Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza n. 2394 del 20 gennaio 2012

Svolgimento del processo
R.R. e D.S. ricorrono avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, li ha riconosciuti colpevoli di plurimi episodi di violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (sub specie della condotta del procurare ad altri sostanza stupefacente, realizzata ogni volta per conto di soggetto che acquistava per uso personale).
Con un ricorso comune vengono articolati plurimi motivi, di natura processuale e sostanziale.
I primi due motivi, connessi, riguardano la disciplina delle intercettazioni nei confronti di un parlamentare e la relativa disciplina di garanzia, di cui si assume l’inosservanza.
Il primo motivo, in particolare, si fonda sulla premessa che il compendio indiziario sarebbe stato costituito principalmente da intercettazioni telefoniche, ove, oltre agli imputati ed al fornitore della droga (tale M.G.), risultava avere “interloquito” anche il senatore C.E., cui il M. forniva la sostanza stupefacente.
Da ciò viene dedotta la violazione della L. n. 140 del 2003, art. 4, e quindi l’inutilizzabilità delle intercettazioni, sul rilievo che trattavasi di intercettazioni che avrebbero dovuto essere autorizzate preventivamente dalla Camera di appartenenza del parlamentare. Tale regime doveva infatti applicarsi anche alle ed intercettazioni indirette (riguardanti cioè utenze non in uso al parlamentare, ma “utilizzate”

anche da quest’ultimo), nel caso in cui risulti essere proprio il parlamentare oggetto dell’accertamento giudiziale. Viene in proposito richiamato la recente decisione della Sezione feriale di questa Corte, 9 settembre 2010, n. 34244, Lombardi ed altro, sostenendosi che la Corte di appello non avrebbe adeguatamente motivato sulla “causalità” delle intercettazioni anche di colloqui cui aveva preso parte il parlamentare, non essendo satisfattiva la spiegazione fornita sulla non necessità dell’autorizzazione preventiva (l’utenza sottoposta ad intercettazione non apparteneva al parlamentare; le conversazioni cui compariva quest’ultimo erano limitatissime: appena sette; non vi era stato alcun “mutamento di obiettivi” nelle indagini, perchè a carico del parlamentare non erano mai emersi indizi di reato).
In particolare, si censura l’argomento basato sull’assenza di indizi di reato a carico del parlamentare, sostenendo che la tutela preventiva, che impone l’autorizzazione del Parlamento, è imposta per il solo fatto che venga invasa la sfera personale (anche non in qualità di indagato) del parlamentare.
Con altro motivo si prospetta la violazione della L. n. 140 del 2003, art. 6, con conseguente ulteriore profilo di inutilizzabilità delle intercettazioni. Si sostiene, in proposito, che per utilizzare le conversazioni si sarebbe dovuto comunque ricorrere alla procedura ivi indicata perchè gli imputati vi avevano preso parte come portavoce del parlamentare: poichè il parlamentare era stato “partecipe mediato” delle intercettazioni, essendo state le telefonate gestite per suo conto ed anzi essendo stato questi a volte presente ai colloqui, andava applicata la disciplina di garanzia dell’autorizzazione successiva, la cui omissione determinava la prospettata inutilizzabilità.
Il terzo motivo riguarda ancora le intercettazioni, sia pure sotto un diverso aspetto.
Si prospetta, infatti, la violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, e quindi l’utilizzabilità delle intercettazioni, argomentando sul rilievo che il provvedimento del pubblico ministero di autorizzazione all’utilizzo di impianti esterni, pur dando atto dell’indisponibilità di quelli dell’ufficio (attestata dal responsabile del servizio), non avrebbe “indagato” tale situazione, dando per scontato, assertivamente, tale situazione. La censura è sviluppata con particolare riferimento all’autorizzazione conferita dal PM agli ufficiali di PG a concludere un contratto di noleggio degli impianti.
Si lamenta comunque la mancanza nei decreti successivi (presumibilmente di proroga) della motivazione sulla persistente indisponibilità, sostenendo che tale mancanza determinerebbe la nullità “a cascata” delle intercettazioni.
Con ulteriori doglianze, anche esse connesse, si contesta il giudizio di responsabilità.
Si sostiene così, in primo luogo, che la Corte di merito avrebbe contraddittoriamente motivato sulla “consapevolezza” dei prevenuti circa l’essersi in presenza di attività

