Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 17 settembre 2015, n. 37678
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Antonio – Presidente
Dott. RAGO Geppino – Consigliere
Dott. VERGA Giovanna – Consigliere
Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere
Dott. RECCHIONE Sandra – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 83/2014 TRIB. LIBERTA’ di RAGUSA, del 13/01/2015;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. SANDRA RECCHIONE;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. Sante Spinaci che conclude per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore Avv. (OMISSIS) che conclude per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il tribunale di Ragusa respingeva l’appello proposto dalla difesa di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) diretto ad ottenere il dissequestro di conti correnti, libretti di deposito, titoli e quote di fondi comuni per un ammontare di circa 927.000 euro vincolati con decreto di sequestro preventivo in relazione ai reati di associazione a delinquere finalizzata alla consumazione di truffe ed appropriazioni indebite ed al reato di riciclaggio. Il Giudice per l’udienza preliminare nell’ordinanza di reiezione appellata riteneva corretto l’inquadramento della condotta contestata al (OMISSIS) nella fattispecie descritta dall’articolo 648 ter cod. pen..
2. Avverso tale ordinanza ricorreva per cassazione il difensore degli indagati che presentava i seguenti motivi di ricorso:
2.1. violazione dell’articolo 63 cod. proc. pen. Si deduceva la inutilizzabilita’ delle dichiarazioni del (OMISSIS) che sarebbero state raccolte senza le garanzie previste dall’articolo 63 cod. proc. pen., malgrado gli indizi di reita’ a carico dell’indagato fossero emersi nove mesi prima della sua audizione (in occasione della assunzione delle dichiarazioni del coimputato (OMISSIS)). Il ricorrente evidenziava che le dichiarazioni rese dal (OMISSIS) il 23 gennaio, erano l’unica fonte di prova idonea a fondare l’accusa di avere consumato il reato di cui all’articolo 648 cod. pen..
2.2. Violazione dell’articolo 648 ter cod. proc. pen. Si contestava la legittimita’ della qualifica giuridica assegnata alla condotta imputata al (OMISSIS). Il delitto previsto dall’articolo 648 ter cod. pen., nella prospettiva difensiva, doveva considerasi una specie del genus “riciclaggio”: il che rendeva essenziale che la condotta fosse orientata ad ostacolare la provenienza delittuosa dei beni reimpiegati. Secondo il ricorrente il sistema dei delitti disciplinati dagli articoli 648, 648 bis e 648 ter cod. pen. sanzionerebbe le fasi di una progressione criminosa fondata su un rapporto di specialita’: gli articoli 648 bis e 648 ter cod. pen. si differenzierebbero per il fatto che la condotta di ostacolo all’identificazione della provenienza illecita dei beni, nell’ipotesi di cui all’articolo 648 ter cod. pen. si perfezionerebbe “direttamente” mediante il reimpiego dei capitali di origine illecita, laddove la copertura penale dell’ 648 bis cod. pen. non si estenderebbe alla condotta di reimpiego dei capitali provenienti da un precedente riciclaggio di “beni” rispetto al quale la gestione dei capitali si configurerebbe come post fatto non punibile (come indicato dalla clausola di riserva prevista nell’articolo 648 ter cod. pen.). La necessita’ che la condotta punita dall’articolo 648 ter cod. pen. debba essere idonea ad ostacolare la identificazione della provenienza illecita dei beni riempiegati troverebbe ulteriore conferma nella nuova norma sull’auto riciclaggio, che a sua volta richiede una concreta azione dissimulatoria. In concreto il ricorrente evidenziava che gli elementi emersi, ed in particolare la tracciabilita’ delle operazioni di asserito reimpiego, erano incompatibili con contestazione proposta in quanto la condotta contestata, evidentemente non era idonea ad ostacolare la provenienza dei beni. 2.3. Violazione dell’articolo 322 cod. proc. pen. in relazione alla omessa risposta ai motivi di appello proposti nell’interesse di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS). Secondo il ricorrente il tribunale aveva omesso di prendere in considerazione il motivo di appello con il quale si evidenziava che gli indagati erano vittime del promotore infedele (OMISSIS), ritenendo illegittimamente che si trattava di questione di merito non valutabile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ infondato.
