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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV

SENTENZA 21 gennaio 2016, n. 2544

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Monza con sentenza 4 giugno 2012:

– dichiarava G.M.R. e C.G.P. colpevoli del reato di omicidio colposo ad essi ascritto e, concesse le circostanze attenuanti di cui all’art. 62 c.p., n. 6 e art. 62 bis c.p., ritenute equivalenti alla contestata aggravante di cui all’art. 589 c.p., comma 2, li condannava alla pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione; concedeva a G.M.R. e C.G. P. la sospensione condizionale della pena;

– dichiarava GES.CO.MONT s.r.l., in persona del legale rappresentante, responsabile dell’illecito amministrativo contestato e, concessa la riduzione della sanzione D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 12, comma 2, lett. a), applicava nei confronti della predetta società la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 80.000.00 (ottantamila);

-condannava infine GES.CO.MONT s.r.l., in persona del legale rappresentante, al pagamento delle spese processuali.

Nel capo di imputazione veniva contestato a G.M.R. e a C.G.P. il reato p. e p. dall’art. 113 c.p. e art. 589 c.p., comma 2 perchè, agendo in cooperazione colposa tra loro, la prima quale amministratore unico della GE.SCO.MONT. srl ed il secondo quale direttore tecnico della predetta società, cagionavano, per colpa, la morte di B.I., operaio montatore alle dipendenze di GE.SCO.MONT. presso il cantiere ex (OMISSIS).

In detto contesto spazio temporale, B.I., alla guida di una autogrù Corradini 725 S tg. (OMISSIS), che aveva condotto in prossimità del cancello di uscita dal cantiere, ivi arrestando la marcia, rimaneva schiacciato dalla stessa che, retrocedendo lungo la scarpata per un difetto di funzionamento del freno, lo trascinava attaccato alla cabina di guida, ribaltandosi infine sul fondo della scarpata, così cagionandogli lesioni gravissime, dalle quali derivava la morte.

Agli imputati l’evento veniva contestato a titolo di colpa, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia e, segnatamente, nella inosservanza:

– della norma di cui al D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 12, comma 3 in ordine al mancato rispetto del PSC (Piano di Sicurezza e Coordinamento), poichè, a fronte della previsione generale di cui alla pag. 8 dello stesso, di utilizzare esclusivamente autogrù soggette a marcatura CE, consentivano l’utilizzo di un mezzo non riconducile a tale fattispecie poichè costruito in epoca antecedente al 1996;

-della norma cautelare generale di cui all’art. 2087 c.c., per non aver adottato le misure prevenzionali più idonee a tutelare la salute dei lavoratori dipendenti, consentendo l’utilizzo di una autogrù con freno di stazionamento non funzionante e per non aver installato, sul vecchio tipo di autogrù in uso, dispositivi di blocco automatico attivabili in caso di mancanza di pressione dell’impianto frenante;

– della norma di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 4, lett. c), per non aver attuato idonea manutenzione dell’impianto frenante della suddetta autogrù;

– della norma di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 2 (in rel. D.Lgs. n. 494 del 1994, art. 2, comma 1, lett. f-ter e art. 9, comma 1, lett. c-bis e comma 2, così come modificati dall’art. 528/99) in merito alla carenza del POS, per non aver esaminato rischi specifici connessi all’uso di un’autogrù con impianto frenante di vecchia generazione, nè inserito un programma specifico di miglioramento dei livelli di sicurezza con riferimento alla problematica di un sistema frenante vetusto; nonchè per aver omesso una procedura nota e vincolante con la quale si inibisse lo spostamento dell’autogrù senza previo accertamento di avvenuta carica dei serbatoi d’aria a servizio dell’impianto frenante.

