Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione III

sentenza 20 marzo 2015, n. 1537

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE TERZA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6286 del 2008, proposto da:
Ro.Gi., rappresentato e difeso dagli avv. Al.Co.Pi. e Gi.Ia., con domicilio eletto presso Al.Co.Pi. in Roma, Via (…);
contro
Ministero delle Comunicazioni in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via (…);
nei confronti di
Po. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. An.Te.La., con domicilio eletto presso Ufficio Legale Poste in Roma, (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. TOSCANA – FIRENZE SEZIONE I n. 01334/2007, resa tra le parti, concernente della sentenza del T.A.R. TOSCANA – FIRENZE SEZIONE I n. 01334/2007
Visto il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Po.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 26 febbraio 2015 il Cons. Roberto Capuzzi e uditi per le parti gli avvocati Al.Co.Pi. ed altri;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. – Con ricorso davanti al Tar Toscana il ricorrente, già dipendente delle Po. ed in servizio presso l’Ufficio corrispondenze e pacchi di Lucca riferiva che in data 5 dicembre 1987 veniva denunciato all’autorità giudiziaria per i reati previsti dagli articoli 479 e 640 del codice penale per essersi attribuito un maggior numero di ore di lavoro straordinario e di indennità notturne, alterando i relativi dati al fine di ottenere un ingiusto profitto di lire 4.740.900. Per tale ragione veniva disposta nei suoi confronti la sospensione cautelare dal servizio. Successivamente, il Tribunale di Lucca lo condannava, ex articolo 444 del codice di procedura penale, alla pena di mesi 6 di reclusione per il reato di cui all’articolo 479 del codice penale, dichiarando non doversi procedere per il reato di cui all’articolo 640, in quanto estinto per amnistia.
Con nota del 6 marzo 1992 veniva comunicata al ricorrente la pendenza del procedimento disciplinare a conclusione del quale, in data 20 agosto 1992, gli veniva notificato il provvedimento di destituzione dall’impiego.
Il ricorrente chiedeva l’annullamento di tale atto deducendo i seguenti motivi:
1. Violazione dell’art. 3 della l. 7 agosto 1990 n. 241.
2. Eccesso di potere per carenza di motivazione.
3. Eccesso di potere per carenza di motivazione sotto altro profilo.
4. Eccesso di potere per violazione dell’art. 84, lett. a) e c) del dPR n. 3/1957.
Il Tar respingeva i primi tre motivi di impugnazione inerenti alla insufficienza della motivazione dell’atto impugnato, che lamentavano che l’Amministrazione non aveva valorizzato autonomamente gli aspetti della vicenda in relazione al comportamento tenuto anche successivamente dall’interessato che aveva provveduto a risarcire il danno causato. Il primo giudice osservava che il provvedimento ministeriale impugnato richiamava la deliberazione n. 57 dell’1 giugno 1992 del Consiglio di disciplina con la quale veniva adeguatamente esplicitato l’iter logico seguito nella determinazione dei fatti e la conclusiva valutazione del loro autonomo disvalore sul piano disciplinare.
Inoltre non avrebbe potuto affermarsi che l’Amministrazione aveva fatto automatica applicazione delle valutazioni già compiute dal giudice penale nella sentenza di condanna.
Invero nell’ambito dei propri poteri l’amministrazione era tenuta a valutare la rilevanza disciplinare di tali fatti, ma non aveva l’onere di rinnovare gli accertamenti relativi alla loro esistenza o consistenza già compiuti dal giudice penale né poteva rivestire rilevanza, ai fini della affermazione della responsabilità disciplinare, il comportamento tenuto successivamente dal ricorrente.
Secondo il primo giudice infondata era anche la censura che la sanzione disciplinare irrogata non era proporzionale alla gravità del comportamento.
Il Tar rilevava infatti che secondo costante giurisprudenza, il giudice amministrativo non può valutare autonomamente il fatto addebitato all’impiegato quale illecito disciplinare in quanto l’apprezzamento della punibilità di un comportamento rientra nella sfera di giudizio discrezionale dell’amministrazione e non può essere sindacata se non per evidenti ragioni di contraddittorietà e di travisamento dei fatti che, nella fattispecie, non appaiono sussistenti.
2. – Nell’atto di appello il ricorrente si duole che la deliberazione n.57 del 1 giugno 1992 del consiglio di disciplina con la quale secondo il Tar era stato esplicitato l’iter logico seguito nella determinazione dei fatti:
-non era stata messa a disposizione del ricorrente medesimo pur rappresentando la parte sostanziale della motivazione in violazione dell’art. 3 co.3 e co. 1 della l.241 del 1990 con grave pregiudizio del diritto di difesa del dipendente;
-non era stata messa a disposizione nel processo di primo grado e quindi il giudice non aveva avuto modo di esaminarla pur argomentando il rigetto del primo motivo di ricorso facendo riferimento a tale provvedimento del quale non vi era copia negli atti di causa.
