Acquiescenza al provvedimento amministrativo

Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 22 marzo 2019, n. 1908.

La massima estrapolata:

In tema di acquiescenza al provvedimento amministrativo, non rilevano come comportamenti concludenti ai fini dell’acquiescenza quelli adottati dall’interessato in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio.

Sentenza 22 marzo 2019, n. 1908

Data udienza 21 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7422 del 2018, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Ma. Fl. e Fr. Sa. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fr. Sa. Be. in Roma, via (…);
contro
Il Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato ex lege in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Prima n. 946 del 29 giugno 2018, resa tra le parti, concernente l’azione di accertamento dell’inesistenza o della nullità del d.P.R. 11 ottobre 1983.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2019 il Cons. Giuseppa Carluccio e uditi per le parti gli Avvocati Gi. Ma. Fl. e Fr. Sa. Be. e l’Avvocato dello Stato Fa. Ur. Ne..

FATTO e DIRITTO

1. La presente controversia concerne la perdita del grado per rimozione, disposta in esito ad un procedimento disciplinare, nei confronti dell’appellante, ufficiale dell’Aeronautica militare.
2. Con il ricorso n. 339 del 18 marzo 2017, egli ha adito il T.a.r. per la Toscana – sez. prima, ed ha chiesto:
a) dichiararsi nullo il d.P.R. dell’11 ottobre 1983 – con il quale era stata disposta, con la stessa decorrenza, la perdita del grado per rimozione – ai sensi dell’art. 21-septies della l. n. 241 del 1990, in quanto mancante della sottoscrizione del Presidente della Repubblica, quale elemento essenziale della forma, o inesistente, atteso che l’atto, anche considerando i dubbi sulla controfirma del Ministro della difesa, risulta privo di un elemento talmente essenziale da comportarne l’inesistenza;
b) disporsi, conseguentemente, la reintegra in servizio, con ricostituzione piena della carriera giuridica ed economica nel ruolo di appartenenza, oltre il riconoscimento della pensione sulla base della carriera ricostruita, e il riconoscimento del risarcimento del danno subito, anche non patrimoniale.
2.1. A sostegno della domanda, l’interessato ha dedotto che:
– era stato notiziato il 20 ottobre 1983 (in via gerarchica) di un telegramma proveniente dalla direzione generale del Ministero, inviato l’11 ottobre 1983, che lo informava di un provvedimento, in corso di perfezionamento, con il quale gli era stata inflitta la sanzione di perdita del grado, in esito al giudizio disciplinare e alla deliberazione del Consiglio di disciplina, adottata integralmente dal Ministro;
– il Bollettino Ufficiale del Ministero della difesa faceva riferimento ad un d.m. dell’11 ottobre 1983, registrato l’11 gennaio 1984, non verificabile per la mancanza dello stesso nell’archivio; mentre, invece, secondo la legge all’epoca vigente (art. 71, l. n. 113 del 1954) la sanzione si sarebbe potuta disporre con decreto del Presidente della Repubblica;
– il Ministero, nonostante precedenti richieste (negli anni 1983, 1984 e 1985), aveva rilasciato copia del d.P.R. dell’11 ottobre 1983 solo in data 11 marzo 1992;
– la firma “Pertini” appariva falsa, in quanto difforme da tutte le firme presidenziali, le quali riportavano il nome e il cognome del Presidente della Repubblica e il riferimento alla carica istituzionale, così come era priva del riferimento alla carica istituzionale la firma del Ministro della difesa Gi. Sp.;
– in data 26 ottobre 2010, aveva proposto querela di falso dinanzi al Tribunale di Firenze per far accertare la falsità della firma del Presidente della Repubblica;
– con sentenza n. 2812 del 2 agosto 2016, era stata dichiarata apocrifa la firma del Presidente della Repubblica, e che con la sentenza era stata sottolineata anche la mancata indicazione della carica istituzionale dello stesso oltre che del Ministro della difesa, e la difficile decifrabilità di quest’ultima firma;
– la suddetta sentenza era passata in giudicato.