Inoltre alla società GE.SCO.MONT. srl era addebitato l’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, lett. a) e b) per il reato di cui agli art. 113 e art. 589, comma 2 commesso in danno di B.I., poichè commesso nel suo interesse ed a suo vantaggio, avendo omesso di adottare ed efficacemente attuare, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

2.Avverso la suddetta sentenza proponevano impugnazione entrambi gli imputati, nonchè la società, chiedendo in via principale l’assoluzione degli imputati dalle contestazioni ad essi mosse; e, in ogni caso, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di disporre una perizia tecnica sui tempi di percorrenza della rampa e su quelli necessari per la ricarica dei serbatori dell’impianto frenante dell’autogrù in sequestro. La società inoltre chiedeva la revoca della confisca dell’autogrù e, in subordine, una congrua riduzione della sanzione amministrativa applicata nei suoi confronti.

3.La Corte di appello di Milano con sentenza 14 maggio 2014 confermava la sentenza impugnata e condannava gli appellanti al pagamento delle spese processuali relative al grado.

In motivazione, la Corte preliminarmente rilevava che: il Tribunale aveva riassunto esaustivamente le dichiarazioni dei testi e dei consulenti, con puntuale riferimento alla prodotta documentazione; le censure degli appellanti si incentravano non su tale ricostruzione delle vicende, ma sulla interpretazione che delle stesse era stata data dal primo giudice. In particolare, gli imputati, persone fisiche, non contestavano la sussistenza della loro posizione di garanzia nei confronti della vittima, ma si erano limitati a respingere ogni addebito di colpa e a contestare che l’espletata istruttoria avesse provato la causa dell’infortunio mortale.

Parimenti la società GES.CO.MONT., con motivi d’appello sovrapponibili, respingeva la responsabilità amministrativa in riferimento all’insussistenza del reato in capo a G.M. R. e C.G., ritenendo quindi non in discussione gli ulteriori presupposti D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 5 per l’imputazione di responsabilità.

Quindi, riportava la sentenza in modo integrale nei punto oggetto di appello, per poi esaminare le censure mosse alle argomentazioni poste a sostegno del decisum.

4.Avverso la suddetta sentenza proponevano ricorso per cassazione entrambi gli imputati persone fisiche, nonchè la società GES.CO.MONT. 4.1. Il ricorso presentato nell’interesse degli imputati era affidato ad un unico motivo di doglianza. In particolare, i ricorrenti premettevano che il giudice di primo grado aveva disatteso la loro richiesta di perizia sul funzionamento dell’impianto frenante della autogrù sul presupposto che la ricostruzione di cui alla consulenza dell’Ing. P., consulente della difesa, fosse del tutto inverosimile e che il sinistro fosse in stretto nesso causale con i comportamenti colposi contestati. Si lamentavano i giudici di appello avevano ritenuto illogica la prima congettura alternativa da essi formulata (quella cioè secondo la quale l’impianto frenante aveva raggiunto la pressione di piena efficienza nel momento in cui si era verificato il tragico incidente) e, d’altra parte, non avevano spiegato perchè fosse preferibile la prospettazione offerta dall’Ing. B., consulente del PM, in ordine al fatto che in cima alla rampa i serbatoi dell’impianto frenante non fossero ancora completamente carichi. Rilevavano che in un caso come quello di specie sarebbe stata doveroso disporre una perizia, dal momento che vi era un radicale contrasto tra le due tesi prospettate dai consulenti delle parti.

4.2. Anche nel ricorso presentato nell’interesse della società veniva dedotta la mancata assunzione di una prova decisiva e la illogicità della motivazione della sentenza impugnata.

In vista dell’odierna udienza, la società GES.CO.MONT, tramite il proprio difensore, depositava memoria contenente motivi nuovi ex art. 585 c.p.p, comma 4.

In sintesi, la società, nel riportarsi al ricorso, si lamentava anche del fatto che i giudici di merito avevano affrontato la questione della responsabilità dell’ente quasi fosse una conseguenza automatica della ritenuta responsabilità degli imputati. Nel caso di specie la condotta posta in essere da G.M.R., quale legale rappresentante della società, non sarebbe stata funzionale ad uno specifico vantaggio dell’ente e, pertanto, non sarebbe possibile ravvisare un collegamento tra la condotta posta in essere dagli imputati ed uno specifico interesse dell’ente a che tale condotta fosse posta in essere.

