In materia di sanzioni amministrative, le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio di legittimità che dispongano retroattivamente un trattamento sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 9 agosto 2018, n. 20697.

La massima estrapolata:

In materia di sanzioni amministrative, le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio di legittimità che dispongano retroattivamente un trattamento sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, atteso che la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d’impugnazione; né tale conclusione contrasta con i principi in materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata, perché la statuizione sulla misura della sanzione è dipendente dalla statuizione sulla responsabilità del sanzionato e, pertanto, ai sensi dell’articolo 336 del Cpc, è destinata a essere travolta dall’eventuale caducazione di quest’ultima, cosicché essa non può passare in giudicato fino a quando l’accertamento della responsabilità del sanzionato non sia a propria volta passata in giudicato.

Sentenza 9 agosto 2018, n. 20697

Data udienza 9 gennaio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere

Dott. VARRONE Luca – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 8131-2016 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
MINISTERO ECONOMIA FINANZE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3784/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 02/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso per quanto di ragione;
udito l’Avvocato (OMISSIS), difensore del ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS) Avvocatura dello Stato, difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

Il signor (OMISSIS) ricorre per la cassazione della sentenza della corte di appello di Milano che, confermando la sentenza del Tribunale di Lodi, ha rigettato la sua opposizione avverso il decreto del Dirigente Generale del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 121442/RM I del 24 marzo 2010, con il quale gli era stata inflitta la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 193.333,00 per la violazione del Decreto Legge n. 143 del 1991, articolo 1, comma 1, per avere egli consegnato, tra il 27.9.2004 ed il 30.7.2004, denaro contante senza il tramite degli intermediari abilitati, in misura eccedente i limiti consentiti dalla legge, al sig. (OMISSIS), all’epoca dei fatti Direttore Area Finanza della (OMISSIS).
La corte distrettuale ha disatteso l’assunto dell’odierno ricorrente secondo cui, nella specie, la sussistenza della violazione sarebbe stata esclusa dal rilievo che, poiche’ il consegnatario del denaro era un dirigente della (OMISSIS), il denaro stesso doveva ritenersi consegnato ad un intermediario abilitato. Al riguardo, nella sentenza gravata si argomenta che il signor (OMISSIS), nel ricevere il denaro dal (OMISSIS), aveva agito in proprio, quale persona fisica, e non quale dirigente della (OMISSIS) e in rappresentanza della stessa; sul punto la corte ambrosiana valorizza l’affermazione dello stesso (OMISSIS) (raccolta nel verbale della Guardia di Finanza dell’11.2.09) di aver consegnato al (OMISSIS) ie somme in contanti de quibus in esecuzione di un accordo avente ad oggetto la spartizione, tra i due, dei profitti derivanti dalle operazioni di trading svolte dal (OMISSIS) su un conto intestato al (OMISSIS).
Per la cassazione di tale sentenza il signor (OMISSIS) ha proposto ricorso sulla scorta di tre motivi.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze si e’ costituito con controricorso.
La causa e’ stata discussa all’udienza del 9 gennaio 2018 – per la quale solo la ricorrente ha depositato memoria e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe – ed e’ stata decisa in esito alla riconvocazione del Collegio del 9 luglio 201.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Col primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’articolo 4 del 7 Protocollo addizionale alla Carta EDU e dell’articolo 112 c.p.c. e deduce la nullita’ del procedimento per la violazione del principio del ne bis in idem in cui la corte territoriale sarebbe incorsa confermando l’impugnato provvedimento sanzionatorio nonostante che, per gli stessi fatti, egli avesse subito un procedimento penale conclusosi con l’applicazione su richiesta della pena di nove mesi di reclusione per il reato di appropriazione indebita.