2.2. Nel corso del processo di primo grado, è stata rigettata l’istanza cautelare ed è stata acquisita la documentazione relativa al procedimento disciplinare presupposto; inoltre, è stata emanata ordinanza ex art. 73, comma 3 c.p.a., sia in riferimento alla tardività del ricorso ai sensi dell’art. 31, comma 4 c.p.a., sia in riferimento al comportamento complessivo del ricorrente come incompatibile con la volontà di opporsi al procedimento disciplinare.
3. Il T.a.r. per la Toscana, con la sentenza n. 946 del 29 giugno 2018, ha dichiarato inammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. b), del c.p.a.
3.1. Il primo giudice – dopo aver dato atto delle vicende temporali rappresentate dal ricorrente e dell’iter del procedimento disciplinare, che lo aveva coinvolto sin dal 1979 anche con d.m. di sospensione dal servizio, e che si era concluso con il d.P.R. del 1983, all’esito della Commissione di disciplina e della proposta del Ministro, ricevuto in copia solo nel 1992 – ha ritenuto ravvisabile l’acquiescenza al procedimento disciplinare, non essendo stato impugnato alcun provvedimento ed essendo stato posto in essere dal ricorrente un comportamento incompatibile, anche intraprendendo diverse attività lavorative.
3.1.1. Le argomentazioni sulle quali si basa la sentenza hanno ravvisato distinte ed autonome, sia pur connesse, ragioni ostative all’esame delle censure proposte (la ravvisata acquiescenza dell’interessato e la tardività delle sue iniziative processuali) e sono così essenzialmente sintetizzabili:
a) il ricorrente fa decorrere il termine di 180 giorni per la proposizione dell’azione di nullità, sia pure implicitamente, dal passaggio in giudicato della sentenza civile che ha accertato la falsità della firma del d.P.R., ma, a prescindere dal profilo della decorrenza del termine decadenziale, l’art. 31, comma 4, c.p.a. non si attaglia alla fattispecie;
b) sussistono i presupposti dell’acquiescenza, in presenza della disponibilità del diritto, della piena conoscenza degli atti lesivi della propria situazione giuridica soggettiva e di un comportamento spontaneo di adesione alle altrui determinazioni, quali individuati dalla giurisprudenza civile e amministrativa, perché :
b1) alla data della notizia del telegramma, il 20 ottobre del 1983, contenente tutti gli elementi dell’atto conclusivo del procedimento, erano già stati emessi i provvedimenti di sospensione, pacificamente impugnabili, e il ricorrente aveva avuto contezza della conclusione del procedimento disciplinare, avendo partecipato al Consiglio di disciplina del 12 maggio precedente;
b2) dall’ottobre 1983, o quanto meno dal marzo 1992, quando ha avuto disponibilità della copia del d.P.R., sino alla proposizione dell’azione civile, nel 2010, il ricorrente non ha posto in essere alcuna attività volta a contestare la conclusione del procedimento disciplinare, ma ha piuttosto svolto attività lavorative; né, in esito all’ordinanza ex art. 73, comma 3 c.p.a., ha dedotto alcunché in merito a comportamenti giuridicamente rilevanti;
c) l’intervenuta acquiescenza prevale sull’asserita imprescrittibilità dell’azione di nullità, secondo il regime precedente all’art. 31, comma 4 c.p.a., in ragione della necessità di tutelare la certezza del procedimento amministrativo e della intangibilità degli atti non contestati;
c1) la tempestiva impugnazione del d.P.R. o degli atti che comunicavano la sospensione o la rimozione dal servizio avrebbe consentito al giudice amministrativo di valutare la legittimità del procedimento disciplinare nell’immediatezza e di disporre la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. nell’ipotesi di proposizione dell’azione per querela di falso, con salvezza degli effetti processuali;
c2) se si accogliessero le argomentazioni del ricorrente si minerebbe la certezza e l’intangibilità del procedimento disciplinare concluso da lungo tempo, mentre proprio in ragione delle esigenze di certezza, i provvedimenti amministrativi sono assistiti da una presunzione di validità (oggi valevole anche per l’azione di nullità ), superabile solo se la contestazione avvenga nei termini decadenziali previsti dalla legge, sempre che sussista, quale condizione dell’azione, un interesse che non sia venuto meno in conseguenza di comportamenti contrastanti della parte;
d) volendo ipoteticamente superare tutte le argomentazioni precedenti, si perverrebbe al rigetto della domanda della reintegrazione patrimoniale ex tunc, in mancanza di prova per la quantificazione del reddito conseguito, rilevante ai fini della dimidiazione del c.d. aliunde perceptum;
e) un comportamento della amministrazione non esente da critiche e la possibilità di responsabilità, anche penali, impone la trasmissione della sentenza alla Procura della Repubblica.