concernenti le sostanze stupefacenti, affermandosi la contraddittorietà dell’apprezzamento sul punto sviluppato.
Si censura la ricostruzione giuridica della condotta incriminata come condotta integrante il “procurare ad altri” le sostanze stupefacenti, sull’assunto che già tra il fornitore e il parlamentare C. E. vi sarebbe stato già un “contratto” circa i modi, i tempi e i prezzi di cessione della sostanza, di guisa che la condotta degli imputati non avrebbe creato “occasioni autonome” al di fuori di questo sinallagma. A ciò aggiungendo il rilievo che alla qualificazione della condotta come condotta del “procurare ad altri” ostava anche la mancanza della disponibilità della droga da girare al parlamentare, giacchè questi già trovato il proprio canale di approvvigionamento.
Con altro motivo si contesta ancora la qualificazione del fatto come condotta del “procurare ad altri” sul rilievo che gli imputati non avevano trovato la “fonte” di approvvigionamento”, risultando che già autonomamente il senatore aveva stabilito il contatto con il fornitore.
Si ribadisce, con altro motivo, la carente dimostrazione del dolo del reato, risottolineando che dagli atti non poteva dirsi dimostrata la consapevolezza dei prevenuti di stabilire contatti per finalità connesse alla dazione di stupefacenti.
Si sostiene essere stata non considerata l’applicabilità dell’art. 51 c.p., comma 3:

sub specie, dell’asserito errore di fatto in cui sarebbero incorsi gli imputati, nel ritenere di corrispondere ad un ordine legittimo del senatore C..
Infine, vi è articolazione di doglianza sulla pena: nonostante la concessione del fatto di lieve entità, la pena non avrebbe tenuto conto nè dell’atteggiamento psicologico dei prevenuti, nè del condizionamento rispetto al parlamentare.

Motivi della decisione
I ricorsi sono infondati.
I primi due motivi, che meritano trattazione unitaria, non meritano accoglimento.
Come anche precisato dalla Corte costituzionale, nella sentenza 23 novembre 2007 n. 390, in tema di intercettazioni che riguardino un parlamentare, occorre distinguere le intercettazioni “dirette” (cioè quelle compiute su utenze o in luoghi riferibili al parlamentare) da quelle “indirette” (disposte su utenze o in luoghi nella disponibilità di terzi, ma che mirano, comunque, a captare le conversazioni e le comunicazioni del membro del Parlamento).
Al riguardo, la Corte ha chiarito che la L. n. 140 del 2003, art. 4, impone l’autorizzazione “preventiva” della Camera di appartenenza del parlamentare per entrambi i tipi di intercettazione, attuando espressamente il disposto dell’art. 68 Cost., comma 3, sul rilievo che la disciplina dell’autorizzazione preventiva deve ritenersi destinata a trovare applicazione tutte le volte in cui il parlamentare sia

individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione, ancorchè questa abbia luogo monitorando utenze di diversi soggetti.
Diversa è, invece, la situazione delle intercettazioni “fortuite” o “casuali”, che hanno ad oggetto le registrazioni delle conversazioni di parlamentari avvenute occasionalmente nel corso di captazioni che hanno come diretta destinataria una terza persona: tale situazione trova la sua disciplina nella L. n. 140 del 2003, art. 6, laddove si prevede (appunto “fuori delle ipotesi di cui all’art. 4”) l’autorizzazione “successiva” della Camera di appartenenza del parlamentare; disciplina che, peraltro, proprio la Corte costituzionale, nella richiamata sentenza n. 390 del 2007, ha dichiarato costituzionalmente illegittima nella parte in cui estende il meccanismo di garanzia anche ai casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate.
Il problema, quindi, diventa quello dell’apprezzamento di che tipo di intercettazione si tratti, valendo in proposito, le esatte puntualizzazioni fornite dalla richiamata sentenza della Sezione feriale, 9 settembre 2010, n. 34244, Lombardi ed altro, rv. 248216, secondo la quale occorre pur sempre l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza in tutti i casi in cui l’intercettazione, pur non riguardando direttamente il parlamentare, ossia utenze appartenenti o nella disponibilità di questi, abbia ad oggetto utenze diverse in uso ad altri soggetti che tuttavia possono presumersi utilizzate anche dal parlamentare: in tale evenienza si è in presenza di intercettazioni “indirette” che non possono definirsi “casuali” e, pertanto, necessitano di autorizzazione preventiva. In questa prospettiva, anzi, allorquando si tratti di intercettazioni prolungate nel tempo, si impone una verifica particolarmente stringente da parte dell’autorità giudiziaria, la quale dovrà attivarsi per ottenere l’autorizzazione allorquando, durante l’intercettazione di un’utenza, emergano rapporti di interlocuzione abituale tra il soggetto intercettato e il parlamentare.
Nella specie, a prescindere da quanto rilevato dalla Corte di merito, laddove si è esclusa l’applicabilità della disciplina dell’art. 4 argomentandosi sulla base del rilievo che il parlamentare non era obiettivo delle indagini, non essendo mai emersi a suo carico indizi di reato, non si verte nè in materia di intercettazioni dirette, nè in tema di intercettazioni indirette.
Infatti, come puntualizzato in questa stessa vicenda dalla sentenza della Sezione 4, 20 settembre 2005, Donno, rv. 232720, si tratta di conversazioni effettuate da collaboratori del parlamentare, i quali svolgono funzioni di “nuncius” di quest’ultimo, limitandosi esclusivamente a trasmetterne il messaggio.
E’ situazione che, come precisato, nell’ambito di questo stesso

procedimento dalla Corte costituzionale (ordinanza 21 aprile 2005 n. 163) non rientra nell’ambito della tutela apprestata nè dalla L. n. 140 del 2003, art. 4, nè nella disciplina del successivo art. 6, con la conseguenza che, in tal caso, non è richiesta alcuna autorizzazione, neppure successiva, e i risultati delle intercettazioni sono pienamente utilizzabili. Ciò in quanto la nozione di intercettazione “indiretta” ricomprende solo le intercettazioni su utenze non riconducibili ad un parlamentare alle quali il parlamentare, casualmente, prende direttamente e personalmente parte e non quelle in cui la conversazione avviene per il tramite di altra persona, pur quando questa agisca quale nuncius del parlamentare.
Nè nello specifico la soluzione muterebbe laddove si volesse considerare la situazione delle intercettazioni in cui è comparso il parlamentare (sette, come si legge in sentenza), per l’empirico rilievo (di immediata valenza in questa sede) che tali intercettazioni, non analizzate in dettaglio in sentenza a fondamento della condanna, nè riportate dalla difesa (con puntuale sviluppo delle pretese ragioni di rilevanza ai fini dell’economia della decisione), non risultano apprezzabili in sede di legittimità, non potendo essere questa Corte, mancando una puntuale illustrazione e documentazione del motivo, rivalutarne il contenuto onde verificare se e in che termini la relativa possibile inutilizzabilità (per il mancato rispetto della disciplina di garanzia di cui all’art. 6) vulneri la tenuta della decisione, basata su ben altri e più pertinenti argomenti.
Ciò esime dal dover qui censurare (per l’evidente irrilevanza) l’argomento inesatto della Corte di merito che, nel valutare la disciplina delle intercettazioni “indirette”, sembrerebbe avere attribuito rilievo al fatto che il parlamentare sia o no sottoposto ad indagini, mentre, come si è accennato, la tutela dell’art. 6 prescinde dall’assunzione di tale ruolo, riguardando il parlamentare quale destinatario dell’atto investigativo, a prescindere dal veste processuale assunta.
Anche il terzo motivo è inaccoglibile.
Va in primo luogo rilevata la stessa imprecisa e generica articolazione del motivo. Vale, infatti, il principio in forza del quale, quando si prospetta davanti al giudice di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche (cfr. art. 271 c.p.p., comma 1), l’eccezione, per i limiti intrinseci del giudizio di legittimità, può essere esaminata solo se l’atto inutilizzabile, o dal quale consegue l’inutilizzabilità, sia stato specificamente indicato e faccia parte del fascicolo trasmesso al giudice di legittimità. E’ pur vero che, trattandosi di motivo di natura processuale, alla Corte di cassazione sarebbe consentito di esaminare gli atti del fascicolo processuale al