Il motivo va giudicato infondato, non potendosi richiamare nella specie il principio del ne bis in idem. Dalla sentenza di applicazione della pena su richiesta pronunciata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Milano il 23.5.08 (direttamente esaminabile da parte di questa Corte in ragione della natura del vizio denunciato coi mezzo di impugnazione in esame) si rileva infatti che il fatto per il quale all’odierno ricorrente e’ stata irrogata, su richiesta, la pena di nove mesi di reclusione consisteva nell’essersi appropriato di circa 12 milioni di Euro della (OMISSIS) “operando in violazione delle procedure contabili di antiriciclaggio nonche’ dei vincoli contrattuali”. La violazione delle procedure contabili di antiriciclaggio (oltre che dei vincoli contrattuali) costituiva, dunque, una modalita’ attuativa del delitto di appropriazione indebita compiuto dal (OMISSIS), in concorso con il (OMISSIS), in danno della (OMISSIS); modalita’ attuativa, va aggiunto, penalmente irrilevante, non essendo tale modalita’ qualificata nemmeno come circostanza aggravante di altro reato. Il fatto costituente oggetto del procedimento penale era, dunque, l’appropriazione di beni altrui (cioe’ della (OMISSIS)), non la consegna di denaro contante al (OMISSIS) effettuata senza il tramite di intermediari abilitati, che, invece, e’ il fatto costituente oggetto del procedimento sanzionatorio definito con provvedimento amministrativo impugnato nel presente giudizio. Va peraltro ricordato, al riguardo, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la preclusione connessa al principio del ne bis in idem opera, ove il reato gia’ giudicato si ponga in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio, nel solo caso in cui sussista l’identita’ del fatto storico, inteso sulla base della triade condotta-nesso causale-evento. (cfr. Cass. pen. n. 54986/17, in cui la Corte, richiamando i principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 200 del 2016, ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata che aveva escluso la preclusione stabilita dall’articolo 649 c.p.p. in riferimento al reato di incendio colposo, cagionato mediante la realizzazione di un abusivo allacciamento alla rete elettrica, a carico di imputata gia’ giudicata per il delitto di furto aggravato, contestato come commesso mediante il medesimo allacciamento abusivo).
Col secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la nullita’ della sentenza e del procedimento, per violazione dell’articolo 112 c.p.c. (sotto il profilo della corrispondenza tra chiesto e pronunciato), in cui la corte d’appello sarebbe incorsa fondando l’accertamento di sussistenza dell’illecito su un presupposto (ossia che il (OMISSIS), ricevendo il denaro contante del (OMISSIS), agisse in proprio e non nella qualita’ di dipendente della (OMISSIS)) non contemplato nella contestazione del Ministero del Tesoro, nella quale si addebitava al (OMISSIS) di aver consegnato il denaro contante nelle mani del signor (OMISSIS) quale “direttore Area Finanza della Banca all’epoca dei fatti”.
Il motivo non puo’ trovare accoglimento perche’ il riferimento, nella contestazione dell’addebito al (OMISSIS), alla circostanza che (OMISSIS) fosse “direttore Area Finanza della Banca all’epoca dei fatti” assolveva ad una funzione meramente descrittiva dei contorni fattuali della vicenda, senza in alcun modo qualificare la fattispecie sanzionata, che era individuata come consegna al sig. (OMISSIS), non come consegna a (OMISSIS) nella sua qualita’ di dipendente della Banca.
Col terzo motivo il ricorrente censura la violazione del Decreto Ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, articolo 4 in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la Corte avrebbe liquidato le spese del giudizio d’appello in misura immotivatamente superiore ai limiti massimi dello scaglione di riferimento.
Il motivo va giudicato assorbito per le considerazioni che seguono.
Dopo la notifica del ricorso per cassazione e’ stato emanato il Decreto Legislativo 25 maggio 2017, n. 90 (Attuazione della direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attivita’ criminose e di finanziamento del terrorismo e recante modifica delle direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE e attuazione del regolamento (UE) n. 2015/847 riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi e che abroga il regolamento (CE) n. 1781/2006), che ha sensibilmente modificato il Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231 (Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attivita’ criminose e di finanziamento del terrorismo nonche’ della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione), il quale, a propria volta, aveva sostituito la disciplina dettata dal Decreto Legge 3 maggio 1991, n. 143 (Provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio) convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 5 luglio 1991, n. 197.