Motivi della decisione

1.1 ricorsi non sono fondati e, pertanto, devono essere rigettati.

Non fondato è il motivo dei ricorsi, presentati nell’interesse degli imputati persone fisiche, nonchè il primo motivo di ricorso presentato nell’interesse della società.

2.1. Al riguardo, giova rilevare che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito: che il vigente codice di rito penale pone una presunzione di completezza dell’istruttoria dibattimentale svolta in primo grado; che la rinnovazione, anche parziale, del dibattimento, in sede di appello, ha carattere eccezionale e può essere disposta unicamente nel caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti; e che solo la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, (Sez. 5, sent. n. 6379 del 17/03/1999, Bianchi F., Rv. 213403).

Nell’alveo dell’orientamento interpretativo ora richiamato, la Suprema Corte ha poi affermato che l’esercizio del potere di rinnovazione istruttoria si sottrae, per la sua natura discrezionale, allo scrutinio di legittimità, nei limiti in cui la decisione del giudice di appello, tenuto ad offrire specifica giustificazione soltanto dell’ammessa rinnovazione, presenti una struttura argomentativa che evidenzi -per il caso di mancata rinnovazione – l’esistenza di fonti sufficienti per una compiuta e logica valutazione in punto di responsabilità (cfr. Sez. 6, sent. n. 40496 del 21/05/2009, Messina, Rv. 245009).

2.2. Orbene, nel caso di specie, la Corte di Appello, nel rigettare l’istanza di rinnovo della istruttoria dibattimentale e in particolare la richiesta perizia sul funzionamento dell’impianto frenante dell’autogrù:

– dapprima ha ritenuto corretto l’operato del Giudice di primo grado che aveva disatteso la corrispondente sollecitazione difensiva (formulata in sede di conclusioni) ‘a fronte di una istruzione articolata ed approfondita anche dal punto di vista tecnico, che ha consentito di analizzare ogni singolo aspetto della vicenda, fornendo piena contezza che l’ipotesi di un guasto totalmente imprevedibile ed inevitabile all’impianto frenante a pedale dell’autogrù condotta dal B. una volta giunta in cima alla salita, come formulata dalle Difese sulla base della consulenza di parte, sia del tutto inverosimile e come invece il sinistro sia in stretto nesso causale con i comportamenti colposi contestati’;

-poi, ha aggiunto che era illogico ipotizzare ‘che il freno a pedale dell’autogrù di tipo pneumatico (sistema frenante di servizio dei mezzi pesanti, che sono dotati di un compressore, che carica un serbatoio ad aria compressa, dal quale l’aria viene poi distribuita su altri quatto serbatoi più piccoli, ciascuno posto a corredo delle ganasce sulle quattro ruote), pur essendo i serbatoi carichi, non sia stato utilizzato per motivi quali un errore del conducente o un suo malore’; ed ha spiegato che ‘la tesi non è sostenibile solo se si consideri che i testi hanno visto in diretta il tragico infortunio ed in particolare il vano tentativo della vittima di saltare fuori dal mezzo poco prima del suo rovesciamento, mentre non appare seriamente prospettabile che il B., da lungo tempo gruista della società, non abbia schiacciato il freno a pedale allorquando la gru ha iniziato a retrocedere a ruota libera (essendo pacifico e non contestato, attese le tracce dei pneumatici che non vi era stato scivolamento del mezzo) per la pendenza’; ed ha ritenuto ‘singolare che lo stesso consulente P. ipotizzi per contro che il guasto al dispositivo di blocco della leva del diverso freno di stazionamento potrebbe essere stato causato da eccessiva tirata ad opera del B. (colto da malore o imbelle?) nel disperato tentativo di arrestare l’arretramento dell’autogrù’;

