Corte di Cassazione, sezione seconda penale, Sentenza 25 febbraio 2019, n. 8337.

La massima estrapolata:

Nella struttura dell’appropriazione indebita la nozione di altruita’, infatti, non coincide con il diritto di proprieta’ ma si riferisce ad un qualsiasi rapporto in virtu’ del quale il soggetto abbia la legittima disponibilita’ del bene oggetto della successiva appropriazione.
Il significato da attribuire nella specifica fattispecie incriminatrice in esame al termine “altrui”, riferito ad un bene posseduto da altri, d’altro canto, puo’ essere desunto anche analizzando i profili di corrispondenza con la figura criminosa analoga che concerne il patrimonio pubblico.
Deve ritenersi che il legislatore non abbia inteso utilizzare la nozione di altruita’ nel senso, strettamente civilistico, di proprieta’ e neanche di possesso ma che, piu’ in generale – allo scopo di sanzionare ogni “rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l’esercizio di essi poteri sulle cose” – faccia riferimento alla categoria della disponibilita’

Sentenza 25 febbraio 2019, n. 8337

Data udienza 30 novembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMMINO Matilde – Presidente

Dott. FILIPPINI Stefano – Consigliere

Dott. BELTRANI Sergio – Consigliere

Dott. PACILLI Giuseppina A. R – Consigliere

Dott. MONACO Marco Mari – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 06/10/2017 della CORTE APPELLO di PALERMO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MONACO MARCO MARIA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COCOMELLO ASSUNTA che ha concluso per il rigetto del ricorso.
udito il difensore della parte civile, avv. (OMISSIS) in sostituzione dell’avv. (OMISSIS), che deposita conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione associandosi alle conclusioni del P.G..