fine di verificare il fondamento dell’eccezione proposta, ma l’applicazione concreta di questo principio presuppone, comunque, che venga quanto meno specificamente indicato l’atto affetto dal vizio denunciato e che l’atto da esaminare sia contenuto nel medesimo fascicolo. Se, invece, questa indicazione non viene fornita deve ritenersi che il motivo sia inammissibile per genericità, non consentendo al giudice di legittimità di individuare l’atto affetto dal vizio denunciato.
Mentre se l’indicazione viene fornita, ma l’esame dell’eccezione richiede l’acquisizione di atti o documenti o notizie di qualsiasi genere che non formano parte del fascicolo del processo, deve ritenersi che costituisca onere della parte richiederne l’acquisizione al giudice di merito, compreso quello d’appello, ed anche indipendentemente dalla formulazione di motivi di appello sul punto, in considerazione della rilevabilità delle ipotesi di inutilizzabilità anche d’ufficio e in ogni stato e grado del procedimento. Del resto, diversamente, verrebbe attribuito al giudice di legittimità un compito di individuazione, ricerca ed acquisizione di atti, notizie o documenti del tutto estraneo ai limiti istituzionali del giudizio di legittimità (Sezione 4, 19 ottobre 2004, n.3437, Bonaccorso ed altri).
In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, quindi, qualora venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, siccome asseritamente eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, (art. 271 c.p.p., comma 1), è onere della parte indicare specificamente l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato e curare che tale atto sia comunque effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, magari provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione: in difetto, come detto, il motivo sarebbe inammissibile per genericità, non essendo consentito alla Cassazione di individuare l’atto affetto dal vizio denunciato (Sezione feriale, 19 agosto 2010, Scuto ed altri).
Qui tale onere non è stato soddisfatto nè con riferimento al decreto del pubblico ministero oggetto di diretta contestazione, nè con riferimento ai decreti di proroga successivi.
In ogni caso, alla luce di come già la Corte di merito ha affrontato la doglianza, risulta evidente l’infondatezza del motivo.
Il giudicante ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, per derogare all’utilizzo degli impianti siti presso la Procura della Repubblica, è necessario che concorrano, contemporaneamente, due requisiti: la loro insufficienza o inidoneità e le eccezionali ragioni di urgenza, ed è necessario che tali

presupposti siano esplicitati nel provvedimento del pubblico ministero, non potendo essere consentiti “recuperi di motivazione” ex post da parte del giudice di merito o di legittimità (cfr. Sezioni unite, 12 luglio 2007, Aguneche ed altri). Sotto questo profilo, con riferimento all’insufficienza o inidoneità degli impianti in uso presso l’ufficio di Procura, trattasi di nozione che si riferisce alla “inidoneità di tipo funzionale” di tali impianti, comprendente non solo una obiettiva situazione di fatto che renda necessario il ricorso ad impianti esterni (come l’indisponibilità di linee o di apparecchiature presso l’ufficio o il non funzionamento materiale delle stesse), ma anche la concreta inadeguatezza al raggiungimento dello scopo, in relazione al reato per cui si procede ed alla tipologia di indagine necessaria all’accertamento dei fatti, in relazione, cioè, alle caratteristiche concrete delle operazioni captative ed alle finalità investigative perseguite (che si verifica, esemplificando, quando sia necessario organizzare eventuali immediati servizi paralleli di polizia giudiziaria). Mentre, con riguardo al profilo delle eccezionali ragioni di urgenza, questo può essere integrato anche con il riferimento al reato investigato (ad esempio, come nella specie, con il richiamo al reato associativo permanente oggetto di investigazione in un contesto in cui si ipotizzi come imminente il compimento di reati-fine) (di recente, Sezione 4, 22 settembre 2010, n. 44839, Alija ed altri, non massimata).
In vero, per quanto qui oggetto di censura, è sufficiente rilevare, dagli argomenti in fatto utilizzati dalla Corte di merito, che l’utilizzo degli impianti esterni è stata puntualmente spiegata e documentata avendo riguardo all’attestazione dell’indisponibilità delle linee interne fatta dal dirigente del servizio. Rispetto a tale spiegazione, in linea con il richiamato principio, non è certo richiesta alcuna ulteriore “indagine” come preteso dalla difesa.
La doglianza non sarebbe neppure fondata valorizzando la censura che sembra essere stata sviluppata circa il noleggio degli impianti utilizzati per le operazioni intercettive.
Infatti, rilevata e ribadita la correttezza dei provvedimenti autorizzativi, va ricordato il principio pacifico secondo cui, in tema di intercettazioni, una volta rilasciato dal pubblico ministero il provvedimento che dispone il ricorso ad impianti in uso presso la polizia giudiziaria (art. 268 c.p.p., comma 3), non è necessaria un’autorizzazione del pubblico ministero particolarmente mirata a legittimare l’uso di strumenti appartenenti a privati, giacchè deve considerarsi impianto in dotazione alla polizia giudiziaria qualunque apparecchiatura della quale la stessa abbia la disponibilità presso i propri uffici, e dunque rientrando in tale nozione anche il materiale tecnico che, appartenendo a

