Non si commette il reato di omesso versamento Iva se l’inadempimento è conseguente al mancato incasso di fatture da parte di clienti falliti

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 1 agosto 2018, n. 37089.

La massima estrapolata:

Non si commette il reato di omesso versamento Iva se l’inadempimento è conseguente al mancato incasso di fatture da parte di clienti falliti e il contribuente si è comunque adoperato in altri modi per recuperare le somme da destinare all’erario.

Sentenza 1 agosto 2018, n. 37089

Data udienza 28 marzo 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAVALLO Aldo – Presidente

Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. REYNAUD Gianni Filippo – Consigliere

Dott. MENGONI Enrico – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 4/7/2017 della Corte di appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. PERELLI Simone, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 4/7/2017, la Corte di appello di Milano, in riforma della pronuncia emessa il 28/10/2016 dal locale Tribunale, dichiarava (OMISSIS) colpevole del delitto di cui all’articolo 81 cpv. c.p., Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 10 ter, e lo condannava alla pena di sei mesi di reclusione; allo stesso quale legale rappresentante della ” (OMISSIS) Consorzio Societa’ Cooperativa – era contestato di non aver versato l’IVA per gli anni di imposta 2009 (per l’importo di 558.783,00 Euro), 2010 (1.511.584,00 Euro) e 2011 (549.990,00 Euro).
2. Propone diffuso ricorso per cassazione il (OMISSIS), a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– con le prime tre, diffuse doglianze – in punto di triplice vizio motivazionale ed erronea o falsa applicazione dell’articolo 45 c.p., Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, – si deduce che la Corte di appello avrebbe interamente riformato la pronuncia assolutoria senza verificare affatto la corposa documentazione in atti, tale da evidenziare con certezza un’ipotesi di forza maggiore. In particolare, dal materiale prodotto – e non valutato – emergerebbe evidente che la societa’ non aveva potuto versare l’IVA a causa di un plurimo evento imprevisto ed imprevedibile, quale il fallimento di cinque tra i piu’ importanti clienti, che non avevano pagato le prestazioni ricevute. Ancora, la sentenza non avrebbe tenuto in alcuna considerazione i numerosi tentativi – tutti documentati – operati dalla ” (OMISSIS)” per tentare di recuperare quanto dovutole, attraverso ricorsi per decreto ingiuntivo ed insinuazioni al fallimento, oltre che in via amichevole; di piu’, nessuna valenza sarebbe stata attribuita all’impegno di proprie risorse patrimoniali, effettuato dal (OMISSIS), a conferma ulteriore dell’adozione – da parte di questi – di ogni iniziativa utile per recuperare liquidita’ a fonte della citata ed improvvisa “tempesta perfetta” (cosi’ definita in ricorso) che si sarebbe abbattuta sulla societa’, impedendole di provvedere al versamento in oggetto. E con la precisazione ulteriore che le fatture richiamate in sentenza – mai pagate al consorzio, si’ da non consentire alcun accantonamento dell’IVA – non costituirebbero affatto evidenza del dolo del reato, come invece affermato dalla Corte, rappresentando soltanto il tentativo – da parte dell’ente – di recuperare comunque il proprio credito, confidando nelle promesse di pagamento ricevute dai debitori. Da ultimo sul punto, il ricorrente nega che mai qualche creditore fosse stato preferito all’Erario, sostenendo, in termini opposti, che la ” (OMISSIS)” si sarebbe infine trovata costretta a licenziare 227 soci lavoratori;
– analoghe censure, poi, sono mosse in punto di elemento soggettivo del reato, che sarebbe stato riconosciuto dalla Corte con argomento viziato. In particolare, la sentenza avrebbe taciuto ogni effettiva motivazione sul punto, legando sic et simpliciter il dolo del delitto al mero verificarsi dell’omissione e senza alcuna indagine ulteriore, invero necessaria – anche in forza della precedente sentenza assolutoria – alla luce del copioso materiale prodotto. Dal quale, si evidenzia ancora, emergerebbe palese la vis maior che avrebbe investito il consorzio in esame;
– le medesime censure, di seguito, sono rivolte alla parte della sentenza con la quale si contesta al (OMISSIS) l’omesso storno della fatture non onorate; anche al riguardo, infatti, la Corte non avrebbe valutato che il ricorrente avrebbe adottato un corretto comportamento imprenditoriale, anche in ragione del tenore del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 26, e del termine annuale che lo stesso prevede per lo storno citato. Termine che il consorzio ” (OMISSIS)” si sarebbe trovato nell’impossibilita’ di rispettare, anche a causa dell’intervenuto fallimento delle debitrici;
– da ultimo, si lamenta il vizio motivazionale in punto di trattamento sanzionatorio, che avrebbe dovuto esser contenuto nei minimi edittali, atteso il complessivo comportamento del ricorrente.
Si chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso risulta fondato; al riguardo, peraltro, le doglianze in punto di merito possono esser trattate congiuntamente, attesane la sostanziale identita’ di ratio.
Osserva innanzitutto il Collegio che, per costante e condiviso indirizzo di legittimita’, il giudice di appello che riformi integralmente la pronuncia assolutoria di primo grado ha l’obbligo di redigere una motivazione cd. rafforzata, ossia di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i piu’ rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (tra le molte, Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679; tra le successive, ex plurimis, Sez. 3, n. 29253 del 5/5/2017, C., Rv. 270149; Sez. 6, n. 10130 del 20/1/2015, Marsili, Rv. 262907); in particolare, il secondo giudice ha l’obbligo di dimostrare l’insostenibilita’ – sul piano logico e giuridico – degli argomenti piu’ rilevanti della sentenza di primo grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Sez. 5, n. 35762 del 5/5/2008, Aleksi, Rv. 241169; successivamente, tra le altre, Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327).