-quindi, ha osservato che l’ing. P. non era l’originario consulente tecnico che aveva partecipato agli accertamenti tecnici irripetibili eseguiti in contraddittorio durante le indagini preliminari; che ‘in quella sede non erano stati richiesti ulteriori accertamenti sull’impianto frenante a pedale, oltre quello che ha confermato, previo smontaggio del distributore, come la catena di distribuzione fosse funzionante permettendo all’aria compressa di arrivare ai freni’; e che già il Tribunale aveva comunque ‘correttamente rilevato come i dati di tale esperimento domestico siano comunque ben compatibili con l’ipotesi formulata dal consulente del P.M. e dal tecnico ASL, ovverosia che il mancato funzionamento sia da ricondurre al fatto che i serbatoi non avevano raggiunto la pressione di servizio’;

-infine, ha ritenuto che ‘le contestazioni basate sulla consulenza P. vanno pertanto respinte come non idonee ad inficiare il solido quadro probatorio di cui ha dato conto il Tribunale’; mentre ‘la prospettazione effettuata dall’Ing. B. e dal perito M. in ordine al fatto che in cima alla rampa i serbatoi dell’impianto frenante non fossero ancora completamente carichi, non permettendo l’efficienza dell’impianto frenante pneumatico azionato dal freno a pedale’ era ‘l’unica verosimile con i dati fattuali emersi dall’istruzione dibattimentale’.

2.3. In definitiva, la Corte di Appello ha giustificato il rigetto della richiesta di rinnovo della istruttoria dibattimentale sviluppando plurime e specifiche argomentazioni che, in applicazione dell’orientamento interpretativo sopra richiamato, non risultano sindacabili in questa sede di legittimità.

Non fondato è il primo motivo di ricorso presentato nell’interesse della società anche nella parte in cui lamenta vizio di motivazione.

3.1. Al riguardo, occorre rilevare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità ‘deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali’ (in tal senso, tra le tante, Cass. Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 1996, Beyzaku, Rv. 203272).

Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una ‘rilettura’ degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (sent. n. 6402 del 30/04/1997, dep. 1997, Dessimone ed altri, Rv. 207945).

E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per effetto della L. 20 febbraio 2006, n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasto preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, sent. n. 17905 del 23.03.2006, Baratta, Rv. 234109).

Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (tra le tante, Sez. 1, sent. n. 1769 del 23/03/1995, Ciraolo, Rv. 201177; Sez. 6, sent. n. 22445 del 8/05/2009, Candita ed altri, Rv. 244181).

E la illogicità, quale vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sent. n. 6402 del 30/04/1997, dep. 1997, Dessimone ed altri, Rv. 207945).

3.2. Orbene, nel caso di specie, il Giudice di merito di primo grado, dopo aver analiticamente ripercorso le risultanze processuali (accertamenti compiuti nell’immediatezza da personale del Commissariato di Sesto San Giovanni, da personale della Polizia Scientifica della Questura di Milano, dai tecnici dell’Asl competente e dal personale sanitario; deposizioni testimoniali degli impiegati e degli operai, dipendenti di GES.CO.MONT, nonchè degli operai Z. e M., non legati da rapporto lavorativo con gli imputati e con la società, e pur presenti nel cantiere al momento del fatto;

deposizione testimoniale del tecnico dell’ASL M.M., che ha concluso nel senso che il freno di stazionamento non era funzionante ed ha effettuato un ricostruzione del sinistro, che ha trovato conferma nella consulenza tecnica eseguita dall’Ing. B.M., su disposizione del PM, in contraddittorio con i consulenti tecnici della difesa; deduzioni svolte dall’Ing. P. P., consulente di parte GES.CO.MONT srl intervenuto nella fase successiva agli accertamenti tecnici irripetibili eseguiti nel corso delle indagini preliminari), è giunto a ritenere che ‘l’unica ricostruzione plausibile dell’infortunio’ sia la seguente:

