L’azione tipica della concussione, fattispecie appartenente alla categoria dei reati propri esclusivi o di mano propria del pubblico agente, può essere posta in essere anche dal concorrente privo della qualifica soggettiva

Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 4 maggio 2018, n.19489.

L’azione tipica della concussione, fattispecie appartenente alla categoria dei reati propri esclusivi o di mano propria del pubblico agente, può essere posta in essere anche dal concorrente privo della qualifica soggettiva, a condizione che costui, in accordo con il titolare della posizione pubblica, tenga una condotta che contribuisca a creare nel soggetto passivo quello stato di costrizione o di soggezione funzionale ad un atto di disposizione patrimoniale, purché la vittima sia consapevole che l’utilità sia richiesta e voluta dal pubblico ufficiale.

CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
SENTENZA 4 maggio 2018, n.19489

Pres. Rotundo – est. Calvanese
Ritenuto in fatto
1. D.G. ricorre avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale, sull’appello del P.M. e dell’imputato, è stata riformata, quanto al riconoscimento del reato nella forma consumata e conseguentemente alla determinazione della pena, la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari che lo aveva dichiarato, all’esito di giudizio abbreviato, responsabile del reato di tentata concussione.
All’imputato era stato contestato il reato di cui agli artt. 81, 110, 56, 317 e 317 cod. pen., per aver, quale autore materiale, in concorso con S.P., abusando della qualità e dei poteri di quest’ultimo, nominato perito di ufficio (e del quale D. era ausiliario) in un giudizio penale al fine di stabilire le modalità di un incidente stradale che aveva coinvolto D.B.N., con la reiterata minaccia della predisposizione di una perizia sfavorevole tanto da ‘fargli perdere tutto’, da un lato posto in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere il D.B. a versare loro la somma indebita di 20.000 Euro, non riuscendovi per fatti indipendenti alla loro volontà, e dall’altro costretto il medesimo a consegnare a titolo di acconto la somma di 5.000 Euro (in Bari da febbraio 2013 al 18 marzo 2013).
Secondo il primo giudice, il fatto accertato nei termini descritti dall’accusa doveva essere qualificato come un unico reato nella forma tentata, in quanto al netto rifiuto della persona offesa di corrispondere la somma inizialmente richiesta, non poteva ritenersi perfezionata alcuna promessa di versamento in favore degli imputati, posto che la successiva condotta della persona offesa (versamento dei 5.000 Euro), che aveva portato all’arresto di D., era stata orientata dall’intervento della polizia.
La Corte di appello riteneva invece che la promessa di corrispondere la somma richiesta era stata accolta dalla persona offesa prima della presentazione della denuncia alla Guardia di finanza nel corso di una conversazione telefonica, nella quale era stato precisato che la somma di 5.000 Euro, che avrebbe dovuto corrispondere, quale anticipo della somma promessa, era stata già raccolta grazie a risparmi della madre.
Dagli atti, secondo la Corte di appello, non risultava che l’imputato avesse ridotto l’iniziale richiesta, rappresentando i 5.000 Euro solo un anticipo da versare al perito, né che fosse stata instaurata una trattativa in ordine al quantum della iniziale richiesta, posto che la persona offesa aveva accettato di corrispondere la somma richiesta, promettendo di recuperarla in qualche modo.
2. Deduce il ricorrente i seguenti motivi di annullamento, di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.:
– violazione di legge in relazione all’art. 443 cod. proc. pen., in quanto la sentenza di primo grado non era appellabile dal P.M., non avendo il primo giudice modificato il titolo del reato (la forma continuata era già contestata nell’imputazione), ma avendo semplicemente qualificato il reato come unico;
– violazione dell’art. 357 cod. pen. e vizio di motivazione, non potendo essere attribuita all’imputato, che rivestiva il ruolo di ‘ausiliario’ del perito, la qualifica di pubblico ufficiale, risultando illogiche le motivazioni della sentenza sia in ordine all’accordo sussistente tra il ricorrente e lo S., avendo il giudice di merito fatto leva sulle dichiarazioni rese dal ricorrente in sede di incidente probatorio (dalle quali non emergeva affatto tale accordo, trattandosi di iniziativa personale assunta da quest’ultimo per intervenire ad ottenere una perizia favorevole al D.B. ) sia in ordine allo svolgimento da parte del ricorrente di pubbliche funzioni, avendo nella specie solo aiutato in attività di tipo materiale il perito e non, come ritenuto in sentenza, sostituito quest’ultimo;
– violazione degli artt. 317 e 319-quater cod. pen., avendo la Corte di appello omesso di rispondere sulle censure di gravame e comunque travisato le prove, in ordine alla sussistenza sia dell’abuso (il ricorrente quando ebbe a formulare la possibilità di influenzare il perito era un semplice privato) sia della minaccia di un male ingiusto (trattandosi piuttosto di persuasione o suggestione per tentare di convincere il D.B., consapevole della sua responsabilità nell’aver causato il sinistro – come ebbe a dimostrare altra perizia e la dinamica dell’incidente -, a corrispondergli la somma richiesta per un intervento ad adiuvandum, nella prospettiva quindi di ottenere la persona offesa un indebito vantaggio).
