Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 14 febbraio 2017, n. 628

L’annullamento giurisdizionale del permesso, operando retroattivamente, rende l’opera realizzata sine titulo e la esclude dalla condonabilità ex art. 32 del decreto-legge n. 269/2003.

Consiglio di Stato

sezione IV

sentenza 14 febbraio 2017, n. 628

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Quarta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7667 del 2006, proposto dai signori En. Sp. ed altri, rappresentati e difesi dagli avvocati Lu. Ma., Iv. Ca. e Do. Br., con domicilio eletto presso il primo difensore in Roma, via (…);

contro

Lu.Co. ed altri, rappresentati e difesi dagli avvocati An. Li. e St. Ba., con domicilio eletto presso il primo difensore in Roma, via (…);

nei confronti di

Comune di (omissis), in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Cl. Io. e Gi.Po., con domicilio eletto presso il primo difensore in Roma, via (…);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per il Veneto, sezione II, n. 1884/2006, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 gennaio 2017 il consigliere Giuseppe Castiglia;

Uditi per le parti gli avvocati An.Re. D’A. in dichiarata sostituzione dell’avvocato Lu. Ma. e Li. anche per delega dell’avvocato Ba.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. I signori En. Sp. ed altri, a seguito dell’annullamento giurisdizionale di precedenti titoli edilizi, hanno presentato istanza di concessione di condono edilizio per un fabbricato nel frattempo costruito nel territorio del Comune di (omissis), che l’Amministrazione ha accolto con provvedimento n. 6/03 del 22 novembre 2005.

2. I signori Lu.Co. ed altri, proprietari confinanti e autori dei ricorsi che avevano condotto alle ricordate sentenze di annullamento, hanno impugnato il provvedimento comunale, proponendo un ricorso che il T.A.R. per il Veneto, sez. II, ha accolto con sentenza in forma semplificata 19 giugno 2006, n. 1884, compensando le spese di giudizio. Il Tribunale regionale ha ritenuto fondate le censure di: I) mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento; II) contrasto dell’opera con il vincolo ambientale e paesaggistico e con lo strumento urbanistico in vigore, avendo il lotto in questione esaurito la sua capacità edificatoria e ponendosi dunque il condono in conflitto con le previsioni del P.R.G.

3. I soggetti soccombenti in primo grado hanno interposto appello contro la sentenza affidandolo a tre motivi di ricorso:

a) la violazione dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sarebbe irrilevante ai sensi dell’art. 21 octies della medesima legge, posto che l’Amministrazione non disporrebbe di alcun potere discrezionale in ordine alla richiesta di condono, dovendosi limitare ad accertare la sussistenza dei presupposti di legge; il provvedimento impugnato, pertanto, avrebbe carattere vincolato e non sarebbe viziato dalla mancata osservanza delle formalità partecipative, poiché non avrebbe potuto avere in concreto contenuto diverso da quello adottato;

b) l’art. 32, comma 27, lett. d), del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (convertito, con modificazioni, in legge 24 novembre 2003, n. 326) non escluderebbe in maniera assoluta la condonabilità degli edifici abusivi in zona di vincolo paesaggistico, in quanto l’incipit della disposizione (con l’espresso richiamo degli articoli 32 e 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47) dimostrerebbe la possibilità di condono anche delle opere realizzate in aree vincolate e – salve alcune ipotesi particolari, non ricorrenti nella fattispecie – solo la condizionerebbe al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo;

c) la disposizione richiamata sarebbe comunque inapplicabile alla vicenda, dato che essa presupporrebbe un’opera eseguita in assenza o in difformità dal titolo edilizio; la concreta fattispecie, caratterizzata invece dall’annullamento del titolo, sarebbe strutturalmente diversa e renderebbe inapplicabile la disposizione, anche in considerazione dell’affidamento ingenerato nel privato dal rilascio del titolo e della mancanza di lesione all’assetto del territorio, accertata dal nulla osta paesistico che aveva preceduto il rilascio della concessione edilizia poi annullata.

4. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio per aderire all’appello.

5. Gli originari ricorrenti si sono anch’essi costituiti in giudizio per resistere al gravame riproponendo i due motivi del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado accolti dal T.A.R. [lett. a) e b)] come pure le due censure non prese in esame in prime cure [lett. c) e d)] e dunque sostenendo:

a) la necessità della comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, la cui omissione avrebbe impedito di svolgere in sede istruttoria quell’utile apporto procedimentale che ha trovato invece spazio e accoglimento in sede giurisdizionale, sfociando nella decisione impugnata;

b) l’applicabilità dell’art. 32, comma 27, del decreto-legge n. 269/2003: l’inciso “comunque” renderebbe non suscettibile di sanatoria, senza eccezione alcuna, le opere realizzate in aree soggette a vincolo ambientale o paesaggistico e – come avrebbe riconosciuto anche la Corte costituzionale – la relativa disciplina sarebbe significativamente e intenzionalmente restrittiva rispetto a quella contenuta nei condoni precedenti; l’annullamento giurisdizionale del titolo, retroagendo, renderebbe l’opera compiuta in assenza del titolo edificatorio; l’autorizzazione ambientale richiamata dagli appellanti sarebbe scaduta per il decorso del termine quinquennale di efficacia;

c) l’illegittimità della sanatoria perché rilasciata a persona già deceduta (il signor Da. Sp.);

d) l’utilizzazione, ai fini del rilascio del condono, di un’autorizzazione ambientale priva di efficacia.

6. In data 6 dicembre 2016 gli appellanti hanno depositato una corposa documentazione concernente un “accordo di programma pubblico-privato” concluso con il Comune, il quale contemplerebbe l’attribuzione agli appellanti stessi di un’ulteriore volumetria pari al volume nel frattempo realizzato in cambio dell’impegno a effettuare un intervento di interesse generale. L’accordo, già in parte eseguito, sarebbe stato impugnato innanzi al T.A.R. dai controinteressati, che avrebbero però trascurato di proporre una domanda sospensiva. Anche alla luce dell’art. 1227 c.c., dovrebbe pertanto ritenersi venuto meno l’interesse dei ricorrenti alla decisione del gravame contro l’accordo e si configurerebbe l’esigenza della sospensione del presente giudizio sino alla definizione di tale successivo ricorso.

7. Con memorie depositate il 19 e il 29 dicembre 2016, gli appellati hanno ribadito le proprie ragioni e si sono opposti alla sospensione del processo.

8. All’udienza pubblica del 19 gennaio 2017, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

9. In via preliminare, il Collegio:

a) osserva che la ricostruzione in fatto, sopra riportata e ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non è stata contestata dalle parti costituite ed è comunque acclarata dalla documentazione versata in atti. Di conseguenza, vigendo la preclusione posta dall’art. 64, comma 2, c.p.a., devono darsi per assodati i fatti oggetto di giudizio;

b) ritiene infondata e dunque da respingere la richiesta di sospensione del processo, formulata dagli appellanti in relazione ad altro ma connesso giudizio incardinato presso il T.A.R. per il Veneto, sia perché la tesi della sopravvenuta carenza di interesse alla decisione nel merito di tale ricorso, quale risulterebbe dalla mancata proposizione della domanda sospensiva dell’accordo impugnato, è allo stato un’illazione tutta da dimostrare, sia perché la sospensione medesima non rientrerebbe in alcuna delle ipotesi cui fa rinvio l’art. 79, comma 1, c.p.a.

10. Per ragioni di economia di atti, il Collegio ritiene di iniziare dal vaglio del secondo e del terzo motivo dell’appello, che possono essere esaminati congiuntamente. Tali motivi sono infondati.

