Le associazioni ambientaliste parti civili per reati ambientali

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 15 ottobre 2018, n. 46699.

La massima estrapolata:

Le associazioni ambientaliste sono legittimate a costituirsi parti civili iure proprio nel processo per reati ambientali, sia come titolari di un diritto della personalità connesso al perseguimento delle finalità statutarie, sia come enti esponenziali del diritto alla tutela ambientale, anche per i reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell’ambiente e del territorio

Sentenza 15 ottobre 2018, n. 46699

Data udienza 6 aprile 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAVALLO Aldo – Presidente

Dott. ACETO Aldo – Consigliere

Dott. REYNAUD Gianni F. – Consigliere

Dott. MACRI’ Ubalda – Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 03-04-2017 della Corte di appello di Bari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Fabio Zunica;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Baldi Fulvio, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso;
letta la memoria presentata dal difensore della parte civile;
udito per il ricorrente l’avvocato (OMISSIS), che chiedeva l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 3 aprile 2017, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale di Foggia del 18 febbraio 2016, con cui (OMISSIS) era stato condannato alla pena di mesi 7 di arresto ed Euro 4.000 di ammenda, siccome ritenuto colpevole dei reati di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 1, lettera A) e B) e comma 2, e L. n. 394 del 1991, articolo 11, comma 3, lettera B e articolo 30, comma 1, per avere, quale legale rappresentante dell’impresa di raccolta rifiuti “(OMISSIS)”, abbandonato o depositato in modo incontrollato rifiuti speciali pericolosi e non, su un’area agricola dell’estensione di 10.000 mq. circa sita in localita’ (OMISSIS) del Comune di (OMISSIS), di proprieta’ dell’imputato e a lui in uso, completamente non recintata e non pavimentata, su cui si verificava il deposito di diversi metri cubi di rifiuti costituiti per la maggior parte da materiale plastico, legno non vergine e altro materiale di varia natura e pericolosita’, fatti accertati in (OMISSIS).
2. Avverso la sentenza della Corte di appello pugliese, (OMISSIS), tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
Con i primi due, esposti congiuntamente, la difesa censura l’erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 183, comma 1, lettera bb) e articolo 256, comma 1, lettera a) e b) e la carenza e illogicita’ della motivazione della sentenza impugnata, evidenziando che nei gradi di merito era stata contestata non la sussistenza dei fatti, ma la loro qualificazione giuridica, sostenendosi che quelli rinvenuti in loco altro non erano che rifiuti prodotti dalla stessa azienda di (OMISSIS), autorizzata non solo alla raccolta di rifiuti solidi urbani, ma anche a tutta un’altra serie di attivita’ certamente compatibili con la tipologia di rifiuti rinvenuti; dunque, al di la’ delle violazioni inerenti il corretto svolgimento di tali attivita’ nel sito (come l’assenza di impermeabilizzazione e di regimentazione delle acque e di recinzione), non di discarica abusiva doveva parlarsi, ma al piu’ di deposito temporaneo e contingente di rifiuti in vista del loro smistamento verso i centri di successivo stoccaggio; sul punto, la difesa si duole del fatto che la sentenza impugnata si era limitata a selezionare i dati probatori forniti dal P.M., senza doverosamente confrontarsi con le articolate allegazioni difensive, in particolare con quelle volte a dedurre l’esistenza di un deposito temporaneo.
Con il terzo motivo, viene dedotto il difetto di motivazione della sentenza impugnata rispetto alla richiesta di applicazione dell’articolo 131 bis c.p.p., formulata in sede di discussione nel giudizio di appello.
Con il quarto motivo, infine, la difesa lamenta la carenza di motivazione in ordine alla ritenuta legittimazione attiva dell’A.N.P.A.N.A. alla costituzione di parte civile, essendosi il predetto Ente limitato ad allegare al proprio atto di costituzione unicamente lo Statuto, senza comprovare gli altri requisiti necessari, tra cui la presenza di sedi regionali e provinciali e, soprattutto, la concreta attivita’ espletata in relazione allo specifico reato contestato a (OMISSIS).