– violazione di legge in ordine alla qualificazione giuridica del delitto nella forma consumata, risultando contraddittoria la motivazione della sentenza impugnata, dal raffronto delle due motivazioni delle sentenze di merito, in ordine al momento in cui si sarebbe perfezionata la accettazione della promessa;
– violazione dell’art. 346-bis cod. pen. e vizio di motivazione sul punto, non avendo la Corte di appello ravvisato il diverso reato previsto dalla citata norma, con motivazione apparente e carente.
Il ricorrente ha allegato altresì la sentenza non impugnata dal P.M. e quindi definitiva in ordine alla qualificazione del fatto, relativa alla condanna del coimputato per il reato di cui all’art. 319-quater cod. pen..
Considerato in diritto
1. Il ricorso non può essere accolto per le ragioni di seguito illustrate.
2. Il primo motivo non ha fondamento.
Va valutato in primo luogo che la sentenza di primo grado era stata appellata anche dall’imputato e che l’impugnazione del P.M. aveva ad oggetto la diversa qualificazione giuridica del fatto, quindi un vizio ex art. 606 cod. proc. pen..
Va rammentato il principio di diritto in tema di giudizio abbreviato, secondo cui, quando l’imputato propone appello contro la sentenza di condanna, l’eventuale ricorso per cassazione del pubblico ministero si converte in appello ma conserva la propria natura di impugnazione di legittimità: ne consegue che la Corte di appello deve sindacarne l’ammissibilità secondo i parametri dell’art. 606 cod. proc. pen. ed i suoi poteri di cognizione sono limitati alle censure di legittimità. Tuttavia, una volta che ritenga fondata una di dette censure, la Corte riprende la propria funzione di giudice del merito e può adottare le statuizioni conseguenti, senza necessariamente procedere in via formale all’annullamento della pronuncia di primo grado (Sez. 6, n. 42694 del 23/10/2008, Raia, Rv. 241872; Sez. 2, n. 4468 del 17/12/2008, dep. 2009, D’Avino, Rv. 243277; Sez. 6, n. 42810 del 25/09/2002, Ruberto, Rv. 223788).
Sotto altro verso, si deve rilevare che il giudice di primo grado ha diversamente qualificato il fatto autonomamente contestato dal P.M. come consumato (la concussione relativa ai 5.000 Euro), non rilevando pertanto che fosse stata contestata altra ipotesi di reato in forma tentata.
3. Anche il secondo motivo non ha pregio.
Appare dirimente osservare che l’azione tipica della concussione, fattispecie appartenente alla categoria dei reati propri esclusivi o di mano propria del pubblico agente, può essere posta in essere anche dal concorrente privo della qualifica soggettiva, a condizione che costui, in accordo con il titolare della posizione pubblica, tenga una condotta che contribuisca a creare nel soggetto passivo quello stato di costrizione o di soggezione funzionale ad un atto di disposizione patrimoniale, purché la vittima sia consapevole che l’utilità sia richiesta e voluta dal pubblico ufficiale (tra le tante, Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255365).
La questione del concorso risulta affrontata adeguatamente dalla sentenza impugnata e il ricorrente propone solo una lettura alternativa delle prove, non consentita in questa sede.
In particolare, la Corte di appello ha evidenziato le evidenze probatorie che dimostravano plausibilmente che l’azione del ricorrente non era una iniziativa autonoma fatta all’insaputa dello S., bensì che tra i due sussisteva un preciso accordo per la realizzazione della condotta concussiva.
A tal fine, la Corte territoriale ha illustrato efficacemente la sequenza delle conversazioni captate: ai contatti intrapresi dal ricorrente con il D.B., erano seguite subito le informazioni riportate dal primo allo S. ampiamente indicative della raccolta del denaro che stava effettuando il D.B. ; altrettanto significativa è la conversazione in cui il ricorrente si era dato appuntamento con il D.B. per il pomeriggio stesso, assicurando di aver parlato della ‘cosa’ con la persona, da identificarsi con lo S., seguita dopo pochi minuti da quella intercorsa tra i due coimputati nella quale con linguaggio criptico ed allusivo avevano fatto riferimento all’appuntamento fissato in giornata con ‘quell’aamico’ per ‘quella cosa’.
4. Non possono trovare accoglimento neppure le critiche versate nel terzo motivo.
In ordine alla rilevanza della qualificazione soggettiva del ricorrente, si è già detto nel motivo che precede.
Quanto alla riconducibilità del fatto nell’ipotesi di cui all’art. 319-quater cod. pen., la sentenza impugnata ha adeguatamente e correttamente affrontato la questione sollevata con il gravame.
Va rammentato che il delitto di concussione, di cui all’art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla I. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno ‘contra ius’ da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319-quater cod. pen. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera, Rv. 258470).
Le stesse Sezioni Unite ora richiamate hanno osservato che può accadere che minaccia ed offerta si fondano in un’unica realtà inscindibile, che può essere fonte di una qualche difficoltà ermeneutica. In questi casi ambigui, hanno precisato che l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta.