2. Il primo motivo di ricorso che deduce l’inutilizzabilita’ delle dichiarazioni del (OMISSIS) perche’ raccolte in assenza di garanzie difensive, pur evidenziando un vizio del processo e’ inammissibile in quanto l’impianto motivazionale proposto resiste alla elisione dell’elemento di prova inutilizzabile.
Sul punto il collegio condivide la giurisprudenza secondo cui allorche’ con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilita’ di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilita’, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l’espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Cass. sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Rv. 259452; Cass. sez. 6, n. 10094 del 22/02/2005, Rv. 231832).
Nel caso di specie il tribunale evidenziava la non essenzialita’ delle dichiarazioni censurate rispetto alla individuazione dei presupposti per il sequestro. Rilevando come “l’avvenuto reimpiego delle somme provenienti dai delitti presupposti in attivita’ economiche o finanziarie deriva, oltre che dalle dichiarazioni del (OMISSIS), dalle analisi effettuate sui conti correnti bancari a questi ed ai suoi accoliti riconducibili… elemento che consente in questa fase di prescindere dalle dichiarazioni rese dal (OMISSIS) e dagli altri soggetti indagati” (pag. 4 dell’ordinanza impugnata).
2. Anche il secondo motivo e’ infondato.
In ordine alla necessita’ della finalita’ dissimulatoria del reimpiego si registra un contrasto di giurisprudenza.
Da un lato si assume che per la configurabilita’ del reato di cui all’articolo 648 ter cod. pen., non e’ necessario che la condotta di reimpiego sia idonea ad ostacolare l’individuazione o l’accertamento della provenienza illecita dei beni. Secondo tale interpretazione “occorre innanzi tutto osservare che, attraverso la norma incriminatrice di cui all’articolo 648 ter c.p. il Legislatore ha inteso tutelare la genuinita’ del libero mercato da qualunque forma di inquinamento proveniente dall’immissione di somme di provenienza illecita nei normali circuiti economici e finanziari; come osservato da autorevole dottrina, “si vuole in tal modo impedire che l’ordine economico possa subire gravi turbamenti, anche sotto forma di violazione del principio della libera concorrenza, posto che la disponibilita’ di ingenti risorse a costi inferiori a quelli dei capitali leciti consente alle imprese criminali di raggiungere piu’ facilmente posizioni monopolistiche”. Ne’ assume rilevanza per escludere la configurabilita’ del reato, l’eventuale illiceita’ dell’attivita’ economica o finanziaria nella quale siano impiegate somme di denaro di provenienza illecita, poiche’ in tal caso l’offesa arrecata dalla condotta al bene tutelato e’ anche maggiore” (Cass. sez, 2, n. 9026 del 05/11/2013, dep 2014, Rv. 258525). Secondo altro orientamento le fattispecie criminose di riciclaggio e reimpiego, pur a forma libera, richiedono che le condotte siano caratterizzate da un tipico effetto dissimulatorio, avendo l’obbiettivo di ostacolare l’accertamento o l’astratta individuabilita’ dell’origine delittuosa del denaro (Cass. sez. 2, n. 39756 del 05/10/2011 Rv. 251194; Cass. sez. 1, n. 1470 del 11/12/2007, dep. 11/01/2008, Rv. 238840, Cass. Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013 dep. 2014, Rv. 259477).