privati, venga da costoro consegnato in via precaria per effetto di noleggio o d’un qualunque altro contratto (Sezione 2, 27 ottobre 2005, Alabiso, non massimata).
Principio che va ulteriormente chiarito nel senso che l’ipotesi (che qui interessa) in cui la polizia giudiziaria, autorizzata all’esecuzione delle operazioni intercettive mediante impianti diversi da quelli installati presso la Procura della Repubblica, vi provveda direttamente, utilizzando apparecchiature noleggiate da privati, rientra appunto nella previsione del comma 3 (come detto, integralmente osservata), e non in quella dell’art. 268 c.p.p., comma 3 bis, in quanto quest’ultimo prevede la diversa ipotesi dell’utilizzazione di impianti di privati, da questi direttamente gestiti, i quali, in tal caso, agiscono come “ausiliari” del pubblico ministero o della polizia giudiziaria e, quindi, sotto il controllo di questi ultimi (Sezione 6, 14 dicembre 2006, n. 14217, Calasso, non massimata sul punto).
Certo poi non potrebbe accedersi alla pretesa nullità a cascata, in ossequio al il principio della incomunicabilità della inutilizzabilità che abbia riguardato taluno degli esiti delle intercettazioni per difetto dei provvedimenti autorizzativi. Ciò perchè, in materia di inutilizzabilità non trova applicazione il principio dettato dall’art. 185 c.p.p., comma 1, secondo cui la nullità di un atto rende invalidi tutti gli atti consecutivi che da quello dipendono, onde l’inutilizzabilità probatoria del contenuto di una intercettazione telefonica (art. 271 c.p.p.), per inosservanza delle disposizioni di legge, non esclude che quel contenuto possa valere come “notizia di reato”, dando impulso ad ulteriori indagini, che poi il giudice può legittimamente utilizzare per la valutazione del quadro probatorio. In altri termini, ciascun decreto autorizzativo è dotato di piena autonomia e può ricevere impulso da qualsiasi notizia di reato, pur desunta da precedenti intercettazioni inutilizzabili, derivandone che il vizio di cui in ipotesi sia affetto l’originario decreto intercettivo non si comunica automaticamente a quelli successivi, correttamente adottati, vuoi che si tratti delle proroghe del primo decreto, vuoi che si tratti di decreti autonomamente emessi sulla base di elementi aliunde acquisiti (Sezione 4, 4 dicembre 2006, n. 19331, Proc. gen. App. Roma ed altri in proc. Vacca ed altri; Sezione 4, 22 febbraio 2008, n. 16432, Masalmeh ed altri).
Anche i motivi afferenti il giudizio di responsabilità sono infondati.
Nessuno degli argomenti, che vanno trattati congiuntamente, meritano condivisione.
In realtà, quanto al profilo del dolo del reato, reiteratamente trattato, trattasi di doglianza tipicamente di merito, che vorrebbe imporre una rivalutazione della Corte di legittimità sull’apprezzamento (sviluppato concordemente in primo