B.I. conduceva l’autogrù dal fondo del cantiere fino al cancello d’uscita lungo una rampa serrata, con una pendenza del 12,9% resa fangosa dalle abbondanti precipitazioni piovose; giunto in prossimità del cancello, su un terreno con una pendenza 6,5%, arrestava l’autogrù in attesa che un collega dalla strada gli desse il via libera per eseguire la manovra di uscita e caricare l’automezzo su un rimorchio; tuttavia, l’autogrù (che pesava 30 tonnellate) iniziava ad arretrare e, percorsi circa 20 metri, rompeva un parapetto in legno e scivolava nella scarpata, ribaltandosi;

cercava di salvarsi lanciandosi all’esterno della cabina di guida, ma il suo giubbotto restava impigliato e finiva schiacciato dall’autogrù.

Il Giudice di primo grado si è analiticamente soffermato sui profili di colpa contestati agli odierni imputati, nelle rispettive qualità, ‘causalmente connessi alla verificazione dell’evento lesivo’, e, in particolare sulla mancanza di un dispositivo di sicurezza obbligatorio, rilevando che: ‘Non solo l’autogrù era vecchia, priva di marcatura CE, non dotata di presidi di sicurezza attiva e con il freno di stazionamento rotto, il che denota anche una carenza di manutenzione del mezzo, ma sono stati accertati altresì:

-la carenza di informazioni e formazione ai dipendenti (ed in particolare al gruista) in merito all’uso e alla movimentazione di quella autogrù, non risultando effettuato alcun corso specifico, nè fornite istruzioni adeguate;

-la mancata adozione di procedure di lavoro dettagliate e vincolanti per gli operai, quali l’obbligo di non spostare il mezzo prima di alcuni minuti in modo da essere certi che l’impianto frenante ad aria compressa fosse carico;

-la mancata valutazione nel Piano Operativo di Sicurezza dei rischi specifici connessi all’uso ed allo spostamento di un mezzo con quelle caratteristiche’.

In particolare, il Giudice di primo grado ha sottolineato la accertata violazione da parte del legale rappresentante e della dirigenza della società del Piano di Sicurezza e Coordinamento relativo al cantiere, che, alla pagina 8, prevedeva espressamente l’obbligo di omologazione e di marcatura CE per tutti i mezzi di sollevamento utilizzati in cantiere, compresi autogrù, muletti ed argani.

D’altronde, la Corte di Appello ha chiarito, sviluppando un percorso argomentativo tutt’altro che manifestamente illogico, che le emergenze probatorie, acquisite agli atti, evidenziavano la correttezza della ricostruzione dell’infortunio mortale effettuata dal giudice di primo grado e la sussistenza dei profili di colpa contestati agli allora appellanti. In particolare, secondo la Corte, appariva ‘palese la violazione da parte degli imputati dello specifico dovere di dotare il lavoratore di macchinari del tutto sicuri, dovendosi in proposito ispirare la loro condotta alle acquisizioni della miglior scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza’. D’altronde, dalla documentazione prodotta dalla difesa ‘non risultava alcun intervento manutentivo avente ad oggetto in specifico l’impianto frenante’.

3.3. Richiamato l’orizzonte dello scrutinio di legittimità, sopra delineato, occorre rilevare che la congiunta lettura di entrambe le sentenze di merito – che, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868 del 26/6/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) – evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all’apprezzamento del compendio probatorio, che risulta immune da censure rilevabili dalla Corte regolatrice; e che la società ricorrente invoca, in realtà, una inammissibile riconsiderazione alternativa del compendio probatorio, proprio con riguardo alle inferenze che i giudici di merito hanno tratto dagli accertati elementi di fatto, ai fini della affermazione della penale responsabilità degli imputati.

Il motivo nuovo articolato dalla difesa della società in sede di memoria 19 novembre 2015 è inammissibile ed è comunque infondato.

L’inammissibilità consegue al fatto che detto motivo concerne un oggetto, che non era stato dedotto con i motivi affidati al gravame di merito.