4. Avverso la suddetta sentenza, l’interessato ha proposto appello, censurando le due rationes dedicendi per mezzo di un primo complesso motivo articolato in tre profili, oltre ad un autonomo profilo relativo al rigetto nel merito; inoltre, egli ha riproposto le ragioni del ricorso di primo grado, deducendo l’inesistenza o comunque la nullità dell’atto (secondo motivo) ed il diritto alla ricostituzione della carriera, della pensione e al risarcimento del danno (terzo motivo).
4.1. Il Ministero si è costituito, instando per il rigetto.
4.2. Entrambe le parti hanno diffusamente argomentato le rispettive ragioni con memorie; l’appellante anche con memoria di replica.
5. Con il primo motivo di appello si censura la statuizione sull’intervenuta acquiescenza al provvedimento disciplinare da diverse angolazioni, articolate in tre profili.
5.1. Secondo un primo profilo, la sentenza sarebbe erronea laddove ravvisa acquiescenza nei confronti di un provvedimento rappresentato da un atto dichiarato giudizialmente falso, senza considerare che, per effetto dell’accoglimento dell’azione di querela di falso, quel documento falso ha perduto qualsivoglia valore con efficacia erga omnes e non esiste il provvedimento; con la conseguenza che non può aversi acquiescenza rispetto ad un provvedimento lesivo che non risulti emesso.
5.2. Secondo un secondo profilo, la sentenza – limitandosi a rilevare che l’art. 31 c.p.a. non si attaglia alla fattispecie – sarebbe erronea per non aver considerato che, essendo l’azione proposta non volta all’annullamento del provvedimento, ma all’accertamento dell’inesistenza, o quantomeno della nullità, dello stesso in ragione della falsità del documento che lo rappresenta, il tempo rilevante non è quello dal 1983 al 1992, durante il quale non aveva neanche conoscenza piena dell’atto, né quello successivo alla consegna della copia da parte dell’amministrazione, ma solo quello successivo all’accertamento definitivo della falsità del documento, a partire dal quale il diritto chiesto poteva farsi valere (art. 2935 c.c.).
Pertanto, il ricorso sarebbe stato tempestivamente notificato (il 18 marzo 2017) entro i 180 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza (del 2 agosto 2016, notificata il successivo 2 settembre), che ha dichiarato falso il documento.
Né, prosegue l’appellante, alcuna conseguenza può trarsi dall’azione di querela di falso svolta in via principale, anziché incidentale nel processo amministrativo, posto che entrambe le strade sono consentite dall’ordinamento al fine di rimuovere, con i medesimi effetti, il carattere fidefacente dell’atto pubblico (artt. 221, comma 1 c.p.c. e art. 77, comma 1, c.p.a.). Così come nessuna conseguenza può trarsi dalla mancata proposizione dell’azione di annullamento, trattandosi di distinti rimedi apprestati dall’ordinamento.