e secondo grado) della condotta tenuta dagli imputati. E ciò a fronte di decisioni logicamente motivate, attraverso un’analitica valutazione delle attività svolte, del contenuto dei colloqui, dei termini criptici utilizzati, delle modalità di fissazione degli incontri (urgenza; orario notturno) e del ruolo professionale dei prevenuti (circostanza, questa, valorizzata traendone non arbitrariamente argomento per dimostrare la conoscenza della vera finalità degli appuntamenti che andavano a fissare, anche perchè avevano già sottoposto a controllo il Martello, trovandolo in possesso di droga).
Corretta è poi la ricostruzione giuridica della condotta.
La condotta del “procurare ad altri” è, in vero, sostanzialmente quella dell'”intermediazione” posta in essere dall’agente al fine di provocare l’acquisto, la vendita o la cessione di droga da parte di terzi: in vero, anche senza l’espressa previsione normativa, il responsabile sarebbe punibile a titolo di concorso nell’acquisto, nella vendita o nella cessione (per riferimenti, Sezione 4, 28 ottobre 1998, Generali; nonchè, più di recente, Sezione 4, 2 dicembre 2005, n.4458, Chimienti, la quale, dopo avere appunto affermato che tra le condotte illecite punite dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 rientra anche quella “intermediazione”, che è ricompresa nella condotta del “procurare ad altri” puntualmente descritta nella norma incriminatrice (condotta con la quale si intende punire l’attività illecita di chi agisce al fine di provocare l’acquisto, la vendita o la cessione di droga da parte di terzi), da queste premesse ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 73, sollevata sotto il profilo della violazione del principio di determinatezza della norma incriminatrice e sotto quello della violazione del diritto di difesa).
Per la sussistenza della fattispecie delittuosa sarebbe quindi finanche sufficiente che l’intermediario indichi all’acquirente il nome del possibile venditore di stupefacente (così, Sezione 6, 10 giugno 1988, Mormina; Sezione 6, 10 ottobre 1989, Cerami; Sezione 6, 27 aprile 1998, Leoni) e, più in generale, ponga in essere qualsiasi attività destinata a collegare venditore ed acquirente (Sezione 4, 17 dicembre 1991, Ghiso).
Non rileva quindi, affatto, che il senatore Colombo, destinatario finale della sostanza stupefacente, già conoscesse il fornitore, in quanto rimarrebbe comunque penalmente sanzionato, a titolo di intermediazione, il comportamento di chi, poi, nello specifico, avesse consentito (come gli imputati) il trasferimento della sostanza, anche in ipotesi operando come nuncius.
Gli argomenti sviluppati dalla Corte sul dolo escludono rilievo alla doglianza evocata richiamando l’art. 51 c.p., dovendosi escludere qualsivoglia errore di fatto che possa avere indotto a ritenere di obbedire ad un ordine legittimo.
Vale il principio, pacifico e correttamente applicato in sentenza, secondo cui la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere è inapplicabile, anche a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 66 del 2010 (c.d. codice dell’ordinamento militare) che ha abrogato la L. n. 382 del 1978, al militare che adempia ad un ordine impartitogli da un superiore gerarchico e la cui esecuzione costituisca manifestamente reato, essendo questi tenuto a non eseguirlo e ad informare al più presto i superiori (Sezione 3, 10 marzo 2011, Riccio ed altro, rv. 250284; nonchè, Sezione 5, 25 novembre 2008, Marino, rv. 243325).
Infine, anche la doglianza sulla pena è inaccoglibile.
Si censura una determinazione correttamente sviluppata in ossequio ai parametri di riferimento di cui all’art. 133 c.p., opponendosi una prospettazione alternativa improponibile in questa sede, nell’assenza non solo di evidenti illogicità, ma anche in presenza di una pena finale comunque contenuta e vicina ai minimi, anche in ragione del numero degli episodi.
I ricorsi vanno, dunque, rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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