Con un secondo motivo l’appellante afferma l’ omesso esame del quarto motivo di ricorso relativo alla carenza di motivazione del provvedimento di destituzione che non avrebbe mostrato di avere tenuto conto dell’intero iter del procedimento disciplinare, né indicato la precisa qualificazione giuridica del fatto o i motivi per cui il fatto era considerato pregiudizievole per gli interessi della amministrazione ed ancora non aveva esposto le ragioni per le quali la amministrazione aveva inteso irrogare la massima sanzione della destituzione e non altra sanzione evidenziando l’influenza che avevano avuto le deduzioni del dipendente sul provvedimento e le ragioni in forza delle quali dette deduzioni sono state disattese.
La sanzione irrogata sarebbe in contrasto con l’art. 84 lett. a) e c) del dPR 10.1.1957 n.3 non potendosi rintracciare nel comportamento del ricorrente i contestati “grave abuso di fiducia” e “mancanza del senso dell’onore e del senso morale”. Avrebbe dovuto tenersi conto che comportamenti censurabili erano stati commessi dal dipendente in un ufficio sommerso dal caos per insufficienza del personale e di locali. Il fatto comunque non era stato accertato nei suoi esatti contorni e comunque era di lieve entità.
Con un ulteriore motivo il ricorrente censura la sentenza rilevando che nella fattispecie in cui i fatti di causa risalgono al 1987 mentre la condanna penale è del 1992, non è possibile applicare la disciplina di molto successiva introdotta dalla legge 27.3.2002 n.97 con la quale si è modificato l’art. 653 c.p.p. inserendo il co. 1 bis. La equiparazione, quanto agli effetti della sentenza patteggiata, alla sentenza di condanna, è stata stabilita solo con la entrata in vigore dell’art. 1 co. 2 della legge 13 dicembre 1999 n.475. Da ciò consegue che in sede disciplinare diventa necessario addivenire ad autonomo e rinnovato apprezzamento dei fatti da parte della amministrazione prima della adozione dei provvedimenti ritenuti opportuni. Di ciò non vi è traccia provvedimento impugnato.
Infine l’appellante ripropone i motivi di impugnazione dedotti in primo grado nei quali richiamava tra l’altro l’insegnamento della Corte Costituzionale secondo cui la irrogazione della sanzione espulsiva non può costituire una diretta conseguenza della applicazione di una condanna penale (Corte Cost. n.971/1988).
Si è costituita la società Po. chiedendo il rigetto del ricorso.
Con ordinanze istruttorie la Sezione ha disposto la acquisizione della deliberazione n.57 del 1992.
Il ricorrente ha depositato una ulteriore memoria difensiva.
Alla pubblica udienza del 26 febbraio 2015 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
3. – L’appello non merita accoglimento sia pure con motivazioni in parte diverse da quelle fatte proprie dal giudice di primo grado.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta che non era stata allegata e resa disponibile da parte del Ministero la deliberazione n.57 del 1° giugno 1992 del Consiglio Centrale di disciplina, richiamata per relationem nel provvedimento di destituzione impugnato “il cui testo forma parte integrante del presente decreto e le cui considerazioni si intendono integralmente riprodotte”.
Ne deriverebbe un grave error in iudicando della sentenza di primo grado che avrebbe rinviato e richiamato l’iter logico della delibera n.57 del 1992 che tuttavia non era stata acquisita nel giudizio.
Tale censura viene poi ripresa e messa in relazione al quarto motivo con il quale veniva censurata la carenza di motivazione del provvedimento di destituzione che non avrebbe tenuto conto, nell’iter del procedimento disciplinare, della necessità di una precisa qualificazione giuridica del fatto, del pregiudizio degli interessi della amministrazione, delle ragioni della irrogazione della massima sanzione della destituzione in relazione alla modestia ed irrilevanza dei fatti contestati, del rilievo delle giustificazioni sul provvedimento e dei motivi per i quali tali giustificazioni erano state disattese.
4. – Tali motivi non sono fondati.
Va premesso che il concetto di disponibilità, di cui all’art. 3, l. n. 241 del 1990, comporta, non che l’atto amministrativo menzionato per relationem debba essere unito imprescindibilmente al documento o che il suo contenuto debba essere riportato testualmente nel corpo motivazionale, bensì che esso sia reso disponibile per l’interessato a norma di legge, vale a dire che possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi.
In altri termini, detto obbligo determina che la motivazione per relationem del provvedimento debba essere portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, con la conseguenza che in tale ipotesi è sufficiente che siano indicati gli estremi o la tipologia dell’atto richiamato, mentre non è necessario che esso sia allegato materialmente o riprodotto, dovendo piuttosto essere messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte.
Si aggiunga poi che l’art. 111 co.2 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 accorda all’inquisito, in sede disciplinare, la facoltà di estrarre copia degli atti nel procedimento disciplinare che lo riguarda, atteggiandosi, questo, come principio di carattere generale, che trova la sua applicazione anche nei casi non espressamente previsti, in cui si configuri la medesima ratio di assicurare la più ampia possibilità di difesa (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4 del 07-01-1986).
