SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
Sezione II
Sentenza 19 gennaio 2016, n. 1923
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 06/06/2014, la Corte di Appello di Torino confermava la sentenza con la quale, in data 03/10/2011, il giudice monocratico dei Tribunale di Cuneo aveva ritenuto P.D. colpevole dei reato di cui all’art. 643 cod. pen. a danno di M.G.B..
2. Contro la suddetta sentenza, l’imputata, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo la violazione dell’art. 643 cod. pen. sotto il profilo di seguito indicato.
La difesa, innanzitutto, sostiene che entrambi i giudici di merito non avrebbero inquadrato la vicenda nella sua giusta e concreta dimensione: il M. e la P. erano stati amanti per più di quarant’anni, nel corso dei quali, il facoltoso M., con la consapevole accondiscendenza delle stesse figlie che stimavano la P., aveva regalato alla sua amante notevoli somme di denari e costosi oggetti, consentendole, quindi, di mantenere un alto tenore di vita.
Le modalità di questa relazione erano, poi, proseguite anche quando il M. era invecchiato, sicchè non vi era motivo di ritenere che fosse stato circuito: i giudici di merito, non avevano tenuto in alcun conto la circostanza fondamentale «rappresentata dalla mancata accettazione da parte della P. di sposare il M., così rifiutando la soluzione più semplice e adottata dagli “amanti” dopo la morte del coniuge amato».
In altri termini, sostiene la difesa, non vi sarebbe alcuna prova dell’induzione perché il M. continuò «ostinatamente a fare ciò che aveva sempre fatto».
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
4. I punti di fatto – dei tutto pacifici perché non messi in discussione neppure dalla difesa nel presente ricorso – dai quali occorre partire per la disamina del presente ricorso sono i seguenti:
a) il M. e la P. furono amanti per circa quarant’anni; la suddetta relazione non era osteggiata dalle figlie dei M. che, anzi ammiravano la P.; il facoltoso M. non lesinava alla P. né denaro né regali che le consentivano di tenere un alto tenore di vita;
b) dal 2004, incominciò per il M., un lento, costante ed inarrestabile decadimento fisico e psichico a causa di una sofferenza cerebrale: a partire dal 2005, il M. cominciò a prelevare un’anomala quantità di denaro tanto che il funzionario di banca, allarmato, ritenne di avvisare la famiglia che, in effetti, potette accertare «una vera e propria emorragia di denaro dal conto corrente» quantificata nella somma di circa € 250.000,00, somma di cui risultò beneficiaria la P. (pag. 11 sentenza impugnata);
c) «a partire dall’inizio dei 2007, si era verificata una compromissione globale, intesa come completa incapacità di intendere e di volere, ravvisabile a terzi, per quanto frequentatori abituali, per le modalità di stile di vita dello stesso che, in precedenza, avevano coperto i deficit cognitivi»: pag. 4 sentenza impugnata;
d) sottoposto all’amministrazione di sostegno, il M. – che era diventato totalmente succube della P. (pag. 12 sentenza) – in modo ossessivo, cercava di racimolare e mettere da parte più soldi possibili che metteva in una busta destinata alla P. che la ritirava quando lo andava a trovare (pag. 12-13).
5. Alla stregua dei suddetti fatti, la decisione della Corte Territoriale non si presta ad alcuna censura.
La difesa della ricorrente fa leva sostanzialmente su un unico argomento: il M., anche dopo la malattia, continuò a fare ciò che aveva fatto per tutta la vita e cioè continuò ad elargire denaro alla P., sicchè, non essendo ravvisabile alcuna induzione, di nulla sarebbe responsabile l’imputata.
