quello comunale: provinciale o regionale). Ne risulterebbe confermata la sussistenza dell’esigenza di salvaguardia delle scelte di pianificazione aventi a oggetto la conformazione del territorio, siano esse contenute in piani territoriali o piani urbanistici comunali.

La sentenza sarebbe poi contraddittoria nella parte in cui ammetterebbe che il PSC, pur non avendo – in tesi – intrinseche caratteristiche conformatorie, meriterebbe tuttavia il beneficio della salvaguardia, una volta completato il nuovo modello pianificatorio.

In termini di comparazione tra vecchia e nuova disciplina, sarebbe irragionevole e contrario ai principi di buona amministrazione il rilievo per cui la salvaguardia presupporrebbe la conformazione edificatoria, che, attuata in precedenza dal PRG, secondo la successiva strumentazione, discenderebbe solo dal combinato disposto di PSC, POC e RUE.

La circostanza che l’art. 12 non sia compreso nel titolo della legge dedicato alle “disposizioni transitorie e finali” sarebbe irrilevante. La legge andrebbe invece interpretata nel suo complesso, cosa che il giudice di primo grado avrebbe trascurato di fare, giungendo a conclusioni contrastanti con norme costituzionali (art. 117, terzo comma, 3 e 97 Cost.), al punto tale che, se quella interpretazione dovesse ritenersi corretta, andrebbe sollevata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 12, 41 e 43 della legge regionale n. 20 del 2000, in rapporto agli articoli della Costituzione di cui si è appena detto.

2. Quanto all’annullamento dell’art. 1 delle NTA, che attribuirebbe al PSC in itinere valenza di variante generale al PRG, il Tribunale territoriale l’ha motivato sulla base dell’art. 43, terzo comma, della legge regionale, a detta del quale la revisione del PRG potrebbe avvenire solo a seguito della contestuale adozione di PSC, RUE e POC. La relativa censura sarebbe infondata (per le ragioni esposte sub 1) e ancor prima inammissibile per carenza di interesse, dato che la fonte della salvaguardia risiederebbe non in tale ultima disposizione, ma nell’art. 12 della legge.

I signori Ma. e Mi. si sono costituiti in giudizio per resistere all’appello.

La Provincia di Ravenna, non costituita in primo grado, ha proposto appello incidentale improprio, in adesione alle tesi del Comune. La Provincia insiste particolarmente sull’art. 12 della legge regionale, la lettera b) del quale contemplerebbe testualmente l’obbligo di sospendere l’approvazione di strumenti sottordinati di pianificazione urbanistica che siano in contrasto con le prescrizioni del piano adottato. Nel caso di specie, la circostanza che il PUA degli appellati contenesse previsioni di attuazione in contrasto con la zonizzazione fissata dal PSC adottato avrebbe imposto l’adozione della misura di salvaguardia.

La Regione Emilia Romagna, allegando il proprio interesse istituzionale al governo del territorio, ha svolto intervento ad adiuvandum. La Regione analizza dettagliatamente i contenuti della propria legge n. 20 del 2000, insiste sul carattere conformativo della proprietà che andrebbe riconosciuto al PSC, nella misura in cui questo attribuisce o nega valore edificatorio a diversi ambiti del territorio, sottolinea l’interesse pubblico a che le misure di salvaguardia possano salvaguardare le previsioni dello strumento urbanistico in itinere.

Gli appellati hanno esposto le loro ragioni in una successiva memoria. Essi aderiscono alle argomentazioni della sentenza impugnata e danno conto del disegno di legge presentato il 9 ottobre 2006 dalla Giunta regionale per “interpretare autenticamente” gli artt. 12 e 41 della legge n. 20 del 2000, in senso difforme rispetto all’interpretazione data dal TAR alla disciplina transitoria, e modificare l’art. 28. Solo in apparenza la nuova disciplina proposta avrebbe natura interpretativa: essa, pertanto, non potrebbe essere applicata alla presente controversia.

In vista dell’udienza di discussione, le parti hanno depositato memorie, nelle quali ribadiscono le rispettive ragioni.