4. Cio’ premesso in termini generali, ritiene la Corte che la sentenza impugnata non abbia fatto buon governo di questi principi, riformando la decisione di primo grado senza un adeguato confronto – sostenuto da congrua motivazione – con gli argomenti sviluppati dal primo Giudice. In particolare, la causa maggiore – gia’ riconosciuta dal Tribunale – e’ stata esclusa dal Collegio di merito sulla premessa che la societa’ cooperativa – che aveva mantenuto i bilanci in attivo nelle annualita’ 2009 e 2010 – “in ragione di un’iniziale situazione di crisi e di restrizione del credito bancario ha cominciato ad emettere fatture nella speranza di ottenere i pagamenti dovuti, aspettativa rimasta disattesa per l’inadempimento dei principali clienti, in buona parte poi falliti”. Da questa premessa, la sentenza ha poi dedotto che “dal primo esercizio 2009 fino alla scadenza del dicembre 2012, il prevenuto ha continuato ad aggravare l’ingente debito tributario, emettendo fatture di rilevante importo per circa due milioni, circostanza che appare incompatibile con le conclusioni cui e’ giunto il giudice di primo grado, secondo il quale la condotta risulta svincolata da colpa o dolo”. Per concludere, infine, con l’assunto per cui “la situazione di illiquidita’…e’ stata, dunque, provocata da una precisa scelta imprenditoriale consapevolmente assunta dall’imputato nel tentativo di mantenere l’operativita’ della societa’”.
Orbene, questa motivazione non appare immune da vizi argomentativi, nei termini appena sopra accennati.
5. In primo luogo, la stessa Corte di appello ha riconosciuto che l’aspettativa del consorzio di ricevere il pagamento per le prestazioni effettuate, a fondamento dell’emissione delle fatture, era rimasta “disattesa per l’inadempimento dei principali clienti, in buona parte poi falliti” (circostanza che gia’ il primo Giudice aveva dato per accertata, evidenziando che “e’ doveroso sottolineare che tali crediti – presuntivamente esigibili – portati a bilancio non sono mai stati realizzati dal Consorzio a causa di condotte inadempienti da parte dei committenti debitori, i quali, successivamente, sono stati coinvolti in fallimenti”); quel che, gia’ ex se, parrebbe dunque condurre alla conclusione che nessuna omissione nel versamento IVA vi sarebbe stata, o al piu’ vi sarebbe stata soltanto in parte (da verificare, peraltro, alla luce della soglia di punibilita’ di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter), atteso che la creditrice non avrebbe ricevuto alcun pagamento con riguardo alle fatture in effetti emesse. Nessun pagamento della prestazione, quindi, cosi’ come nessun pagamento dell’IVA; dal quale, poi, sarebbe derivata l’assenza di un dovere di accantonamento in capo all’ente e, di fatto, l’insussistenza della condotta contestata.
6. Ancora censurabile, poi, appare l’argomento – del tutto apodittico – con cui la sentenza ha qualificato l’emissione delle fatture in esame come condotta con la quale l’imputato avrebbe “continuato ad aggravare l’ingente debito tributario”; non e’ dato comprendere, infatti, come la doverosa emissione di fatture per prestazioni realmente effettuate, e per il relativo importo, possa esser letta nell’ottica proposta, specie quando – appena due righe sopra – la stessa sentenza ha riconosciuto che il consorzio non aveva ricevuto alcun versamento in ragione delle fatture medesime, rimaste pacificamente inevase.
7. Da quanto precede, poi, emerge viziata anche la conclusione alla quale la Corte di appello e’ pervenuta, secondo cui la situazione di illiquidita’ sarebbe stata “provocata da una precisa scelta imprenditoriale”; ancora di non agevole comprensione, infatti, risulta un argomento che lega la (si ribadisce, doverosa) emissione di fatture al dolo dell’omissione contestata, soprattutto – ancora si sottolinea – a fronte del mancato pagamento delle stesse e, pertanto, del mancato incasso dell’IVA da versare, poi, all’Erario. Quel che, all’evidenza, priva quindi di ogni rilievo il successivo argomento impiegato in sentenza, relativo al mancato storno delle fatture di cui trattasi.
8. Di seguito, e nella medesima ottica, osserva poi la Corte che la sentenza non ha preso affatto in esame gli interventi che il ricorrente avrebbe adottato per fronteggiare la grave crisi verificatasi, richiamati nella pronuncia di primo grado; in particolare, non ha verificato se lo stesso avesse intrapreso azioni od ingiunzioni a carico dei debitori, cosi’ come se avesse impegnato il proprio patrimonio personale. Circostanze che, peraltro, il ricorrente aveva dedotto sin dal primo grado, e sostenuto con documentazione in appello, sulla quale, pero’, difetta ogni argomento in sentenza.
Trattasi, invero, di un accertamento assai rilevante, nella verifica dell’elemento soggettivo del reato; per costante e condiviso indirizzo ermeneutico, infatti, quello per cui nel reato in esame, l’imputato puo’ invocare la assoluta impossibilita’ di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilita’ penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilita’ a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilita’ di fronteggiare la crisi di liquidita’ tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 dell’8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190). Occorre, cioe’, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidita’, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volonta’ e ad egli non imputabili (Sez. 3, n. 8352 del 24/6/2014, Schirosi, Rv. 263128; Sez. 3, n. 20266 dell’8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
Azioni che il ricorrente ha sottoposto al Collegio, e che il primo Giudice aveva verificato, ma sulle quali la sentenza di appello non ha speso alcuna considerazione.
Alla luce di quanto precede, dunque, ritiene questo Giudice che la sentenza impugnata debba essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Milano per nuovo giudizio.

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