Invero, nell’atto di appello, la società si era limitata a chiedere l’assoluzione degli imputati, quanto meno ai sensi dell’art. 530, comma 2, ovvero, in subordine, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’espletamento di perizia diretta a risolvere i contrasti tra le posizioni dei consulenti tecnici.

In quella sede, dunque, la società non aveva devoluto alla Corte territoriale il tema degli ulteriori presupposti previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 per l’imputazione della responsabilità dell’ente, tema introdotto soltanto in sede di motivi aggiunti al ricorso a questa Corte di legittimità.

Il motivo, d’altronde, quand’anche fosse ammissibile, sarebbe infondato.

5.1. Nel caso di specie era contestato alla società GES.CO.MONT. s.r.l., alle cui dipendenze lavorava l’infortunato, l’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, lett. a) e b) per il reato di cui al capo che precede (art. 589 c.p. in danno di B.I.) – id est la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 septies, inserito dalla L. 3 agosto 2007, n. 123, art. 9, comma 1 – poichè commesso nel suo interesse ed a su vantaggio, avendo omesso di adottare ed efficacemente attuare, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, fatto commesso in (OMISSIS).

5.2. Come sopra rilevato, la società ricorrente, in sede di motivi aggiunti, ha contestato anche i presupposti previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 per l’imputazione della responsabilità, che nel caso di specie concerne un reato colposo di evento.

5.2.1. Sotto il profilo dei criteri di imputazione oggettiva, occorre precisare che la suddetta norma individua i criteri di imputazione oggettiva dell’ente nel fatto che i reati presupposti siano commessi nell’interesse o vantaggio, anche non esclusivo, dell’ente e da persone che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione o gestione (anche di fatto) oppure da dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti prima indicati. L’ente non risponde se le persone predette abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Dunque, il citato art. 5 pone il problema della compatibilità tra fattispecie di reato caratterizzate dalla non volontarietà dell’evento (i delitti colposi di evento) e il finalismo della condotta da cui scaturisce la responsabilità dell’ente, nel cui interesse o vantaggio quei reati devono essere stati commessi.

Di recente, le Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sent. n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn ed altri) hanno avuto modo di precisare che i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico.

Questa appare, intatti, l’unica interpretazione che non svuota di contenuto la previsione normativa e che risponde alla ratio dell’inserimento dei delitti di omicidio colposo e lesioni colpose nell’elenco dei reati fondanti la responsabilità dell’ente, in ottemperanza ai principi contenuti nella legge delega: indubbiamente, non rispondono all’interesse della società, o non procurano alla stessa un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di normative antinfortunistiche, mentre è indubbio che un vantaggio per l’ente possa essere ravvisato, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui violazione ha determinato l’infortunio sul lavoro.

I termini ‘interesse’ e ‘vantaggio’ esprimono concetti giuridicamente diversi e possono essere alternativi: ciò emerge dall’uso della congiunzione ‘o’ da parte del legislatore nella formulazione della norma in questione e, da un punto di vista sistematico, dalla norma di cui all’art. 12, che al comma 1, lett. a) prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l’autore ha commesso il reato nell’interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo, il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell’interesse dell’ente, ma non procurargli in concreto alcun vantaggio. Ne consegue che (sul punto cfr. Sez. 2, sent. n. 3615 del 20/12/2005, dep. 2006, Rv. 232957) il concetto di ‘interesse’ attiene ad una valutazione antecedente alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di ‘vantaggio’ implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato (e, dunque, una valutazione ex post).

Nei reati colposi d’evento, il finalismo della condotta prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo. Ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa:

pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l’ente e l’illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi.

Occorre, perciò, accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l’infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio, ad esempio, risparmiando i costi necessari all’acquisto di un’attrezzatura di lavoro più moderna ovvero all’adeguamento e messa a norma di un’attrezzatura vetusta.