RITENUTO IN FATTO

La CORTE d’APPELLO di PALERMO, con sentenza del 13/10/2017, confermava la sentenza pronunciata dal TRIBUNALE di MARSALA il 12/5/2016 nei confronti di (OMISSIS) per il reato di cui all’articolo 646 c.p..
1. (OMISSIS) veniva rinviato a giudizio perche’, avendone la custodia, si sarebbe appropriato di alcuni oggetti d’oro che (OMISSIS), compagna del figlio dell’imputato, avrebbe ricevuto a seguito del battesimo della figlia.
All’esito del processo, nel corso del quale emergeva che la (OMISSIS) aveva consegnato i gioielli alla suocera affinche’ li custodisse nella cassaforte e che questi erano spariti, l’imputato veniva condannato per il reato di appropriazione indebita.
Avverso la sentenza proponeva appello l’imputato rilevando, per quello che interessa in sede di ricorso, che non ci fosse prova che l’imputato si fosse appropriato dei gioielli conservati nella cassaforte e, in via subordinata, che il fatto non fosse punibile poiche’ sarebbe stato commesso in danno della convivente more uxorio del figlio, da considerarsi affine in linea retta.
La Corte territoriale, ritenuto infondato l’appello, confermava la condanna pronunciata in primo grado.
2. Avverso la sentenza propone ricorso l’imputato che, a mezzo del difensore, deduce i seguenti motivi.
2.1. “Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale: violazione dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullita’ e segnatamente dell’articolo 546 c.p.p.”. La difesa rileva che nel dispositivo della sentenza di appello la Corte ha indicato testualmente “conferma la sentenza resa in data 12 maggio dal Tribunale di Trapani…”. Tale indicazione, nella quale e’ indicato il Tribunale di Trapani e non quello di Marsala, non consentirebbe di individuare la sentenza in concreto da eseguire e determinerebbe la nullita’ della sentenza impugnata.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 646 e 649 c.p.. La difesa deduce l’erroneita’ della sentenza impugnata con riferimento alla mancata applicazione della causa di non punibilita’ indicata. In via principale evidenzia che -diversamente da quanto evidenziato dai giudici di merito, che ne avevano escluso l’applicazione in assenza del rapporto di affinita’ tra l’imputato e la (OMISSIS), convivente more uxorio del figlio- la causa di non punibilita’ andrebbe applicata in virtu’ del rapporto di discendenza diretta intercorrente tra lo stesso imputato e la nipote, (OMISSIS), effettiva proprietaria dei gioielli. Sotto altro profilo, d’altro canto, la causa di non punibilita’ andrebbe comunque applicata anche qualora si dovesse ritenere che i medesimi oggetti d’oro fossero di proprieta’ dei genitori. In questo caso, infatti, la proprieta’ sarebbe di entrambi i genitori della bambina, e quindi anche del figlio del ricorrente, suo diretto discendente.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta responsabilita’ del ricorrente. La difesa osserva che la Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato i criteri di valutazione della prova e sarebbe quindi pervenuta, all’esito di un’erronea valutazione delle prove, ad una conclusione manifestamente illogica e contraddittoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso e’ inammissibile.
1. Il primo motivo e’ manifestamente infondato.
La indicazione “Tribunale di Trapani” in luogo di quella “Tribunale di Marsala” e’ frutto di un evidente errore materiale che non determina alcuna nullita’ della sentenza.
Ai sensi dell’articolo 546 c.p.p., comma 3, infatti, l’atto e’ nullo solo qualora manchi ovvero sia incompleto uno degli elementi essenziali della stessa e questo, come ad esempio la data, non sia in individuabile in atti (Sez. 3, n. 19156 del 13/12/2017, dep. 2018, G, Rv. 273196; Sez. 2, n. 32907 del 03/05/2017, Cursale e altri, Rv. 270657).
2. Il secondo motivo e’ manifestamente infondato.
La questione circa l’applicabilita’ dell’articolo 649 c.p., se pure in modo sintetico, era stata dedotta tra i motivi di appello.
Nel presente ricorso, fatto comunque riferimento al profilo indicato nel precedente atto di impugnazione, pero’, la questione viene prospettata sotto un differente profilo.
In questa sede, infatti, il ricorrente rileva che la invocata causa di non punibilita’ sarebbe applicabile in quanto i beni oggetto dell’appropriazione sarebbero di (OMISSIS), discendente in linea retta dall’imputato.
All’esito dell’istruttoria dibattimentale, e come risulterebbe dalla lettura del capo di imputazione, sarebbe emerso che gli oggetti d’oro di cui il ricorrente si sarebbe appropriato erano stati regalati in occasione del battesimo alla piccola (OMISSIS), figlia di (OMISSIS) e di (OMISSIS).
Tale circostanza, cosi’ come l’eventuale attribuibilita’ di tali beni anche a (OMISSIS), invero, non appare rilevante.
2.1. Nella struttura dell’articolo 646 c.p., la nozione di “altruita’”, infatti, non coincide con il diritto di proprieta’ ma si riferisce ad un qualsiasi rapporto in virtu’ del quale il soggetto abbia la legittima disponibilita’ del bene oggetto della successiva appropriazione.
Il significato da attribuire nella specifica fattispecie incriminatrice in esame al termine “altrui”, riferito ad un bene posseduto da altri, d’altro canto, puo’ essere desunto anche analizzando i profili di corrispondenza con la figura criminosa analoga che concerne il patrimonio pubblico.
In relazione al peculato, ad esempio, e’ significativo (come puntualmente osserva Sez. 6, n. 5447 del 04/11/2009, Donti, Rv. 246070) che il legislatore, con la riforma del 1990, abbia affiancato nell’articolo 314 c.p. alla nozione di “possesso” quella di “disponibilita’”, cosi’ espressamente riconducendo il rapporto dell’agente con la cosa nell’ambito “di un ampio potere autonomo, che gli consenta di disporne, con obbligo tuttavia di rispettarne la destinazione”, in linea con l’interpretazione gia’ consolidata in relazione ad entrambe le fattispecie appropriative.
Sotto tale profilo, quindi, deve ritenersi che il legislatore non abbia inteso utilizzare la nozione di altruita’ nel senso, strettamente civilistico, di proprieta’ e neanche di possesso ma che, piu’ in generale – allo scopo di sanzionare ogni “rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l’esercizio di essi poteri sulle cose” – faccia riferimento alla categoria della disponibilita’ (sul punto cfr. Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011, Orlando, Rv. 250974 e, benche’ risalente nel tempo Sez. 2, n. 229 del 26/01/1970, dep. 1971, Serughetti, Rv. 116345, secondo la quale: “Soggetto passivo del delitto di appropriazione indebita, e quindi titolare del diritto di querela, puo’ essere anche una persona diversa dal proprietario della cosa, che abbia su questa un diritto reale o anche personale, come ad esempio il conduttore, il comodatario, l’usufruttuario, in quanto nel concetto di altruita’ della cosa dev’essere compresa anche l’altrui titolarita’ di ogni tipo di diritto”).
2.2. Nel caso di specie e’ pacifico che i beni, a prescindere dall’effettiva proprieta’, cioe’ se regalati alla madre “in occasione” del battesimo della piccola (OMISSIS) ovvero se direttamente donati a quest’ultima, erano comunque in possesso della sig.ra (OMISSIS) e comunque nella sua legittima disponibilita’.
La stessa, che di tali beni aveva l’usufrutto legale ai sensi dell’articolo 324 c.c., ed il conseguente dovere di amministrazione ai sensi dell’articolo 320 c.c., e comunque ne aveva la disponibilita’, quindi, e’ stata correttamene individuata dai giudici di merito quale soggetto passivo del reato in relazione al quale verificare l’applicabilita’ o meno della speciale causa di non punibilita’ prevista dall’articolo 649 c.p. e la conclusione cui la Corte territoriale e’ pervenuta sul punto, “in considerazione del fatto che il rapporto di affinita’ in linea retta non e’ riferibile ad un legame matrimoniale ma ad un rapporto di convivenza, peraltro poi cessato”, e’ logica e giuridicamente corretta.
3. Il terzo motivo, formulato anche come violazione di legge ma che in effetti si riferisce esclusivamente al vizio di motivazione, e’ manifestamente infondato.
La Corte, la cui motivazione si salda ed integra con quella del giudice di primo grado, ha infatti fornito congrua risposta alle critiche contenute nell’atto di appello ed ha esposto gli argomenti per cui queste non erano in alcun modo coerenti con quanto emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
Diversamente da quanto indicato nel ricorso, attraverso il quale si sollecita una non consentita rilettura dell’istruttoria dibattimentale, d’altro canto, i giudici di merito (facendo riferimento alle dichiarazioni dei testi sul punto ed in specifico alla stessa ammissione del ricorrente) hanno entrambi congruamente motivato in merito alla responsabilita’ dell’imputato, tanto che ogni ulteriore doglianza sul punto risulta inconferente (in merito alla deducibilita’ del vizio di motivazione cfr. da ultimo Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, Rv 269217).
4. La dichiarazione di inammissibilita’ del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.
Alla inammissibilita’ del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’ emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che si ritiene equa, di Euro duemila a favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende, nonche’ alla rifusione in favore della parte civile (OMISSIS) delle spese del grado che liquida in Euro 2.700,00, come da richiesta, oltre spese forfetarie nella misura del 15%, C.P.A. e I.V.A..
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.

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