5.3. Secondo un terzo profilo, la sentenza sarebbe erronea nell’aver ravvisato l’acquiescenza senza identificare l’atto o la condotta fonte di accettazione, non potendosi, invece, ritenersi integrata l’acquiescenza presuntivamente nella mancata proposizione di azioni giudiziali e nello svolgimento di altre attività lavorative, mancanti del necessario carattere della univocità .
Soprattutto, sostiene l’appellante, se l’acquiescenza preclude il diritto di azione non può sostenersi che essa si realizza per via della mancata impugnazione, altrimenti si finirebbe con il riconoscere la perdita del diritto al di fuori delle fattispecie prescrizionali e decadenziali previste dalla legge; inoltre, l’erroneità della argomentazione del giudice emergerebbe dalla contraddizione in cui egli cade, quando afferma che la ritenuta acquiescenza prevale sull’asserita imprescrittibilità dell’azione di nullità, secondo il regime precedente.
Infine, la sentenza non avrebbe considerato l’abnormità del caso di specie, consistente in un documento consegnato in copia solo dopo nove anni, nella possibilità che potesse trattarsi di un falso, nelle verifiche effettuate prima di rivolgersi al giudice civile, nella necessità di avere una fonte di reddito in quel periodo, con la conseguenza che nessun rilievo può assumere lo svolgimento di attività lavorative.
6. Logicamente preliminare è lo scrutinio del terzo profilo del primo motivo di ricorso (inerente alla questione della acquiescenza), che è fondato.
Come si chiarirà nel prosieguo, non sono invece fondati i primi due profili del primo motivo (inerenti alla ravvisata tardività delle iniziative processuali dell’interessato).
7. Il T.a.r. ha dichiarato l’inammissibilità dell’azione esercitata nel 2017, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. b) c.p.a., ravvisando la mancanza di una condizione soggettiva per agire in giudizio, costituita dall’interesse a ricorrere concreto ed attuale, in presenza di acquiescenza.
Il T.a.r. ha argomentato, in riferimento al comportamento complessivo del ricorrente come incompatibile con la volontà di opporsi al procedimento disciplinare ed ha desunto tale complessivo comportamento, liberamente posto in essere dal destinatario:
a) dalla mancata proposizione dei ricorsi giurisdizionali avverso i vari atti, dai provvedimenti di sospensione alla comunicazione del telegramma, e, comunque, quantomeno, avverso la copia del d.P.R., della quale il ricorrente aveva avuto disponibilità nel 1992;
b) dall’aver svolto lavori diversi dopo la perdita del grado per rimozione.
7.1. Le censure sono fondate sulla base della giurisprudenza consolidata di questo Consiglio.
Invero, i consolidati principi che richiedono una condotta (espressa o tacita) univoca sulla irrefutabile volontà di accettare gli effetti e l’operatività del provvedimento e una volizione libera, successiva o contestuale all’emanazione del provvedimento astrattamente lesivo, ribaditi di recente dall’Adunanza plenaria n. 1 del 2016, in uno con l’esigenza di uno stringente vaglio in sede giurisdizionale onde evitare l’elusione dei valori costituzionali tutelati dagli artt. 24, primo comma, e 113, primo comma Cost., sono stati affermati nell’ambito di fattispecie di tempestiva impugnazione del provvedimento lesivo e non di mancata tempestiva impugnazione dello stesso (ex multis Cons. Stato, sez IV, n. 5775 del 2013; sez. V, n. 5694 del 2012). D’altra parte, per l’ipotesi della mancata tempestiva impugnazione del provvedimento opera il diverso istituto, proprio del diritto amministrativo, della decadenza.
7.2. Pure consolidato è il principio secondo cui non rilevano come comportamenti concludenti ai fini dell’acquiescenza quelli adottati dall’interessato in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio (ex multis, A.p. n. 1 del 2016, Cons. Stato, sez. IV n. 1126 del 2016), come sicuramente è la ricerca e lo svolgimento di un lavoro retribuito nella fattispecie.
