La falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata

Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 8 maggio 2018, n.20130.

La falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili.

CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
SENTENZA 8 maggio 2018, n.20130
Pres. Davigo – est. Coscioni

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 31 marzo 2017, la Corte di Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado del giudice dell’udienza preliminare, emessa a seguito di rito abbreviato, dichiarava G.M. colpevole del reato di truffa ex art. 640 comma 2 cod.pen..
1.1 Avverso la sentenza ricorre per Cassazione il difensore di G. , eccependo che in appello non solo non era stata svolta alcuna attività istruttoria aggiuntiva, ma neppure era intervenuta una diversa analisi degli elementi probatori, essendosi la Corte di appello semplicemente limitata ad esprimere un parere contrario, non offrendo i necessari passaggi argomentativi uniti ad una ragionata valutazione di elementi probatori eventualmente pretermessi o all’evidenziazione di aspetti cruciali non considerati dal giudice di primo grado, senza assolvere all’obbligo di motivazione rafforzata; non solo il dolo era stato rilevato leggendo al contrario le risultanze probatorie, ma neppure era dato sapere a quanto ammontasse il danno erariale, da ritenersi comunque irrilevante alla luce del lavoro straordinario effettuato dal ricorrente e mai ricompensato.
1.2 Il difensore lamenta poi come la Corte di appello aveva omesso di motivare su quale incidenza aveva potuto avere, ai fini della credibilità della ricostruzione offerta dall’imputato e condivisa dal tribunale, il lungo lasso di tempo trascorso.
1.3 Il difensore osserva che la Corte territoriale era pervenuta alla conclusione che anche un importo economico sicuramente esiguo era economicamente apprezzabile, senza indicare a quanto ammontava il danno e senza considerare che le circa sei ore di cui al capo di imputazione, tenendo presente la durata del tragitto dalla barriera autostradale di (omissis) all’ufficio di (…) (30 minuti per l’accusa, 15 minuti per la difesa e per il giudice di primo grado) erano comunque dimezzate; sul punto la Corte di appello non si pronunciava, limitandosi a parlare di meri scostamenti, senza considerare che il danno erariale si collocava ben al di sotto di 100 Euro; la Corte giustificava la particolare severità nel definire apprezzabile il danno patrimoniale in base alla ‘estrema facilità con la quale il pubblico ufficiale può aumentarsi il suo stipendio’, con una illazione che andava manifestamente oltre agli elementi probatori emersi.
1.4 Il difensore eccepisce come la Corte di appello aveva ritenuto prova della colpevolezza dell’imputato la mancanza di un alibi per gli episodi rimasti in contestazione, in contrasto con l’art. 27 della Costituzione, e affermato, contrariamente al vero, che gli scostamenti risultavano sempre in danno dell’amministrazione ed in favore dell’imputato, posto che la documentazione prodotta e i testimoni sentiti dimostravano che le ore svolte a titolo gratuito dall’imputato erano ben più numerose di quelle in contestazione; non si poteva poi non convenire che la presenza di scostamenti negli orari di servizio potesse essere frutto di una mera disattenzione dell’imputato nella compilazione del registro presenze; ulteriore contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata era costituita dall’aver negato valore alla cd. compensazione operata dal ricorrente, quanto l’episodio del 25 novembre 2011, per cui G. era stato assolto, costituiva manifesta applicazione del suddetto criterio.
1.5 n difensore eccepisce che la Corte di appello si era pronunciata per la colpevolezza di G. in violazione del principio dell’onere della prova, essendo stato provato soltanto che in determinati giorni e determinate ore G. si trovava al casello di (omissis), ma neppure tale dato era certo, visto che le tessere autostradali potevano essere prestate ad altri in caso di smagnetizzazione; neppure era stato provato, ogni oltre ragionevole dubbio, che l’imputato non stesse svolgendo incombenze di servizio