Nel caso in esame, la mancata allegazione della deliberazione n.57/1992 non poteva essere assunta come un motivo di illegittimità del provvedimento di destituzione, come sembra adombrare l’appellante, atteso che l’interessato, all’epoca dei fatti ed a conclusione dell’iter disciplinare che lo destituiva dall’impiego, aveva tutte le possibilità di acquisire tale atto di cui conosceva gli estremi esatti, con gli ordinari mezzi di accesso apprestati dall’ordinamento.
Ove avesse acquisito tale atto, il ricorrente avrebbe potuto formulare censure mirate nei confronti dell’atto di destituzione, mentre nei fatti ha formulato censure astratte, disancorate dalla realtà, obliterando la delibera richiamata per relationem n.57/1992 di cui pure aveva la disponibilità legale nei sensi sopra evidenziati.
Come rilevato dalla difesa erariale nei suoi scritti difensivi in primo grado, il ricorrente non ha dimostrato alcun interesse ad accedere alla deliberazione n.57/92 che ha fornito il supporto motivazionale della sua destituzione in quanto egli non ha al riguardo formulato alcuna istanza di acquisizione nonostante che correttamente l’amministrazione ne abbia indicato gli estremi di riferimento ai sensi di legge.
D’altro canto la impossibilità, a distanza di moltissimi anni, come accertata dall’esito negativo delle istruttorie effettuate dalla Sezione, di acquisire tale atto o di ricostruirlo, ora per allora, non può essere utilizzata strumentalmente per fare conseguire al ricorrente degli inammissibili vantaggi ed in specie l’annullamento della disposta destituzione su un insieme di doglianze del tutto ipotetiche, indimostrate e quindi giuridicamente inesistenti.
Come rilevato dal giudice di primo grado, la motivazione era rappresentata proprio dalla delibera n.57/92, che era nella disponibilità legale del ricorrente per cui le censure sviluppate nel ricorso in primo grado e nell’atto di appello, in specie in ordine ad una carenza di motivazione del provvedimento di destituzione, perdono in radice di consistenza e lo stesso ricorso in primo grado, in quanto formulato al buio, in maniera ipotetica sulla base di una delibera non acquisita agli atti ma pur sempre nella disponibilità giuridica del ricorrente, presenta profili di intrinseca inammissibilità.
4 . – In ogni caso, come è reso evidente dal provvedimento di destituzione, il Consiglio di disciplina ha richiamato espressamente le due ipotesi dell’art. 84 del dPR n.3 del 1957 che prevedono la destituzione:
a) per atti i quali rivelino mancanza del senso dell’onore e del senso morale;
c) per grave abuso di autorità o di fiducia.
Le contestazioni formulate, venivano desunte in base ad un logico e ragionevole apprezzamento delle risultanze emerse nella fase istruttoria del procedimento; i fatti erano stati pacificamente ammessi dal ricorrente che aveva pure restituito la somma percepita in maniera illecita di talché la amministrazione non aveva l’onere di rinnovare gli accertamenti in fatto compiuti dal giudice sulla base della sentenza patteggiata; la denunzia era partita proprio dalla amministrazione che aveva accertato la alterazione continuativa dei dati da parte del ricorrente con attribuzione di un maggiore numero di ore di straordinario e di indennità notturne al fine di assicurarsi un ingiusto profitto. Risulta quindi infondata la doglianza per la quale l’amministrazione si sarebbe determinata alla irrogazione della sanzione con appiattimento sulla ricostruzione dei fatti quali emergenti dalla sentenza patteggiata.
La ratio della sanzione della destituzione stabilita in generale per i dipendenti pubblici dall’art. 84 lett. a) T.U. 10 gennaio 1957 n. 3, è quella di reprimere tutti i comportamenti che arrechino pregiudizio alla dignità delle funzioni esercitate e possano far temere che queste non vengano espletate correttamente, e siano in qualche modo lesivi del prestigio e del decoro dell’Amministrazione.
D’altro canto la determinazione relativa all’entità della sanzione disciplinare inflitta a un pubblico dipendente, come rilevato dal primo giudice, è espressione di tipica valutazione discrezionale della Pubblica amministrazione, di per sé insindacabile da parte del giudice amministrativo, tranne in casi in cui appaia manifestamente sproporzionata; pertanto il giudice non può sostituire la propria valutazione a quella dell’Amministrazione, ma può solo verificare che l’atto sia ragionevolmente basato su fatti particolarmente gravi tali da indurla a considerarli incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro.
5. – In conclusione per i motivi di cui sopra l’appello non merita accoglimento e la sentenza del Tar deve essere confermata sia pure con motivazione in parte diversa.
6. – Le spese e gli onorari per l’andamento della vicenda possono essere compensati.
 

P.Q.M.

 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,
lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 febbraio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Gianpiero Paolo Cirillo – Presidente
Vittorio Stelo – Consigliere
Angelica Dell’Utri – Consigliere
Roberto Capuzzi – Consigliere, Estensore
Lydia Ada Orsola Spiezia – Consigliere
Depositata in Segreteria il 20 marzo 2015.

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