Non è sufficiente, pertanto, il compimento di atti resi necessari od opportuni, nell’immediato, dalla esistenza del suddetto provvedimento, in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio, che non per questo escludono la eventuale coesistente intenzione dell’interessato di reagire poi per la eliminazione degli effetti dell’atto (Cons. Stato, sez. VI, n. 1417 del 2015).
8. Con i primi due profili del primo motivo di appello – ripresi anche con il secondo motivo – l’appellante mette al centro della critica della sentenza gravata (per contestare le altre sue statuizioni processuali sulla non esaminabilità delle deduzioni di primo grado) la mancata considerazione della portata della sentenza del giudice civile che ha accertato l’apocrifia della firma del Presidente della Repubblica.
Secondo la prospettazione del ricorrente, dall’accertata apocrifica della firma deriverebbe la mancata conclusione del procedimento di rimozione dal grado, con conseguenti inesistenza o nullità dell’atto finale, impugnabilità entro i 180 giorni decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza di falso e tempestività del ricorso proposto dinanzi al T.a.r.
8.1. Il percorso logico che l’appellante sviluppa – sul presupposto della inesistenza o della nullità del provvedimento – può così riassumersi:
a) il tempo rilevante ai fini della tempestività dell’azione dinanzi al giudice amministrativo decorre dal momento dell’accertamento del falso con giudicato;
b) è possibile prima agire per l’accertamento della falsità dinanzi al giudice ordinario e, poi, dinanzi al giudice amministrativo, facendo valere l’illegittimità del provvedimento falso, essendo consentito dall’ordinamento, il quale prevede due distinti rimedi per l’accertamento del falso e per l’accertamento della legittimità del provvedimento; con la conseguenza che l’interessato non era tenuto a proporre prima l’azione amministrativa a pena di decadenza;
c) a favore di tale soluzione milita il rilievo a tempo indeterminato dato alla falsità nell’ordinamento, che prevale sull’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.
8.2. La tesi prospettata non può essere condivisa, non trovando rispondenza nell’assetto ordinamentale risultante da chiare norme processuali.
8.3. In generale, deve dirsi che la disciplina processuale della querela di falso e quella del termine di decadenza per impugnare i provvedimenti amministrativi coesistono, ma operano su piani diversi e intrecciati.
8.3.1. Il codice del processo amministrativo (art. 77) prevede che, qualora il ricorrente deduca la falsità di un documento che impugna, se non prova di aver già proposto la querela di falso, deve chiedere un termine al giudice per poterla proporre dinanzi al giudice ordinario. Se il giudice amministrativo ritiene che la controversia possa essere decisa indipendentemente dal documento supposto falso la decide; altrimenti, sospende il processo sino alla definizione del giudizio di falso (art. 77) e lo dichiara estinto se nessuna parte deposita la copia della sentenza civile nel termine di 90 giorni dal suo passaggio in giudicato (art. 78).
8.3.2. La richiesta della fissazione di un termine al giudice amministrativo per poter proporre querela dinanzi al giudice ordinario è configurabile anche nel grado di appello, ovviamente nei limiti previsti per la produzione in appello delle prove documentali; con la conseguenza, che la richiesta è sicuramente ammissibile se il documento è stato già prodotto in primo grado (Cons. Stato, sez. VI, n. 6291 del 2007), salvo che il richiedente non via abbia espressamente rinunziato (Cons. Stato, sez. VI, n. 5050 del 2008).
8.3.3. La sentenza del giudice amministrativo che abbia pronunciato su un provvedimento tempestivamente impugnato può essere oggetto di revocazione, se la falsità è stata accertata dal giudice ordinario dopo la sentenza del giudice amministrativo o se la parte ignorava la sentenza di falso intervenuta prima (art. 395, primo comma, n. 2 c.p.c.).