Tale accertamento risulta essere stato compiuto dal giudice di merito di primo grado che, ad esito dell’istruzione dibattimentale, ha ritenuto provate -oltre alla sussistenza del delitto di cui all’art. 589 in danno dell’operaio dipendente B.I., commesso con plurime violazioni della normativa in materia di sicurezza del lavoro dal legale rappresentante della società ( G.M.R.) e dal dirigente ( C.G.F.) – la protratta sistematica violazione della normativa prevenzionistica a vantaggio dell’ente, che aveva risparmiato i costi connessi all’acquisto di un’attrezzatura di lavoro moderna, efficiente e sicura (un’autogrù dotata di tutti i dispositivo di sicurezza previsti dalla tecnica e conforme alla normativa comunitaria e alle norme tecniche vigenti all’epoca del fatto) con la quale sostituire la vetusta autogrù Corradini indicata nel capo di imputazione, ovvero i costi delle modifiche tecniche necessarie a rendere quel macchinario sicuro per i lavoratori; nonchè la circostanza che la società aveva risparmiato i costi (in termini sia di retribuzione dei formatori che di mancato impiego degli operati in cantiere per attività produttive) connessi ad un’adeguata attività di formazione ed informazione dei lavoratori (ed in particolare di B.I., nella sua qualità di gruista).

Il Tribunale di Monza con motivazione del tutto logica (e, si ribadisce, non censurata in appello) ha ritenuto che, in presenza di situazioni di rischio – quali indubitabilmente erano quelli connessi all’uso di un macchinario altamente pericoloso, vetusto e fuori norma e, più in generale, quelli connessi all’attività tipica della GES.CO.MONT. s.r.l – la società avrebbe dovuto agire tempestivamente a tutela di valori fondamentali, quali la vita e l’incolumità personale, adottando tutte le misure adeguate alla prevenzione di eventi lesivi, non essendo ammissibile il sacrificio di quei beni a causa di inefficienze organizzative e gestionali.

5.2.2. Quanto poi al profilo dell’ imputazione soggettiva, occorre ribadire che entrambi gli imputati persone fisiche rivestivano al momento del fatto all’interno della società ruoli apicali, rientranti tra quelli previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, comma 1, lett. a).

Nel caso di specie, dunque, a norma dell’art. 6, l’ente, per andare esente da responsabilità, avrebbe dovuto provare che: a) erano stati adottati ed efficacemente attuati, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento era stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo; c) non vi era stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b.

In altri termini, la responsabilità dell’ente per i reati di omicidio colposo o lesioni colpose commesse da suoi organi apicali con violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro potrà essere esclusa soltanto dimostrando l’adozione ed efficace attuazione di modelli organizzativi (per i quali soccorre il disposto del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 30) e l’attribuzione ad un organismo autonomo del potere di vigilanza sul funzionamento, l’aggiornamento e l’osservanza dei modelli adottati.

Sul punto il Tribunale di Monza con motivazione del tutto logica (e, si ribadisce, non censurata in appello) ha rilevato che, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, la società incolpata non aveva dimostrato l’adozione di alcun modello di organizzazione e gestione, finalizzato alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, essendosi limitata a produrre le quietanze comprovanti l’avvenuto risarcimento del danno ai prossimi congiunti del defunto. In ragione di ciò, l’ente non aveva provato la sussistenza delle circostanze che avrebbero potuto escluderne la responsabilità ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 6.

5.3. In definitiva, nel caso di specie – poichè la violazione delle norme antinfortunistiche non era stata connotata da occasionalità, nè dovuta a caso fortuito, ma era risultata essere frutto di una specifica politica aziendale, volta alla massimizzazione del profitto con un contenimento dei costi in materia di sicurezza, a scapito della tutela della vita e della salute dei lavoratori – sono stati ritenuti ricorrenti tutti i criteri di imputazione oggettiva e soggettiva per affermare la responsabilità della GES.CO.MONT. s.r.l.ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001.

Per le ragioni che precedono, i ricorsi vanno rigettati ed i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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