Chiarificatore e’ l’intervento delle sezioni unite secondo cui “con la Legge 19 marzo 1990, n. 55, articolo 24, era poi stato introdotto nel codice penale l’articolo 648-ter (“Impiego di denaro, beni o altre utilita’ di provenienza illecita”), che configurava come illecito penale l’impiego in attivita’ economiche o finanziarie di quegli stessi proventi illeciti (denaro, beni e altre utilita’) richiamati nella descrizione dell’oggetto materiale del delitto di riciclaggio. La ratio della disposizione era quella di non lasciare vuoti di tutela a valle dei delitti di riciclaggio e ricettazione e di sanzionare anche la fase terminale delle operazioni di recyding (il c.d. integration stage), ossia l’integrazione del denaro di provenienza illecita nei circuiti economici attraverso l’immissione nelle strutture dell’economia legale dei capitali previamente ripuliti. L’obiettivo evidente, sotteso all’introduzione della nuova fattispecie, era, quindi, quello di tutelare la fase successiva rispetto a quella relativa all’area d’intervento prevista dalla ricettazione e dal riciclaggio. La disposizione in esame era, infatti, tesa ad evitare il successivo impiego del denaro ripulito in legittimi investimenti. In sostanza si preoccupava di colpire tutte quelle operazioni insidiose in cui il denaro di provenienza illecita, immesso nel circuito lecito degli scambi commerciali, tende a far perdere le proprie tracce, camuffandosi nel tessuto economico-imprenditoriale. Il legislatore, nell’introdurre la nuova fattispecie, l’ha dunque disegnata in forma residuale rispetto ai delitti di ricettazione e di riciclaggio, come si desume dalla doppia clausola nell’incipit della disposizione (“Fuori dei casi di concorso nel reato e dei “casi previsti dagli articoli 648 e 648-bis”) che circoscrive in maniera significativa il suo ambito di applicazione. Con tale norma, secondo una parte della dottrina, il legislatore ha inteso rendere possibile la responsabilita’ per la condotta anche quando non e’ dato provare che l’agente che impiega il bene proveniente da delitto sia consapevole di tale provenienza al momento in cui l’ha ricevuto, mentre vi sia la prova di tale consapevolezza (comunque necessaria) in un altro e successivo momento. Altri Autori hanno osservato che la previsione realizza, nel sistema di tutela dell’ordinamento dalla creazione di patrimoni illeciti, una particolare forma di progressione criminosa, composta secondo un’ideale scala crescente di disvalore. Tali rilievi, uniti all’analisi del testo della norma, nel quale e’ assente la locuzione “in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa” (presente, invece, nell’articolo 648-bis cod. pen.) e l’abbandono di una prospettiva “accessoria” rispetto ai reati presupposto, hanno fatto propendere per la natura plurioffensiva della fattispecie che, pur se collocata tra i delitti contro il patrimonio, appare maggiormente orientata alla tutela dalle aggressioni al mercato e all’ordine economico e ad evitare l’inquinamento delle operazioni economico-finanziarie (Cass. Sez. 2, n. 4800 del 11/11/2009, Aschieri, Rv. 246276)” (Cass. Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Rv. 259587).
La pronuncia della cassazione nella sua composizione piu’ autorevole indirizza in modo chiaro verso la scelta interpretativa che ritiene non necessaria la idoneita’ dissimulatoria della condotta di reimpiego, in quanto la fattispecie risulta principalmente (seppur non esclusivamente) diretta alla tutela dell’ordine economico.
Ferma la natura plurioffensiva del delitto di cui all’articolo 648 ter cod. pen., che in astratto si presta anche a sanzionare condotte di reimpiego con idoneita’ alla dissimulazione, si privilegia la scelta ermeneutica che affranca la sanzionabilita’ della condotta dalla necessita’ della prova della idoneita’ dissimulatoria della azione criminosa.
Si ritiene quindi che l’assenza di tale elemento non escluda l’inquadramento nella fattispecie prevista dall’articolo 648 ter cod. pen. della condotta di reimpiego essendo, a tal fine, sufficiente la idoneita’ dell’azione all’inquinamento del mercato attraverso la consapevole immissione nel circuito economico di beni di provenienza illecita, a prescindere dalla concreta idoneita’ dissimulatoria dell’operazione.
La ragione di tale scelta ermeneutica risiede nella individuazione del “principale” bene protetto dalla fattispecie di cui all’articolo 648 ter cod. pen. (che letteralmente non richiama la necessita’ della dissimulazione) nella tutela dell’ordine economico, che deve essere preservato da ogni attivita’ che inquina il fisiologico sviluppo delle fisiologiche dinamiche economiche. Puo’ dunque essere affermato il seguente principio di diritto: per configurare il reato previsto dall’articolo 648 ter cod. pen. non e’ necessario che la condotta di reimpiego abbia una concreta idoneita’ dissimulatoria, essendo la fattispecie orientata in via principale a tutelare il fisiologico sviluppo del mercato che deve essere preservata dall’inquinamento che deriva dalla immissione di capitali illeciti.
3. Anche il terzo motivo di ricorso che lamenta la carenza assoluta di motivazione in ordine alle doglianze proposte dalla difesa con l’atto di appello e’ infondato.
