Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 15 luglio 2015, n. 30465
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza 10.11.2014 la Corte d’Appello di Milano ha confermato la colpevolezza di R.G. in ordine al reato di diffusione continuata di materiale pedopornografico aggravato dall’ingente quantità di cui agli artt. 81 comma 2 e 600 ter commi 3 e 5v cp, motivando la sua decisione in considerazione dei meccanismi di funzionamento del programma Emule e del fatto che le immagini scaricate erano state lasciate nelle cartelle Emule/incoming destinate alla condivisione. Secondo la Corte d’Appello l’imputato era ben consapevole che il materiale scaricato entrava in condivisione con altri e per questo ha escluso la diversa ipotesi della detenzione. La Corte ha poi disatteso le ragioni addotte dall’imputato a giustificazione della sua condotta e, quanto al trattamento sanzionatorio, ha negato la prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante contestata.
2. Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato denunziando quattro motivi.
2.1. Col primo motivo, denunziando ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cpp violazione di legge sull’elemento materiale del reato di cui all’art. 600 ter comma 3 cp e il vizio di motivazione sull’individuazione dei criteri di diffusione e divulgazione nonché la carenza di motivazione sull’elemento materiale del reato, il ricorrente rileva che nel caso di specie al più vi sarebbero gli elementi della fattispecie di cui all’art. 600 quater, peraltro inizialmente contestata insieme a quella di cui oggi si discute (distribuzione e divulgazione) mancando del tutto la prova della destinazione del materiale alla divulgazione.
2.2. Con un secondo motivo denunzia ai sensi degli artt. 606 lett. b) ed e) cpp l’erronea valutazione dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 600 ter comma 3 cp. Dopo aver premesso una sintetica descrizione delle funzionalità del programma Emule, il ricorrente critica la Corte d’Appello laddove ha ravvisato la volontà di condivisione dalla presenza dei file scaricati nella cartella Emule/incoming, trattandosi di una cartella di default, deputata a collettore dei file scaricati dalla rete, e tale affermazione si giustifica ancor di più se si considera che l’imputato era un utente inesperto. Richiama la giurisprudenza di legittimità intervenuta sull’argomento e rileva, a riprova dell’assenza di volontà di divulgazione, l’esistenza sul suo computer, di un programma per l’eliminazione dei file, del tutto incompatibile con l’attività di divulgazione.
2.3 Col terzo motivo denunzia il vizio di motivazione sul riconoscimento dell’aggravante dell’ingente quantità del materiale rilevando che solo parte dei file sequestrati aveva contenuto pornografico.
2.4 Col quarto ed ultimo motivo, infine, lamenta violazione di legge (art. 63 cp) e vizio di motivazione dolendosi dell’omessa applicazione del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante dell’ingente quantità.
Considerato in diritto
La seconda censura è fondata.
Il tema dell’elemento soggettivo del reato di divulgazione o diffusione di materiale pedopornografico non è nuovo.
Come già evidenziato da una serie di pronunce di questa Corte, affinché sussista il dolo del reato di cui all’art. 603 ter comma 3 c.p., occorre provare che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing (cfr. tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 47820 del 29/10/2013 Ud. dep. 2/12/2013; Sez. 3, Sentenza n. 11082 del 12/01/2010 Ud. dep. 23/03/2010 Rv. 246596; Sez. 3, Sentenza n. 33157 del 11/12/2012 Ud. dep. 31/07/2013 Rv. 257257; Sez. 3, Sentenza n. 11082 del 12/01/2010 Ud. dep. 23/03/2010 Rv. 246596).
Infatti, l’art. 600 ter c.p., comma 3, punisce, tra l’altro, chiunque “con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza” il materiale pedopornografico. Si tratta, nei singoli casi concreti, di questione interpretativa abbastanza delicata, perché il sistema dovrebbe essere razionalmente ricostruito giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi del genere da parte della massa degli utenti e che, nello stesso tempo, soddisfino l’esigenza di contrastare efficacemente una assai grave e pericolosa attività illecita, quale la diffusione di materiale pornografico minorile, cercando però di evitare di coinvolgere soggetti che possono essere in piena buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale illecito soltanto perché stanno utilizzando questi (e non altri) programmi di condivisione, e cercando altresì di evitare che si determini di fatto la scomparsa di programmi del genere. Del resto, le due suddette esigenze ben possono essere entrambe soddisfatte perché, con indagini adeguate, è possibile accertare chi stia davvero agendo col dolo di diffondere e non solo con quello di acquisire e con la consapevolezza del vero contenuto dei file detenuti.
Una diversa interpretazione, secondo cui la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo Emule o simili, implicherebbe, di per se stessa e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente anche la volontà di diffonderlo (solo in considerazione delle modalità di funzionamento del programma e del fatto che questo permette l’upload anche senza alcun intervento di un soggetto che concretamente metta il file in condivisione), porterebbe a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi (cfr. Sez. 3, 12 gennaio 2010, n. 11082; Sez. 3, 7 novembre 2008, n. 11169).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto provata la sussistenza del reato di diffusione di materiale pedopornografico esclusivamente in considerazione del tipo di software utilizzato, ma un tale percorso argomentativo, che appare fondato esclusivamente sul dato quantitativo dei file scaricati e sull’utilizzo dello specifico programma di file sharing denominato Emule non appare corretto né esauriente, perché avrebbe dovuto essere completato dandosi conto dei necessari accertamenti tesi a verificare se la condotta e volontà dell’imputato fossero di semplice approvvigionamento o piuttosto quelle di diffondere o divulgare a terzi il materiale pedopornografico che in precedenza il soggetto, con autonomo comportamento, si era procurato o aveva creato (ad esempio, non limitandosi a lasciarli nella cartella iniziale di arrivo (“incoming”), ma selezionando i file scaricati e copiandoli in apposita cartella di condivisione personalizzata: cfr. Sez. F, Sentenza n. 46305 del 07/08/2014 Ud. dep. 10/11/2014 Rv. 261045).
La sentenza deve pertanto essere annullata per nuovo giudizio nel quale il giudice del rinvio, tenuto conto dei suddetti principi, completerà l’accertamento del fatto traendone le debite conclusioni.
Le esposte considerazioni assorbono logicamente l’esame delle altre censure.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano
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