Quest’ultima disciplina, vigente all’epoca dei fatti ascritti al sig. (OMISSIS) ((OMISSIS)), e’, per il principio di legalita’ fissato nella L. n. 689 del 1981, articolo 1 quella applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta nel presente giudizio. In particolare, il citato Decreto Legge n. 143 del 1991, prima sostituito dalla Legge di conversione n. 197 del 1991 e poi modificato dalla L. n. 52 del 1996 e dal Decreto Legislativo n. 56 del 2004, articolo 6 recita: “E’ vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in lire o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore da trasferire e’ complessivamente superiore a 12.500 Euro. Il trasferimento puo’ tuttavia essere eseguito per il tramite degli intermediari abilitati; per il denaro contante vanno osservate le modalita’ indicate ai commi 1- bis e 1- ter.” La sanzione per la violazione di detto divieto e’ contenuta nel Decreto Legge n. 143 del 1991, articolo 5, comma 1, cit., che, nel testo modificato prima dalla Legge di conversione n. 197 del 1991 e poi dal Decreto Legislativo n. 56 del 2004, articolo 6 recita: “Fatta salva l’efficacia degli atti, alle infrazioni delle disposizioni di cui all’articolo 1 si applica, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, una sanzione amministrativa pecuniaria dall’1 per cento al 40 per cento dell’importo trasferito”.
La sanzione pecuniaria concretamente inflitta all’odierno ricorrente (di Euro 193.333,00) risulta compresa tra il minimo ed il massimo edittale, essendo pari al 20% dell’ammontare del denaro oggetto di trasferimento, ossia la somma di Euro 966.666 che il medesimo (OMISSIS) aveva ammesso di aver consegnato al (OMISSIS) e che corrispondeva ai due terzi dell’importo di Euro 1.450.000 che lo stesso (OMISSIS) aveva prelevato dai propri conti bancari.
A decorrere dal 30 aprile 2008 tanto il Decreto Legge n. 143 del 1991, articolo 1, comma 1, quanto l’articolo 5, comma 1, sono stati abrogati dal Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231, articolo 64 (ora articolo 73), comma 1, lettera a), e da quest’ultimo sostituiti, rispettivamente, quanto alla norma che definisce la condotta vietata, con l’articolo 49, comma 1, (che, nel testo originario, recitava: “E’ vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in Euro o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore dell’operazione, anche frazionata, e’ complessivamente pari o superiore a 5.000 Euro. Il trasferimento puo’ tuttavia essere eseguito per il tramite di banche, istituti di moneta elettronica e (OMISSIS) s.p.a. “) e, quanto alla sanzione, con l’articolo 58, comma 1, (che nel testo originario recitava: “Fatta salva l’efficacia degli atti, alle violazioni delle disposizioni di cui all’articolo 49, commi 1, 5, 6 e 7, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria dall’1 per cento al 40 per cento dell’importo trasferito”).
Attualmente – a seguito delle modifiche recate al Decreto Legislativo n. 231 del 2007 dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017 – la norma di divieto di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2007, articolo 49 risulta sanzionata non piu’ dall’articolo 58, bensi’ dall’articolo 63 stesso testo (come modificato dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017), il quale, nel comma 1, prevede una sanzione da Euro 3.000 a Euro 50.000 e, nel comma 6, dispone che detta sanzione e’ quintuplicata nel minimo e nel massimo edittali per gli importi superiori a 250.000 Euro.
Il medesimo Decreto Legislativo n. 231 del 2007, articolo 69 (introdotto dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017), prevede poi, nel primo comma, che “Per le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto, sanzionate in via amministrativa, si applica la legge vigente all’epoca della commessa violazione, se piu’ favorevole, ivi compresa l’applicabilita’ dell’istituto del pagamento in misura ridotta”.