Il Comune di Ravenna, poi, segnala l’avvenuta approvazione della legge regionale 6 luglio 2009, n. 6, e in particolare della disposizione – autoqualificata di interpretazione autentica – dell’art. 57, relativa all’art. 41, comma 1, della precedente legge regionale n. 20 del 2000. La nuova disposizione mantiene ferma l’immediata applicazione delle misure di salvaguardia previste dall’art. 12 della medesima legge n. 20 del 2000, a seguito dell’adozione di ciascuno dei piani previsti dalla normativa urbanistica regionale (PSC, RUE o POC).

Gli appellati insistono sul carattere innovativo (dunque, non interpretativo e perciò non retroattivo) delle nuove norme e ribadiscono la tesi di fondo: in attesa del completamento della nuova strumentazione urbanistica il Comune, per evitare la temuta manomissione del territorio, avrebbe dovuto applicare l’art. 41 della legge n. 20 del 2000, approvando una variante specifica al precedente PRG.

Il Comune ha replicato con una successiva memoria.

All’udienza pubblica del 25 marzo 2014, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. La legge generale sulla tutela e l’uso del territorio della Regione Emilia-Romagna (n. 20 del 2000, più volte citata in narrativa) prevede un articolato sistema di pianificazione territoriale e urbanistica, definita “funzione fondamentale di governo della Regione, delle Province e dei Comuni” (art. 2, comma 1).

Nell’ambito delle rispettive competenze, la pianificazione territoriale spetta alla Regione, che approva il piano territoriale regionale – PTR (art. 23) e il piano territoriale paesistico regionale – PTPR (art. 24), e alla Provincia, che approva il piano territoriale di coordinamento provinciale – PTCP (art. 26).

La pianificazione urbanistica è attribuita ai Comuni e si articola attraverso il complesso degli strumenti ricordati in narrativa: piano strutturale comunale – PSC (art. 28), regolamento urbanistico e edilizio – RUE (art. 29), piano operativo comunale – POC (art. 30), piani urbanistici attuativi – PUA (art. 31).

Il titolo IV della legge (articoli da 41 a 44) realizza il raccordo fra la vecchia disciplina, imperniata sul PRG, e quella nuova.

Collocata formalmente al di fuori delle norme transitorie è l’art. 12, che disciplina le misure transitorie e, nel testo vigente all’epoca dei fatti, dispone che:

“1. A decorrere dalla data di adozione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, le amministrazioni pubbliche sospendono ogni determinazione in merito:

a) all’autorizzazione di interventi di trasformazione del territorio che siano in contrasto con le previsioni dei piani adottati o tali da comprometterne o renderne più gravosa l’attuazione;

b) all’approvazione di strumenti sottordinati di pianificazione territoriale e urbanistica che siano in contrasto con le prescrizioni del piano adottato.

2. La sospensione di cui al comma 1 opera fino alla data di entrata in vigore del piano e comunque per non oltre cinque anni dalla data di adozione, salvo diversa previsione di legge”.

2. Come sintetizza bene il punto la memoria degli appellati in data 23 ottobre 2006, il vero nodo del problema concerne l’applicabilità di tali misure di salvaguardia in un momento in cui, mancando la contestuale adozione di PSC, RUE e POC, il nuovo sistema urbanistico non è ancora a regime.

In linea di principio, nessuna delle parti sostiene che la fase di passaggio produca una situazione di anarchia, nella quale il territorio regionale resti abbandonato alle non regolate iniziative dei privati. In altri termini, nessuno dubita che la trasformazione di regime non faccia venire meno una generale esigenza di evitare compromissioni di quel territorio.

Peraltro, condivisa quella premessa, si contrappongono due tesi:

– secondo la Regione e gli enti locali, già l’adozione di un solo strumento generale di pianificazione territoriale e urbanistica (nel caso di specie: l’avvenuta approvazione del PSC di Ravenna) legittimerebbe il ricorso alle misure di salvaguardia;

– secondo i privati appellati (ed è questo l’orientamento cui ha aderito il TAR), l’applicabilità delle misure di salvaguardia presupporrebbe la compiuta integrazione dei nuovi strumenti programmatori. Prima di ciò, continuerebbero ad avere vigore le prescrizioni del precedente PRG (art. 41), cosicché il Comune, per evitare che atti presi in conformità a tale precedente regime producano conseguenze non volute sul proprio territorio, dovrebbe ricorre a una delle varianti specifiche previste dall’art. 15 della legge regionale 7 dicembre 1978, n. 47.