8.3.4. Il tempo della scoperta della falsità è un dato rilevante nell’ordinamento processuale:
– nel caso di sentenza di primo grado non impugnata con l’appello, la scoperta della falsità deve essere successiva alla scadenza dei termini per l’appello (art. 396 c.p.c.);
– il ricorso per revocazione, ai sensi dell’art. 395, primo comma, n. 2, deve contenere la data della scoperta della falsità (art. 398, secondo comma, c.p.c.).
8.3.5. Dal suddetto assetto normativo discende che il termine per l’azione di inesistenza o nullità di un provvedimento non può decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa di falso.
Per consentire, insieme, l’accertamento della falsità del documento e la certezza dei rapporti giuridici che deriva dalla intangibilità degli atti non contestati, l’ordinamento ha contemperato i due valori della verità e della certezza mediante la regolamentazione processuale, escludendo il rilievo a tempo indeterminato della falsità che il ricorrente postula.
8.4. Sulla base delle argomentazioni esposte, i primi due profili delle censure del primo motivo di appello vanno rigettati.
9. Deve aggiungersi che, a favore dell’appellante, non rileva la questione se si doveva ritenere o meno imprescrittibile l’azione di inesistenza o nullità, nel quadro normativo antecedente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
Il ricorso al T.a.r. è stato proposto il 18 marzo 2017, dopo il decorso del termine di 180 giorni previsto dall’art. 31, comma 4 c.p.a.
Né trova applicazione la previgente disciplina, pur se interpretata nel senso più favorevole alle deduzioni dell’appellante, atteso che la disposizione transitoria, di cui all’art. 2, all. 3, c.p.a., vale per le azioni già proposte alla data del 16 settembre 2010, data di entrata in vigore del codice processuale amministrativo. Naturalmente, nessun rilievo ha la data di proposizione della querela di falso, che, comunque, è successiva per essere stata proposta il 26 ottobre 2010.
10. In conclusione, è accolto il terzo profilo del primo motivo di appello e sono rigettati il primo e il secondo profilo dello stesso primo motivo; per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, il ricorso proposto dinanzi al T.a.r. deve essere dichiarato irricevibile per tardività .
11. Conseguente è l’improcedibilità – per il difetto di interesse conseguente a tale preclusione processuale – delle censure attinenti alla decisione del merito della controversia – che la sentenza impugnata ha svolto in via ipotetica e per mera completezza – dedotte attraverso un ulteriore autonomo profilo del primo motivo, nonché attraverso la riproposizione delle ragioni del ricorso di primo grado, invocando l’inesistenza o, comunque, la nullità dell’atto (secondo motivo) ed il diritto alla ricostituzione della carriera, della pensione e al risarcimento del danno (terzo motivo).
E’ pertanto irrilevante anche ogni ulteriore verifica sul se a suo tempo il procedimento si sia concluso con un atto di natura autoritativa della autorità competente, e cioè sul se tale atto sia stato smarrito e sostituito e sul se l’atto conclusivo sia stato emesso dal Ministro.
11. La peculiarità della controversia, unitamente alla valenza generale delle questioni giuridiche rilevanti, consente la compensazione integrale delle spese processuali per entrambi i gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 7422 del 2018, come in epigrafe proposto, così provvede:
a) accoglie il terzo profilo del primo motivo di appello – escludendo che vi sia stata l’acquiescenza dell’interessato – e rigetta il primo e il secondo profilo dello stesso primo motivo; per l’effetto, in parziale riforma della sentenza gravata, dichiara irricevibile il ricorso introduttivo del giudizio proposto dinanzi al T.a.r.;
b) dichiara improcedibili per carenza di interesse i restanti motivi di appello;
c) compensa integralmente le spese processuali del primo e del secondo grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 21 febbraio 2019, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti – Presidente
Oberdan Forlenza – Consigliere
Daniela Di Carlo – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere
Giuseppa Carluccio – Consigliere, Estensore

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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