1.6 I difensore osserva che anche l’esclusione di una eventuale pronuncia ex art. 131 bis cod.pen non era assolutamente adeguata e sbrigativamente ricondotta alla reiterazione del comportamento, senza un minimo di analisi degli episodi contestati, della loro durata e della loro sporadicità.
1.7 Il difensore rileva infine che la determinazione della pena e l’aumento di essa stimato in virtù del vincolo della continuazione, raddoppiata e non motivata, rappresentasse un’ulteriore lacuna della motivazione, vista anche l’omissione dell’attenuante di cui all’art. 62 n.4 cod.pen..
Considerato in diritto
2. Il ricorso è infondato.
2.1 Preliminarmente deve essere precisato che nel caso in esame non ricorrono i presupposti per applicare il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite di questa Corte nelle sentenze Dasgupta e Patalano, in forza delle quali in caso di ribaltamento in appello del giudizio assolutorio, il collegio del gravame è tenuto a rinnovare l’istruttoria dibattimentale, qualora pervenga ad una valutazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, differente da quella compiuta dal giudice di primo grado: è stato infatti precisato che ‘Non sussiste l’obbligo di procedere alla rinnovazione della prova testimoniale decisiva per la riforma in appello dell’assoluzione, quando la deposizione è valutata in maniera del tutto identica sotto il profilo contenutistico, ma il suo significato probatorio viene diversamente apprezzato nel rapporto con le altre prove’. (Sez. 3, n. 19958 del 21/09/2016 – dep. 27/04/2017, Chiri, Rv. 26978201).
Nel caso in esame, l’obbligo di rinnovazione non ricorre, in quanto l’affermazione di responsabilità, in riforma della precedente pronuncia assolutoria, è fondata sulla interpretazione della apprezzabilità economica del danno erariale cagionato e sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, e non su una valutazione del materiale probatorio diversa da quella del giudice di primo grado.
Passando al merito del ricorso, questa sezione ha precisato che la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili. (Sez. 2, sentenza n. 5837 del 17/01/2013, Brignone, Rv.255201;Sez. 5, sentenza n. 8426 del 17/12/2013, Rapicano Rv.258987); si tratta di valutare quindi, quando un danno sia economicamente apprezzabile.
Sul punto, la Corte territoriale ha richiamato la seconda delle sentenze di questa Corte sopra citate, nella parte in cui afferma che ‘apprezzabile non è sinonimo di rilevante’, per cui non si deve soltanto tenere conto dell’aspetto economico del danno, in quanto viene richiamato anche l’’evidente e grave tradimento del rapporto fiduciario necessariamente esistente tra il pubblico dipendente e l’Amministrazione sua datrice di lavoro’ (pag. 7).
Trattasi di motivazione congrua e coerente, che sfugge pertanto al sindacato di legittimità; si deve infatti rilevare la natura meramente fattuale delle censure proposte, in quanto con esse il ricorrente propone una mera rivalutazione del compendio probatorio, non consentita in questa sede, stante la preclusione, per il giudice di legittimità, di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289).
Né può rilevare la eventuale difficoltà di una precisa quantificazione del danno, considerato che, nella specie, la relativa sussistenza ed apprezzabilità in termini economici è da reputarsi sussistente al di là di ogni ragionevole dubbio per quanto argomentato dalla Corte di appello, che ha motivato anche sulla sussistenza del dolo in capo all’imputato evidenziando la ripetitività degli errori commessi nelle annotazioni degli orari di servizi, sulla mancanza di alcuna prova in ordine alla asserita compensazione operata dall’imputato (pag. 7 sentenza impugnata) e sulla impossibilità di applicare la causa di non punibilità di cui al’art. 131 bis cod.pen..
Quanto alla dosimetria della pena, la graduazione della stessa, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 – 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che – nel caso di specie – non ricorre, visto che la Corte di appello ha evidenziato il ruolo rivestito dall’imputato ed è partita dal minimo edittale della pena prevista.
2.2 Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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