Il collegio condivide la giurisprudenza secondo cui in sede di riesame di misure cautelari reali, pur essendo precluso il sindacato sul merito dell’azione penale, il giudice deve verificare la sussistenza del presupposto del “fumus commissi delicti” attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato (Cass. sez. 6, n. 35786 del 21/06/2012, Rv. 254394). La valutazione che connota la cognizione giudiziale nel procedimento incidentale relativo al controllo di legittimita’ della cautela reale riguarda pertanto il fumus commissi delicti, seppure nella dimensione concreta (e controllabile) emergente dagli atti processuali, mentre la valutazione del merito della vicenda giudiziale resta affidata alla cognizione ordinaria che si sviluppa nel corso della progressione processuale.
Sul punto si condivide quindi la giurisprudenza secondo cui la verifica del cosiddetto “fumus” del reato non puo’ estendersi fino a far coincidere l’esame con un vero e proprio giudizio di colpevolezza, dovendo restar fuori dall’indagine il complesso degli elementi di valutazione che concorrono ai fini dell’accertamento della responsabilita’ dell’indagato, ed essendo sufficiente la semplice enunciazione, che non sia manifestamente arbitraria, di un’ipotesi di reato, in relazione alla quale si appalesi, almeno allo stato, la necessita’ di escludere la libera disponibilita’ della cosa pertinente a quel reato, stante il pericolo che siffatta libera disponibilita’ possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato (Cass., Sez. 6, n. 25056 del 26/04/2004-dep. 03/06/2004, Cottone ed altro, rv. 229274; cass. sez, Sez. 2, n. 2248 del 11/12/2013, dep 2014, Rv. 260047).
Tale approdo ermeneutico non deve essere letto in modo riduttivo come limitazione della cognizione incidentale sulla cautela alla sola verifica della astratta configurabilita’ del reato, ma, piuttosto, come una fisiologica perimetrazione della cognizione cautelare attraverso la sua limitazione alla verifica “in concreto” del fumus commissi delicti, con un vaglio che non sconfini in un vero e proprio giudizio di merito. Il sindacato del tribunale del riesame non puo’ pertanto essere limitato alla mera verifica della astratta possibilita’ di ricondurre il fatto contestato alla fattispecie di reato ipotizzata, ma deve essere esteso al controllo della concreta sussistenza del fumus del reato. Si e’ deciso sul punto che il tribunale del riesame, per espletare il ruolo di garanzia dei diritti costituzionali che la legge gli demanda, non puo’ avere riguardo solo alla astratta configurabilita’ del reato, ma deve prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilita e sulla sussistenza del fumus del reato contestato (cfr., ex plurimis, Sez. 1, 9 dicembre 2003, n. 1885/04, Cantoni, m. 227.498; Sez. 3, 16.3.2006 n. 17751; Sez. 2, 23 marzo 2006, Cappello, m. 234197; Sez. 3, 8.11.2006, Pulcini; Sez. 3, 9 gennaio 2007, Sgadari; Sez. 4, 29.1.2007, 10979, Veronese, m. 236193; Sez. 5, 15.7.2008, n. 37695, Cecchi, m. 241632; Sez. 1, 11.5.2007, n. 21736, Citarella, m. 236474; Sez. 4, 21.5.2008, n. 23944, Di Fulvio, m. 240521; Sez. 2, 2.10.2008, n. 2808/09, Bedino, m. 242650; Sez. 3, 12.1.2010, Turco; cass. Sez. 3, 24.2.2010, Norraando; Sez. 3, 11.3.2010, D’Orazio; Cass. sez. 3, n. 27715 del 20/05/2010, Rv. 248134, Barbano).
In coerenza con tali indicazioni ermeneutiche il tribunale ha verificato l’esistenza del fumus attraverso la disamina delle emergenze processuali che conducevano il collegio territoriale a rilevare come dalla analisi dei conti correnti degli istanti emergessero bonifici in entrata per importi rilevanti provenienti dai conti di talune persone offese alcuni dei quali riportanti causali non verosimili e relative a compravendite di immobili, ritenute indicative della consapevolezza da parte delle persone indagate che le somme versate per essere prive di causale non fossero di lecita provenienza.
Si tratta di un valutazione in concreto delle emergenze procedimentali che esplicitamente esclude la riconducibilita’ degli indagati al ruolo di “vittime” invocato dalla difesa, e che tiene conto delle doglianze difensive, ritenute superate dalle evidenze procedimentali.
4. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, le parti private che lo hanno proposto devono essere condannate al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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