10.1. Viene in questione l’art. 32, comma 27, del decreto-legge n. 269/2003 che, nel testo vigente all’epoca, disponeva:

“Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora:

….

d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;

….”.

10.2. Gli appellanti non possono essere seguiti là dove, enfatizzando il valore dell’incipit del comma 27, finiscono per darne sostanzialmente una interpretatio abrogans, mentre invece è chiaro che, nel riaprire i termini del condono per ragioni dichiaratamente “di cassa”, il legislatore ha inteso circoscriverne con maggior rigore i presupposti di applicabilità (cfr. Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196, § 17 del considerato in diritto; Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2016, n. 5157 e n. 5158) escludendone in ogni caso – e pur fermo il quadro generale costituito dagli artt. 32 e 33 della legge n. 47/1985, tuttavia derogati in parte qua – le opere realizzate: I) su immobili soggetti a preesistenti vincoli ambientali, paesaggistici o simili; II) in assenza o in difformità dal titolo edilizio; III) non conformi alla disciplina urbanistica locale.

10.3. Ora, nel caso di specie:

a) il vincolo paesaggistico e la sua preesistenza non sono contestati (poiché si tratta di un ostacolo non suscettibile di essere superato dal parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, non occorre neppure occuparsi del profilo concernente la discussa perdita di efficacia dell’autorizzazione ambientale a suo tempo rilasciata dall’Amministrazione competente);

b) l’annullamento giurisdizionale del permesso, operando retroattivamente, rende l’opera realizzata sine titulo e la esclude dalla condonabilità ex art. 32 del decreto-legge n. 269/2003 (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 23 aprile 2009, n. 4), anche perché – per considerare un altro argomento degli appellanti – l’eventuale affidamento dei privati sulla validità di un titolo edilizio poi acclarato come illegittimo non può influire sui rapporti con gli altri privati controinteressati e, in quanto la situazione di affidamento si configura solamente nei confronti dell’annullamento in sede amministrativa e non in sede giurisdizionale, non vincola il giudice chiamato a decidere sull’azione di annullamento;

c) non è in discussione l’esaurimento della capacità edificatoria dell’area e dunque il contrasto con il P.R.G. locale.

10.4. Per semplice completezza espositiva, il Collegio osserva che a conclusioni non dissimili si giungerebbe facendo riferimento alla parimenti se non ancor più restrittiva disciplina regionale di cui il comma 2 dell’art. 32 prevedeva l’adeguamento (art. 3, comma 3, della legge della Regione Veneto 5 novembre 2004, n. 21, peraltro – ai sensi dell’art. 2 – non applicabile alla domanda di condono presentata il 30 marzo 2004).

11. Respinti il secondo e il terzo motivo dell’appello, ora vagliati, la decisione impugnata regge per ciò solo alle critiche che le sono state mosse. Rimane assorbito il primo motivo, tenuto conto dei principi elaborati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato con la sentenza 27 aprile 2015, n. 5.

12. Dalle considerazioni che precedono discende che – come anticipato – l’appello è infondato e va perciò respinto, con conferma della sentenza gravata.

13. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, cfr. Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663).

14. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

15. Le spese di lite seguono la regola ordinaria della soccombenza nei confronti degli appellanti e sono liquidate in dispositivo secondo i parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55. Possono essere compensate con il Comune di (omissis), considerato il ruolo marginale svolto dall’ente nel presente giudizio di appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Condanna gli appellanti soccombenti in solido al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore dei privati appellati, e le liquida complessivamente nell’importo di euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre agli accessori di legge (15% a titolo di rimborso delle spese generali, I.V.A. e C.P.A.).

Compensa le medesime spese nei riguardi del Comune di (omissis).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 gennaio 2017 con l’intervento dei magistrati:

Filippo Patroni Griffi – Presidente

Fabio Taormina – Consigliere

Oberdan Forlenza – Consigliere

Giuseppe Castiglia – Consigliere, Estensore

Daniela Di Carlo –

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