Tale disposizione – nel prevedere che la legge vigente all’epoca della violazione si applica alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 90 del 2017 solo se piu’ favorevole (il che equivale a dire che per tali violazioni deve invece applicarsi la disciplina dettata dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017 quando sia essa quella piu’ favorevole) – introduce, nella specifica materia delle sanzioni volte alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attivita’ criminose e di finanziamento del terrorismo, la retroattivita’ della legge successiva piu’ favorevole; in tal modo derogando al principio generale (sul quale vedi C.Cost. n. 193/16, C.Cost. 2/17, Cass. 9269/18) secondo cui tale retroattivita’ – previste per le sanzioni penali dall’articolo 2 c.p., comma 3, – non opera nella materia delle sanzioni amministrative.
In relazione alle sanzioni previste dal decreto L. n. 143 del 1991 e dal Decreto Legislativo n. 231 del 2007 (nel testo anteriore alle modifiche recate dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017) deve dunque procedersi ad un giudizio comparativo volto a stabilire quale sia il trattamento sanzionatorio piu’ favorevole tra quello previsto dalla legge vigente al momento della commissione della violazione e quello previsto all’esito delle modifiche normative introdotte dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017.
Nella concreta fattispecie in esame, nella quale l’importo trasferito era di Euro 966.666, il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge vigente all’epoca di commissione dell’illecito prevedeva una sanzione pecuniaria pari una percentuale dall’1 al 40 per cento dell’importo trasferito in contanti e, quindi, in concreto, compresa tra un minimo di Euro 9.666 ed un massimo di Euro 386.640 (la sanzione irrogata e’ stata, si ricorda, di Euro 193.333).
Il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge attualmente vigente e’ quello dettato dal Decreto Legislativo n. 231 del 2017, articolo 63 come modificato dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017, e, poiche’ l’importo di denaro trasferito in contanti supera la soglia di Euro 250.000, va determinato applicando al minimo ed al massimo edittale indicati nel comma 1 di tale articolo (vale a dire Euro 3,000 ed Euro 50.000) la quintuplicazione prevista del comma 6 del medesimo articolo, cosi’ pervenendosi ad un minimo edittale di Euro 15.000 e ad un massimo edittale di Euro 250.000.
La comparazione tra i minimi ed i massimi edittali della sanzione pecuniaria concretamente irrogabile nella fattispecie mostra che il minimo edittale e’ piu’ alto secondo la disciplina attualmente vigente (Euro 15.000 a fronte di Euro 9.666), mentre il massimo edittale e’ piu’ alto secondo la disciplina vigente all’epoca dei fatti (Euro 386.640 a fronte di Euro 250.000).
Ai fini della comparazione fra i trattamenti sanzionatori, finalizzata a stabilire quale dei due debba ritenersi piu’ favorevole, non e’ sufficiente, tuttavia, limitarsi a prendere in considerazione il minimo ed il massimo edittale, giacche’ tale comparazione deve “fondarsi sull’individuazione in concreto del regime complessivamente piu’ favorevole per la persona, avuto riguardo a tutte le caratteristiche del caso specifico” (cosi’ C. Cost. n. 68/17, § 8).
Al riguardo e’ pertanto necessario considerare anche il disposto del Decreto Legislativo n. 231 del 2007, articolo 67 come modificato dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017, il quale recita:
“Nell’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie e delle sanzioni accessorie, previste nel presente Titolo, il Ministero dell’economia e delle finanze e le autorita’ di vigilanza di settore, per i profili di rispettiva competenza, considerano ogni circostanza rilevante e, in particolare, tenuto conto del fatto che il destinatario della sanzione sia una persona fisica o giuridica:
a) la gravita’ e durata della violazione;
b) il grado di responsabilita’ della persona fisica o giuridica;
c) la capacita’ finanziaria della persona fisica o giuridica responsabile;
d) l’entita’ del vantaggio ottenuto o delle perdite evitate per effetto della violazione, nella misura in cui siano determinabili;
e) l’entita’ del pregiudizio cagionato a terzi per effetto della violazione, nella misura in cui sia determinabile;
f) il livello di cooperazione con le autorita’ di cui all’articolo 21, comma 2, lettera a) prestato della persona fisica o giuridica responsabile;
g) l’adozione di adeguate procedure di valutazione e mitigazione del rischio di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, commisurate alla natura dell’attivita’ svolta e alle dimensioni dei soggetti obbligati;
h) le precedenti violazioni delle disposizioni di cui al presente decreto.