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ infondato.
1. Iniziando dai primi due motivi, concernenti la medesima questione, deve evidenziarsi che la qualificazione giuridica delle condotte oggetto di imputazione appare immune da censure.
Ed invero occorre premettere che la ricostruzione dei fatti di causa operata nelle due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi reciprocamente, non risulta controversa, essendo stato accertato, all’esito del sopralluogo dei CC del N.O.E. di Bari del 15 maggio 2013, che l’area agricola di circa 10.000 metri quadri, sita in localita’ (OMISSIS) di (OMISSIS), all’interno del (OMISSIS), di proprieta’ di (OMISSIS) e in uso alla ditta “(OMISSIS)”, era quasi interamente ricoperta da rifiuti ingombranti pericolosi e non (materiale plastico, legno, ferro, materassi e altro). Solo una minima parte di tali rifiuti era depositata in contenitori di ferro, risultando la gran parte di loro a contatto diretto con il terreno, senza vasche di raccolta delle acque meteoriche e senza idonei impianti di impermeabilizzazione. Parimenti pacifico e’ che l’impresa “(OMISSIS)”, di cui (OMISSIS) era legale rappresentante, era autorizzata non all’attivita’ di stoccaggio e deposito di rifiuti, ma alla sola attivita’ di raccolta di rifiuti solidi urbani, avendo vinto l’appalto per operare a tali fini nel territorio di (OMISSIS) e dei centri limitrofi.
Alla stregua di tale premessa fattuale, correttamente i fatti contestati sono stati inquadrati nelle due fattispecie contravvenzionali contestate, dovendosi precisare, rispetto all’unico reato su cui si incentrano le censure difensive, ovvero quello di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, commi 1 e 2, che, come ritenuto dai giudici di merito, la condotta delineata dalle risultanze probatorie integra un’ipotesi di deposito incontrollato di rifiuti e non di deposito temporaneo.
Al riguardo deve evidenziarsi che, secondo il costante e condiviso orientamento di questa Corte (Sez. 3, n. 38676 del 20/05/2014, Rv. 260384), per deposito controllato o temporaneo, si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, quando siano presenti precise condizioni relative alla quantita’ e qualita’ dei rifiuti, al tempo di giacenza, all’organizzazione tipologica del materiale e al rispetto delle norme tecniche elencate nel Decreto Legislativo n. 152 del 2006. Tale deposito e’ libero, non disciplinato dalla normativa sui rifiuti (ad eccezione degli adempimenti in tema di registri di carico e scarico e del divieto di miscelazione), anche se soggetto ai principi di precauzione e di azione preventiva che, in base alle direttive comunitarie, devono presiedere alla gestione dei rifiuti, per cui, in difetto di anche uno solo di tali requisiti, il deposito non puo’ ritenersi temporaneo, ma va considerato:
– deposito preliminare, se il collocamento di rifiuti e’ prodromico a un’operazione di smaltimento che, in assenza di autorizzazione o comunicazione, e’ sanzionata penalmente dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 1;
– messa in riserva, se il materiale e’ in attesa di una operazione di recupero che, essendo una forma di gestione, richiede il titolo autorizzativo, la cui carenza integra gli estremi del reato previsto dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 1;
– deposito incontrollato o abbandono, quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero. Tale condotta e’ sanzionata come illecito amministrativo, se posta in essere da un privato e come reato contravvenzionale, se tenuta da un responsabile di enti o titolare di impresa; – discarica abusiva, quando invece l’abbandono dei rifiuti e’ reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi.
E’ stato poi precisato (Sez. 3, n. 23497 del 17/04/2014, Rv. 261507) che l’onere della prova in ordine alla sussistenza delle condizioni fissate dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 183 per la liceita’ del cd. deposito controllato o temporaneo, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria.