3. Nell’intento di definire la questione di principio controversa, nelle more del giudizio (dopo la sentenza del TAR e prima della decisione dell’appello) il Governo regionale si reso promotore di un’iniziativa, che ha condotto all’introduzione, nella legge regionale n. 6 del 2009, di un art. 56 del seguente tenore:

“1. L’articolo 41, comma 1, della legge regionale n. 20 del 2000 si interpreta nel senso che, in via di prima applicazione della medesima legge regionale, le previsioni dei vigenti piani regolatori generali sono attuate dai Comuni fino a quando le stesse non siano state, espressamente o implicitamente, sostituite o abrogate da quanto stabilito dal PSC, dal RUE o dal POC, ferma restando l’immediata applicazione delle misure di salvaguardia, di cui all’articolo 12 della medesima legge regionale, a seguito dell’adozione di ciascuno dei suddetti piani”.

La relazione al disegno di legge fa espresso riferimento alla sentenza del TAR n. 609 del 2006, impugnata in questa sede, e alla necessità di superare le “numerose incertezze” che essa avrebbe prodotto “circa l’efficacia delle scelte pianificatorie operate da detto piano strategico e circa la idoneità dello stesso a incidere direttamente sul sistema insediativo definito dal previgente PRG comunale”. Apparirebbe poi utile “accompagnare questo intervento legislativo con … un chiarimento della operatività generale delle misure di salvaguardia, per tutte le previsioni dei piani adottati”.

4. Tuttavia la parte appellata sostiene che la nuova disposizione fittiziamente si autodefinirebbe di interpretazione autentica. In realtà essa, modificando espressamente la precedente disciplina, avrebbe carattere innovativo e come tale, priva di retroattività, non potrebbe essere applicata alla presente fattispecie.

Questa contestazione, a sua volta, è suscettibile di condurre a un ulteriore sviluppo, che per la verità le parti non prospettano: se cioè la norma regionale del 2009, ove falsamente interpretativa, dovrebbe essere – per dir così – corretta in sede di interpretazione (letta cioè come modificativa della normativa preesistente e dunque applicabile solo de futuro) ovvero impugnata per illegittimità costituzionale, per avere ecceduto i limiti intrinseci – secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (si veda, da ultimo, la sentenza 17 dicembre 2013, n. 308) – alla portata retroattiva delle leggi di interpretazione autentica.

Il Collegio è però dell’avviso di poter prescindere dall’esame della questione, in quanto ritiene che l’ordinamento nel suo insieme offra indici alla stregua dei quali occorre concludere che il Comune di Ravenna ha correttamente applicato, nella vicenda, le misure di salvaguardia.

5. A questo proposito, si devono prendere le mosse dalla disposizione dell’art. 12, comma 3, t.u., secondo la lettura che ne ha dato l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato.

La disposizione stabilisce che “in caso di contrasto dell’intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all’amministrazione competente all’approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione”.

Svolgendo considerazioni da cui non vi è motivo per discostarsi in questa sede, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che la norma:

ha valenza mista: edilizia, da un lato, in quanto volta a incidere sui tempi dell’attività edificatoria; urbanistica, dall’altro, in quanto finalizzata alla salvaguardia, in definiti ambiti temporali, degli assetti urbanistici in itinere e, medio tempore, dell’ordinato assetto del territorio;

ha carattere di principio, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., e prevale sulle previgenti disposizioni legislative regionali, ove difformi.

Proprio per in ragione di tale carattere di principio che essa riveste, la norma ricordata deve essere considerata parametro di interpretazione e applicazione della disciplina vigente in materia, anche se di fonte regionale.

6. A dire il vero, vi è una difformità tra la fattispecie disciplinata dalla norma del t.u. e la specifica vicenda qui in esame: la norma ipotizza un contrasto fra strumento urbanistico e domanda di permesso di costruire, mentre qui il contrasto allegato è fra lo strumento urbanistico generale e il piano attuativo.

Tale differenza però è, ad avviso del Collegio, concretamente irrilevante. Nella specie, il contrasto non è contestato in punto di fatto (le opinioni divergono sugli strumenti di risoluzione del conflitto) e il dato di fondo della questione è comunque nella sorte di atti di iniziativa in privata che contraddicano una strumentazione urbanistica in itinere.