2. A fronte di violazioni ritenute di minore gravita’, in applicazione dei criteri di cui al comma 1, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’articolo 56, comma 1 e articolo 57, comma 1 puo’ essere ridotta da un terzo a due terzi.
3. Si applicano le disposizioni di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689 (103), articoli 8 e 8-bis in materia di concorso formale, di continuazione e di reiterazione delle violazioni.”.
Poiche’ anche il Decreto Legislativo n. 231 del 2007, articolo 63 fa parte, al pari dell’articolo 67, del titolo 5 di tale decreto legislativo, i criteri dettati in quest’ultimo articolo per la graduazione della pena devono trovare applicazione anche con riferimento alla sanzione prevista per l’illecito trasferimento di denaro contante.
Ai fini della individuazione del trattamento sanzionatorio piu’ favorevole risulta quindi necessario un apprezzamento di fatto – che non puo’ essere compiuto se non in sede di merito – delle circostanze di commissione dell’illecito, onde stabilire se, per la violazione concretamente commessa dal signor (OMISSIS), risulti piu’ favorevole la sanzione irrogabile secondo la disciplina vigente all’epoca di commissione dell’illecito o quella irrogabile secondo la disciplina introdotta dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017, comprensiva dei criteri di graduazione della sanzione sopra menzionati.
Cosi’ definiti i termini della questione applicativa posta dal Decreto Legislativo n. 231 del 2007, introdotto dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017, e’ necessario stabilire, in primo luogo, se lo jus supervenies si applichi alle violazioni commesse prima della entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 90 del 2017 anche quando tali violazioni abbiano gia’ formato oggetto di un provvedimento sanzionatorio; nonche’, in ipotesi di risposta affermativa a tale quesito, se la sopravvenienza, nella pendenza del giudizio di legittimita’, della nuova disciplina, potenzialmente piu’ favorevole, possa essere rilevata dalla Corte di cassazione ancorche’ la questione non formi (ne’, evidentemente, potesse formare) oggetto di alcuno dei motivi del ricorso avverso la sentenza di merito.
Preliminarmente va peraltro sottolineato che – ancorche’ tali questioni non siano state trattate nel presente giudizio ne’ dal ricorrente, che pure ha depositato una memoria ex articolo 378 c.p.c., ne’ dall’Amministrazione contro ricorrente, che non ha depositato memoria – non e’ necessario assegnare alle parti un termine ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., comma 3, giacche’, come gia’ reiteratamente affermato da questa Corte, tale disposizione si riferisce esclusivamente all’ipotesi in cui la Cassazione ritenga di dover decidere nel merito ai sensi del comma 2 stesso articolo, u.p. (ord. 15964/11, sent. 8137/14, ord. 6669/15).
Tanto premesso, si osserva che, sulla prima delle due questioni sopra evidenziate – relativa all’applicabilita’ dello jus superveniens alle violazioni per le quali, al momento dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 90 del 2017, fosse gia’ stato adottato un provvedimento sanzionatorio – e’ possibile pervenire ad una soluzione affermativa, sulla base delle seguenti considerazioni.