In applicazione di tali coordinate interpretative, la qualificazione giuridica della condotta posta in essere dall’imputato merita condivisione, avendo le sentenze di merito (in particolare quella di primo grado) rilevato, in maniera tutt’altro che illogica, che la gran mole di rifiuti di genere diverso rinvenuta nell’area non consentiva di affermare che si trattava di materiale prodotto dall’azienda. L’affermazione difensiva secondo cui i rifiuti si trovavano nel loro naturale luogo di produzione e’ rimasta in tal senso priva di alcun conforto probatorio, scontando peraltro sul punto il ricorso evidenti limiti di autosufficienza, dovendosi ribadire comunque che l’autorizzazione alla raccolta dei rifiuti non poteva certo consentire la collocazione di rifiuti eterogenei in un’area cosi’ estesa e senza alcun criterio. Dunque, non avendo la difesa assolto all’onere di provare la sussistenza dei requisiti del deposito temporaneo di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2016, articolo 183, lettera bb), non provando ad esempio in che tempi e in che forme i molteplici rifiuti rinvenuti sarebbero stati destinati al successivo smaltimento nei centri di stoccaggio, l’inquadramento della condotta accertata dai militari nella fattispecie di cui all’articolo 256, comma 2 del predetto decreto risulta maggiormente coerente con le fonti probatorie acquisite, idonee a comprovare l’esistenza di un vero e proprio deposito incontrollato di rifiuti, senz’altro ascrivibile al titolare dell’impresa che aveva in uso il terreno su cui erano stati dislocati nel tempo i materiali dismessi. Di qui l’infondatezza della doglianza difensiva.
2. Passando al terzo motivo di ricorso, occorre evidenziare che, rispetto alla richiesta di applicazione dell’articolo 131 bis c.p., formulata dalla difesa non nei motivi di appello, ma solo in sede di discussione nel giudizio di secondo grado, la Corte territoriale, pur senza affrontare espressamente la questione, ha indicato, nella parte dedicata al trattamento sanzionatorio, degli elementi della vicenda che comunque non avrebbero potuto consentire il riconoscimento della causa di non punibilita’, come ad esempio la gravita’ dei fatti, desumibile dal rilievo della pluralita’ delle fattispecie illecite di (OMISSIS) si e’ reso autore, rivelando in tal modo una certa inclinazione a disattendere le prescrizioni impostegli.
Del resto, anche nel ricorso, la difesa non ha adeguatamente illustrato i profili che avrebbero dovuto orientare diversamente la decisione dei giudici di appello, risultando non dirimente, nell’ottica dell’articolo 131 bis c.p., la condizione di incensurato del ricorrente, apparendo invece ben piu’ significativa la circostanza, evidenziata nella sentenza impugnata, che la condotta dell’imputato ha determinato inquinamento, dovuto al contatto dei rifiuti speciali con il nudo terreno, il che, attesa anche la vasta estensione del terreno, non appare compatibile con la qualificazione dell’offesa in termini di particolare tenuita’.
Ne consegue che la doglianza difensiva non risulta meritevole di accoglimento.
3. Parimenti infondato e’ infine il quarto motivo di ricorso.
In ordine alla legittimazione della costituita parte civile, deve infatti richiamarsi l’affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, Rv. 269349 e Sez. 3, n. 14828 dell’11/02/2010, Rv. 246812), secondo cui le associazioni ambientaliste sono legittimate a costituirsi parti civili iure proprio nel processo per reati ambientali, sia come titolari di un diritto della personalita’ connesso al perseguimento delle finalita’ statutarie, sia come enti esponenziali del diritto alla tutela ambientale, anche per i reati commessi in occasione o con la finalita’ di violare normative dirette alla tutela dell’ambiente e del territorio.
Nel caso di specie, la legittimazione dell’Anpana e’ stata ritenuta sussistente sia in base alle previsioni statutarie dell’ente (formalmente riconosciuto dai Ministeri dell’Ambiente e della Salute), sia in ragione dell’esistenza di sedi operative nel contesto territoriale dove si assumono commessi i fatti di causa, cio’ a riprova di un legame non solo astratto con le violazioni ambientali contestate, per cui, non essendovi i presupposti per mettere in discussione in questa sede l’accertamento dei requisiti compiuto dai giudici di primo e secondo grado, deve escludersi che le statuizioni civili delle sentenze di merito presentino profili di illegittimita’.
4. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve essere quindi rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Avv. Renato D’Isa