7. Da questo punto di vista, la discussione se il PSC abbia o no immediato effetto conformativo si rivela poco utile. Non c’è dubbio, infatti, che il piano non sia un semplice documento di indirizzo politico o una dichiarazione programmatica, ma rappresenti il primo atto di una complessa regolamentazione “a cascata”, che per essere pienamente efficace richiederà l’approvazione dei successivi strumenti di dettaglio.

Ma, allora, non appare corretto ridurre il PSC, di per sé, a mero flatus vocis. Si tratta piuttosto di vedere se le prescrizioni che esso reca siano suscettibili di produrre un effetto immediato, se non in termini positivi (attribuzione di diritti edificatori, apposizione del vincolo preordinato all’esproprio), almeno in termini negativi (per escludere, cioè, la possibilità di imprimere ad alcune zone determinate destinazioni).

8. La risposta al quesito non può che essere affermativa.

L’art. 28, comma 1, lett. d) della legge n. 20 del 2000 stabilisce che il PSC – oltre a svolgere differenti funzioni – “classifica il territorio comunale in urbanizzato, urbanizzabile e rurale”.

A questo proposito, a buon diritto l’appello del Comune afferma che, rispetto alla futura attività edificatoria, l’innovativa disciplina regionale prefigura “una conformazione edificatoria processuale”, che prende avvio con l’individuazione, da parte del PSC, degli ambiti suscettivi di sviluppo insediativo.

Su tali premesse, appare evidente che l’area degli appellanti, nell’ambito della nuova strumentazione urbanistica comunale, non potrebbe mai essere utilizzata nel senso che gli appellanti auspicano e che perseguivano con il PUA sospeso.

9. Come si è anticipato, la questione concerne allora il mezzo tecnico da utilizzare per evitare che, nel frattempo, il territorio subisca una trasformazione in contrasto radicale rispetto alle scelte perseguite in sede di pianificazione generale.

In tale prospettiva, il ricorso alla variante di PRG sembra davvero un rimedio eccessivo rispetto al fine, per essere in contrasto con i criteri di buona, sollecita ed efficiente amministrazione. A ben vedere, d’altronde, la sintesi della tesi contraria è data da ciò, che l’art. 12 della legge regionale non è contenuto nel titolo dedicato alle disposizioni transitorie. Argomento puramente formale se non del tutto formalistico, come dovrebbe apparire invece evidente, al quale – formalismo per formalismo – si potrebbe anche opporre il dato testuale che il comma 1 dello stesso art. 12 prende a punto di riferimento la data di adozione “degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica” e non quella di tutti gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica disciplinati dalla presente legge e delle relative varianti”, come invece si esprime la novella introdotta dall’articolo 18 della legge regionale n. 6 del 2009.

E neppure è decisivo è l’argomento che si vorrebbe trarre dall’art. 41. Questa, in realtà, è una “norma ponte”, che stabilisce quali iniziative urbanistiche i Comuni possono assumere in base ai PRG previgenti sino all’entrata in vigore della nuova strumentazione, e nulla se ne può inferire circa la pretesa necessità che solo dopo l’integrazione di tale disciplina innovativa sia consentito esperire le misure di salvaguardia ex art. 12.

Il che, ovviamente, non esclude che, quando la ritenga opportuno, il Comune – a ciò espressamente autorizzato dall’art. 41 – possa procedere a una variante al preesistente PRG (come nel caso deciso da Cons. Stato, sez. III, 4 gennaio 2012, n. 11, che la parte appellante e quella appellata richiamano entrambe, ma non discute comunque la questione delle misure di salvaguardia).

10. Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello è fondato e va perciò accolto. Ne segue la riforma della sentenza impugnata e la reiezione del ricorso di primo grado.

Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.

Le spese seguono la soccombenza, conformemente alla legge, e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta – definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.

Condanna la parte soccombente alle spese, che liquida nell’importo di euro 3.000,00 (tremila/00), oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2014 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Virgilio – Presidente

Diego Sabatino – Consigliere

Raffaele Potenza – Consigliere

Umberto Realfonzo – Consigliere

Giuseppe Castiglia – Consigliere, Estensore

Depositata in Segreteria il 22 maggio 2014.

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