Al riguardo si deve, in primo luogo, valorizzare, ai sensi dell’articolo 12 preleggi, la portata letterale del Decreto Legislativo n. 231 del 2007, articolo 69 introdotto dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017; in proposito va sottolineata l’inequivocita’ della previsione ivi contenuta, la quale ha ad oggetto le “violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto”, senza contenere alcun riferimento al requisito della mancata emanazione del provvedimento sanzionatorio. In secondo luogo va evidenziato che, ai fini che ci occupano, non puo’ attribuirsi alcun rilievo al principio della naturale irretroattivita’ della legge, fissato dall’articolo 11 medesime preleggi, risultando tale principio espressamente derogato, nei limiti segnati dal principio del favor rei, dalla previsione, contenuta nel ripetuto articolo 69, che limita le ipotesi di applicazione della legge vigente all’epoca della commessa violazione ai casi in cui tale legge sia piu’ favorevole. Va poi altresi’ evidenziato come una interpretazione che limiti l’applicabilita’ dello jus superveniens alle sole violazioni non ancora sanzionate dall’Amministrazione non possa trovare supporto nelle disposizioni di cui al Decreto Legislativo n. 472 del 1997, articolo 3 e di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 148 del 1988, articolo 23 bis; entrambe tali disposizioni, che gia’ precedentemente avevano introdotto l’applicazione del principio del favor rei alle sanzioni amministrative nelle materie tributaria e valutaria, indicano infatti, quale unico limite alla regola della retroattivita’ della lex mitior, l’intervenuta definitivita’ del provvedimento sanzionatorio, la quale, evidentemente, presuppone l’esaurimento dell’eventuale fase di impugnazione giurisdizionale dello stesso. Infine la clausola di invarianza dettata dal Decreto Legislativo n. 231 del 2007, articolo 74, comma 1, anch’esso introdotto dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017 (“dall’attuazione del presente decreto non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”), non puo’ ritenersi idonea a sorreggere un’interpretazione che escluda l’applicazione della lex mitior alle violazioni, pur commesse prima della data di entrata in vigore dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017, per le quali, tuttavia, a tale data fosse gia’ stata emessa l’ordinanza sanzionatoria; deve infatti escludersi che eventuali riduzioni di sanzioni gia’ irrogate, conseguenti all’applicazione della normativa sopravvenuta, possano considerarsi quali “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, giacche’ si tratterebbe non di maggiori oneri ma di minori entrate prive del requisito della certezza, in quanto dipendenti da provvedimenti ancora sub judice.
Ritenuta, quindi, l’applicabilita’ dello jus supervenies recato dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017 anche alla violazioni per le quali, alla data di entrata in vigore di tale decreto, era gia’ stata emessa una ordinanza sanzionatoria, resta da esaminare la seconda questione sopra evidenziate, vale a dire se – qualora lo jus superviens sia intervenuto nella pendenza del giudizio di legittimita’ (come e’ avvenuto nel presente giudizio) – esso possa essere applicato dalla Corte di cassazione anche nei giudizi nei quali la quantificazione della sanzione operata nell’ordinanza sanzionatoria non sia stata specificamente impugnata in sede giurisdizionale o nei quali la relativa impugnazione sia stata rigettata in primo grado con statuizione non appellata o sia stata rigettata in secondo grado con statuizione non gravata di ricorso per cassazione.
In proposito e’ appena il caso di precisare, per completezza, che nessun dubbio puo’ sussistere in ordine al dovere della Corte di cassazione di fare applicazione dello jus superveniens nei casi in cui la statuizione della sentenza di secondo grado in punto di misura della sanzione abbia formato oggetto di specifico motivo di ricorso per cassazione, ancorche’ sorretto, ovviamente, da ragioni diverse dalla violazione di norme che sono entrate nell’ordinamento solo in un momento successivo alla proposizione del ricorso. In tal caso, infatti, la statuizione sulla misura della pena forma oggetto di censura in sede di legittimita’ e tale censura investe la Corte di cassazione del potere-dovere di verificare la relativa conformita’ alla legge anche sotto profili diversi da quelli dedotti nel mezzo di gravame; la giurisprudenza di legittimita’ ha infatti piu’ volte ribadito che, in ragione della funzione del giudizio di legittimita’ di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonche’ per omologia con quanto prevede la norma di cui all’articolo 384 c.p.c., comma 2 deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione puo’ ritenere fondata la questione sollevata dal ricorso per una ragione giuridica individuata d’ufficio e diversa da quella specificamente indicata dalla parte, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioe’ che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto (Cass. 19132/05, Cass. 6935/07, Cass. 3437/14, Cass. 18775/17).