In realtà, proprio in punto di fatto, come ha rilevato la Corte Territoriale «così non è, tenuto conto del fatto che, per un verso il M., a differenza di quanto accadeva negli anni passati, non era più libero di determinarsi nelle sue donazioni verso la P., a causa della sua deficienza psichica e, per altro verso, veniva indotto dall’imputata a proseguire in tali donazioni di denaro con una costante attività di suggestione, di pressione morale, volta a determinare la sua minorata volontà. Ma v’è di più, solo che si consideri che in un quinquennio (1998/2002) il M. ha versato alla P. l’anzidetta somma di € 260.000, con una media di circa € 50.000 per ciascuno degli anni sopra indicati; viceversa, come si è visto nell’anno 2005 – quando il M. già versava in una situazione di deficienza psichica per diffusa destrutturazione sul piano citoarchitettonico della cosiddetta “materia grigia”, con compromissione della deambulazione sul piano ortopedico (deficit motori primari su base traumatica) e visivo (ipovedente grave) – la P. ha ricevuto dallo stesso una somma che, certamente, non è di molto inferiore ai complessivi prelievi effettuati tra il primo e secondo semestre di tale anno, pari a circa € 185.000,00» (pag. 14-15 sentenza).
Il suddetto accertamento di fatto, consente, quindi, di disattendere la tesi difensiva della mancanza di prova in ordine all’elemento dell’induzione, dovendo, sul punto, ribadirsi il consolidato principio di diritto secondo il quale l’induzione può essere desunta in via presuntiva potendo consistere anche in un qualsiasi comportamento o attività da parte dell’agente (come ad es. una semplice richiesta) alla quale la vittima, per le sue minorate condizioni, non sia capace di opporsi e la porti, quindi, a compiere, su indicazione dell’agente, atti che, privi di alcuna causale, in condizioni normali non avrebbe compiuto e che siano a sé pregiudizievoli e a lui favorevoli, atteso che l’attività di induzione dev’essere diversamente valutata e graduata a seconda dello stato psichico in cui versi la vittima (Cass. II, 18583/2009 Rv. 244546; Cass. 4816/2010 Rv. 246279.
E’ irrilevante che il M., quando era compus sui, elargiva alla P. regali che le consentivano di tenere un alto tenore di vita.
Infatti, una volta che un soggetto sia dichiarato affetto da uno stato di deficienza psichica, la legge fa scattare intorno a lui una sorta di “cordone sanitario” proprio al fine di impedire che altri (chiunque esso sia) se ne possa approfittare.
Diventa, quindi, dei tutto irrilevante ragionare sulla base dei comportamento tenuto dal circuìto quando era compus sui, proprio perché, stante la sua condizione patologica, diventa impossibile stabilire se – ove fosse stato compus sui – avrebbe tenuto o continuato a tenere, quel determinato comportamento: di conseguenza, quegli stessi atti che prima dello stato di incapacità erano normali ed incensurabili (nella specie: atti di donazione di notevole valore), diventano anomali e punibili penalmente, se compiuti in uno stato d’incapacità.
Ovviamente, il suddetto meccanismo legislativo non è assoluto in quanto la legge ha richiesto la prova dell’abuso, da parte dell’agente, dello stato di infermità o deficienza psichica e dell’induzione al compimento di atti dannosi.
Prova che, nel caso di specie, l’accusa ha ampiamente fornito e a fronte della quale la ricorrente si è limitata ad allegare un irrilevante comportamento pregresso del circuito peraltro smentito, in punto di fatto (pag. 14-15 supra cit.), da entrambi i giudici di merito.
Deve, sul punto, quindi, essere enunciato il seguente principio di diritto: «In tema di circonvenzione di persone incapaci – una volta che la pubblica accusa, abbia provato l’abuso, da parte dell’agente, dello stato di infermità o deficienza psichica e l’induzione al compimento di atti dannosi – diventa del tutto irrilevante il comportamento tenuto dal circuìto quando era compus sui, proprio perché, stante la sua condizione patologica, diventa impossibile stabilire se – ove fosse stato compus sui – avrebbe tenuto o continuato a tenere, quel determinato comportamento: di conseguenza, quegli stessi atti che prima dello stato di incapacità erano norm ali ed incensurabili (nella specie: atti di donazione di notevole valore), diventano anomali e punibili penalmente, se compiuti in uno stato d’incapacità».
6. Alla declaratoria d’inammissibilità consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in € 1.000,00.
P.Q.M.
DICHIARA
inammissibile il ricorso e
CONDANNA
la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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