È necessario, in altre parole, accertare se il vantaggio indebito annunciato abbia prevalso sull’aspetto intimidatorio, sino al punto da vanificarne l’efficacia, e se il privato si sia perciò convinto di scendere a patti, pur di assicurarsi, quale ragione principale e determinante della sua scelta, il lucroso contratto, lasciando così convergere il suo interesse con quello del soggetto pubblico. Ovvero, se il vantaggio indebito sia rimasto marginale rispetto al danno ingiusto minacciato, così che quest’ultimo abbia finito per sovrastare il primo.
Orbene, efficacemente la Corte di appello ha messo in evidenza che al momento della condotta realizzata dal ricorrente nessun elemento di conoscenza poteva far ritenere che la persona offesa fosse al corrente dell’esito degli accertamenti peritali, avendo dalla sua parte piuttosto una sentenza civile di primo grado che gli dava ragione, e che il ricorrente aveva fatto intendere alla persona offesa che l’alea (se vincere o perdere) dipendesse dalla perizia che gli imputati dovevano redigere, con la possibilità per la persona offesa di ‘perdere tutto’ e non solo parte della somma (in secondo grado effettivamente ridotta a 50.000 Euro).
Proprio questa prospettazione dimostrava che il privato era stato posto nella condizione di dover sottostare alle richieste del ricorrente pur di conseguire i risultati voluti, che, per quanto legittimi, altrimenti sarebbero rimasti irraggiungibili, a fronte della minacciata arbitraria trattazione della perizia.
I denunciati ‘travisamenti della prova’ in ordine ai termini della minaccia prospettata dal ricorrente, lungi dal proporre il vizio di motivazione previsto dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., lett. e) cod. proc. pen., finiscono per delineare soltanto una diversa, quanto preclusa lettura delle evidenze processuali (tra tante, Sez. 1, n. 47252 del 17/11/2011, Esposito, Rv. 251404).
La Corte di appello ha in ogni caso riportato in calce i passaggi salienti delle captazioni dalle quali ha plausibilmente tratto gli elementi di convincimento.
5. Il quarto motivo, relativo alla qualificazione giuridica del delitto nella forma consumata, si risolve nella sola comparazione tra la motivazione della sentenza di primo grado e quella di appello sul punto, che ad avviso del ricorrente avrebbe dato luogo al vizio di contraddittorietà della motivazione.
Va rammentato che tale vizio consiste nel concorso, dialetticamente irrisolto, di proposizioni – testuali ovvero extra-testuali e contenute in atti del procedimento specificamente indicati dal ricorrente – concernenti punti decisivi e assolutamente inconciliabili tra loro, tali che l’affermazione dell’una implichi necessariamente e univocamente la negazione dell’altra e viceversa (Sez. 1, n. 53600 del 24/11/2016, dep. 2017, Sanfilippo, Rv. 271635).
Quindi, come formulata dal ricorrente, la censura è generica e mal posta.
6. Il quinto motivo, concernente la diversa qualificazione del fatto nella fattispecie delittuosa prevista dall’art. 346-bis cod. pen., non ha pregio, posto che è evidente che l’analisi condotta dalla Corte territoriale portava ad escludere, con effetto assorbente, le altre ipotesi delittuose prospettate dalla difesa.
Invero, il delitto di traffico di influenze, di cui all’art. 346-bis cod. pen., si caratterizza, dal punto di vista strutturale, per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione e non potendo, quindi, neppure in parte, essere destinato all’agente pubblico (Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, dep. 2017, Rigano, Rv. 269736).
Si è chiarito, infatti, che il reato di cui all’art. 346-bis cod. pen. punisce un comportamento propedeutico alla commissione di un’eventuale corruzione e la clausola di esclusione presuppone che, in concreto, non sia ravvisabile il delitto di corruzione e neppure un’ipotesi di concorso, presupponendosi lo sfruttamento di una relazione esistente con pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, fermo restando che il denaro o l’utilità patrimoniale devono essere rivolti a chi è chiamato ad esercitare l’influenza e non al soggetto che esercita la pubblica funzione (Sez. 6, n. 18999 del 02/02/2016, Polizzi, Rv. 267818).
7. Non appare rilevante infine che il coimputato S., giudicato separatamente con rito ordinario, sia stato condannato per il reato di cui all’art. 319-quater cod. pen..
Il contrasto di giudicati rilevante ai fini della revocabilità di un provvedimento definitivo non ricorre infatti nell’ipotesi in cui lo stesso verta sulla valutazione giuridica attribuita agli stessi fatti dai due diversi giudici (tra le tante, Sez. 6, n. 15796 del 03/04/2014, Strappa, Rv. 259804).
Inoltre, nulla esclude allo stato che in sede di appello il fatto sia diversamente qualificato: non sussiste invero la violazione del divieto di ‘reformatio in peius’ qualora, ancorché sia proposta impugnazione da parte del solo imputato, il giudice di appello, senza aggravare la pena inflitta, attribuisca al fatto una diversa e più grave qualificazione giuridica (Sez. 2, n. 27460 del 13/06/2014, Manzo, Rv. 259567).
8. Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere quindi rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

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