Ritiene peraltro il Collegio che la norma piu’ favorevole sopravvenuta nella pendenza del giudizio di legittimita’ debba trovare applicazione anche nell’ ipotesi in cui, come nel presente procedimento, nel ricorso per cassazione non sia stata specificamente censurata la statuizione della sentenza di secondo grado di rigetto di un motivo di appello concernente la misura della sanzione, nonche’ nelle ulteriori ipotesi nelle quali la misura della sanzione non avesse formato oggetto di contestazione in sede di appello avverso la sentenza di primo grado o nell’originario atto di opposizione all’ordinanza sanzionatoria.
Al riguardo si osserva che, in linea generale, questa Corte ha affermato che nel giudizio di legittimita’, lo ius superveniens, che introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, puo’ trovare di regola applicazione solo alla duplice condizione che, da un lato, la sopravvenienza sia posteriore alla proposizione del ricorso per cassazione (e cio’ perche’, in tale ipotesi, il ricorrente non ha potuto tener conto dei mutamenti operatisi successivamente nei presupposti legali che condizionano la disciplina dei singoli casi concreti); e, dall’altro lato, la normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione – e soprattutto quello che impone che la funzione di legittimita’ sia esercitata attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – impediscono di rilevare d’ufficio (o a seguito di segnalazione fatta dalla parte mediante memoria difensiva ai sensi dell’articolo 378 c.p.c.) regole di giudizio determinate dalla sopravvenienza di disposizioni, ancorche’ dotate di efficacia retroattiva, afferenti ad un profilo della norma applicata che non sia stato investito, neppure indirettamente, dai motivi di ricorso e che concernano quindi una questione non sottoposta al giudice di legittimita’ (cosi’ Cass. 10547/06). La seconda di dette limitazioni, vale a dire la pertinenza dello jus superveniens a questioni sottoposte al giudice di legittimita’, deve tuttavia ritenersi derogata nel caso in cui il giudizio abbia ad oggetto l’impugnativa di un provvedimento recante una sanzione e lo jus superveniens sia retroattivo in applicazione del principio del favor rei. In materia di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, infatti, questa Corte ha gia’ avuto modo di stabilire – nella sentenza n. 8243/08, resa con riferimento al Decreto Legislativo n. 472 del 1997, articolo 3 (il cui comma 3 recita: “Se la legge in vigore al momento in cui e’ stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entita’ diversa, si applica la legge piu’ favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo.”) – che le piu’ favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute debbono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimita’; nella motivazione di detta sentenza si chiarisce, in particolare, che “le piu’ favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute devono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio e, quindi, pure in sede di legittimita’, atteso che, nella valutazione del legislatore, in ogni altro caso, la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d’impugnazione”.
Quest’ultimo, condivisibile, approdo – fondato sulla specifica portata pubblicistica del principio del favor rei e, quindi, destinato ad operare ogni qualvolta il processo civile abbia ad oggetto l’impugnativa di un provvedimento recante una sanzione tributaria o amministrativa – non urta, d’altra parte, con i principi in materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata.
Al riguardo va premesso che la statuizione sulla misura della sanzione e’ dipendente dalla statuizione sulla responsabilita’ del sanzionato; e’ ovvio, infatti, che la caducazione del capo di sentenza che accerta la sussistenza dell’illecito e la responsabilita’ del sanzionato travolge il capo di sentenza che stabilisce la misura della sanzione (anche mediante il rigetto dell’opposizione avverso la misura della sanzione fissata nell’ordinanza opposta).
Cio’ posto, devono qui richiamarsi i principi fissati dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 21691/16, dove si e’ precisato che l’impugnazione nei confronti della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte da quella dipendente. In tale sentenza si e’, in particolare, sottolineato che con l’articolo 336 c.p.c. (alla cui stregua “la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla parte riformata o cassata”) il legislatore ha fissato la regola che, qualora due o piu’ parti di una sentenza siano collegate da un nesso di dipendenza, l’accoglimento dell’impugnazione mirata sulla parte principale comporta la caducazione anche della parte dipendente. Si e’ altresi’ evidenziato che l’impugnazione della parte principale della sentenza comporta anche l’effetto di impedire il passaggio in giudicato della parte dipendente della stessa sentenza, sino a quando la decisione sull’impugnazione rimanga sub iudice. Si e’ infine, chiarito come non possa ritenersi che le parti dipendenti della sentenza, sebbene rimaste fluide e non cristallizzate nel giudicato, siano comunque divenute intangibili a causa della maturazione di preclusioni e decadenze processuali, non esistendo nel sistema alcuna disposizione che imponga l’impugnazione autonoma anche delle parti della sentenza esposte alla necessaria caducazione in caso di accoglimento della parte principale. In conclusione, le Sezioni Unite hanno affermato che l’impugnazione della parte principale della sentenza impedisce il passaggio in giudicato anche delle parti da essa dipendenti.
Sulla scorta dei richiamati precedenti puo’ quindi enunciarsi il seguente principio di diritto:
“In materia di sanzioni amministrative, le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio di legittimita’ che dispongano retroattivamente un trattamento sanzionatorio piu’ favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, atteso che la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d’impugnazione; ne’ tale conclusione contrasta con i principi in materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata, perche’ la statuizione sulla misura della sanzione e’ dipendente dalla statuizione sulla responsabilita’ del sanzionato e pertanto, ai sensi dell’articolo 336 c.p.c., e’ destinata ad essere travolta dall’eventuale caducazione di quest’ultima, cosicche’ essa non puo’ passare in giudicato fino a quando l’accertamento della responsabilita’ del sanzionato non sia a propria volta passata in giudicato.”
La rilevazione di ufficio della sopravvenienza di un regime sanzionatorio che in concreto puo’ risultare piu’ favorevole al sanzionato, in relazione all’esito degli apprezzamenti di fatto di cui del Decreto Legislativo n. 231 del 2007, articolo 67 come modificato dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017, impone la cassazione della sentenza gravata ed il rinvio alla corte territoriale perche’ valuti se, in relazione all’illecito commesso dal sig. (OMISSIS), debba per costui ritenersi in concreto piu’ favorevole il regime sanzionatorio di cui al Decreto Legge n. 143 del 1991 o quello di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2007, come modificato dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017 e, in questa seconda ipotesi, ridetermini il trattamento sanzionatorio alla stregua della normativa sopravvenuta.
La cassazione con rinvio determina l’assorbimento del terzo motivo di ricorso per cassazione, giacche’ le spese del giudizio di appello dovranno essere riliquidate in sede di rinvio alla luce dell’esito complessivo della causa.
Le spese del giudizio di cassazione vanno invece compensate, appunto in ragione dell’intervento della sopravvenienza di una nuova normativa.

P.Q.M.

La Corte, provvedendo sul ricorso, rigetta i primi due motivi, dichiara assorbito il terzo, cassa la sentenza gravata nella parte concernente la misura della sanzione irrogata e rinvia ad altra sezione della corte di appello di Milano perche’ valuti se, in relazione all’illecito commesso dal ricorrente, debba per costui ritenersi in concreto piu’ favorevole il regime sanzionatorio di cui al Decreto Legge n. 143 del 1991 o quello di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2007, come modificato dal Decreto Legislativo n. 90 del 2017 e, in questa seconda ipotesi, ridetermini il trattamento sanzionatorio alla stregua della normativa sopravvenuta.
Compensa le spese del giudizio di legittimita’.

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