cassazione 7

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I

SENTENZA 25 marzo 2015, n. 6025

Fatto e diritto

Rilevato che:

1. S.M. , nata a (omissis) da S.S. , ha proposto domanda di accertamento di paternità nei confronti degli eredi di F.F.P., nato il (omissis) e deceduto il (omissis).

2. Il Tribunale di Salerno, con sentenza del 7 gennaio 2010, ha respinto la domanda di S.M. .

3. Ha proposto appello la S. contestando la valutazione, compiuta dal Tribunale, delle prove acquisite nel giudizio di primo grado.

4. Si sono costituiti in appello F.P. , C. e L. , in qualità di eredi di F.F.P. , e hanno chiesto il rigetto dell’impugnazione.

5. La Corte di appello di Salerno, con sentenza n. 778/2012, ha accolto il gravame della S. . La Corte distrettuale nella sua motivazione ha messo in rilievo come, a fronte del rifiuto di tutti gli eredi legittimi di F.F.P. di sottoporsi alla disposta prova ematologica, l’istruttoria aveva consentito di acquisire una cospicua serie di elementi probatori a favore dell’accertamento della paternità. In particolare la Corte di appello ha ritenuto rilevante: a) la circostanza per cui, dopo un mese dalla nascita di S.M. , il (omissis) , F.F.P. sposò la madre S.S. ; b) la deposizione resa da S.S. , secondo cui la figlia M. è nata dalla relazione intrattenuta con F.F.P. con il quale conviveva già al momento della nascita della figlia; c) l’assenza di possibili riferimenti a elementi probatori idonei a smentire le affermazioni della S. ; d) la circostanza per cui nella corrispondenza epistolare fra S.M. e uno dei figli del F. , F.P. , quest’ultimo le si rivolgeva con l’appellativo di sorella.

6. Ricorre per cassazione F.L. deducendo: a) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 nn. 3-4-5 c.p.c.; b) violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c..

7. Si difende con controricorso S.M. ed eccepisce l’inammissibilità del ricorso oltre a contestarne la fondatezza.

8. La ricorrente deposita memoria difensiva.

Ritenuto che:

9. L’eccezione di inammissibilità del ricorso è fondata. Infatti le argomentazioni difensive della ricorrente non sono idonee a configurare alcuna violazione delle norme invocate (art. 2697 c.c. e 116 c.p.c.) ma solo a prospettare una diversa valutazione delle evidenze acquisite nel corso del processo. Esse consistono pertanto in una inammissibile richiesta di riedizione del giudizio di merito.

10. Quanto al primo motivo la ricorrente si limita a contestare, con argomentazioni che la Corte di appello ha ritenuto, riferendosi alla motivazione della sentenza di primo grado, fragili e illogiche, la rilevanza del fatto, che invece non può oggettivamente essere ritenuto privo di significato, per cui F.F.P. contrasse matrimonio con S.S. esattamente un mese dopo la nascita della figlia M. .

11. È inoltre priva di qualsiasi nesso con la deduzione di violazione di legge, su cui si basa il primo motivo di ricorso, anche la contestazione, meramente assertiva, della rilevanza della testimonianza, resa da S.S. . Nessun riferimento infine vi è alla constatazione della Corte di appello, anch’essa rilevante, per cui non è stato fornito alcun elemento per ritenere che la odierna controricorrente sia nata dalla relazione della madre con un altro uomo.

12. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ. sezione I, n. 12971 del 24 luglio 2012) nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la prova della fondatezza della domanda può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente, tenendo conto delle dichiarazioni della madre e della portata delle difese del convenuto. Le censure della ricorrente sono dunque chiaramente in contrasto con la citata giurisprudenza e come tali inammissibili.

13. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente contesta ancora la rilevanza della deposizione di S.S. , perché soggetto legittimato a partecipare al giudizio, pur riconoscendo che, a mente dell’art. 269 del codice civile, la prova della paternità può essere data con ogni mezzo. Va ricordato in particolare che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. sezione I, n. 12198 del 17 luglio 2012), nell’ipotesi di maggior età di colui che richiede l’accertamento di paternità non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre, ai sensi dell’art. 276, ultimo comma, cod. civ., non essendo in tale evenienza ravvisabile un obbligo legale di assistenza o mantenimento nei confronti del figlio. La madre potrà svolgere un intervento adesivo dipendente, allorché sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio. Ma, in ogni caso, alla stregua della disciplina normativa della legittimazione ad agire in tale giudizio, contenuta nell’art. 276 cod. civ., correlata all’interpretazione dell’art. 269, secondo e quarto comma, cod. civ., le dichiarazioni della madre vengono ad assumere un rilievo probatorio integrativo, ex art. 116 cod. proc. civ., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 cod. proc. civ. 14. Quanto alla valutazione di attendibilità della deposizione va anche rilevato che la Corte di appello ha messo in relazione le dichiarazioni della S. con la circostanza del suo matrimonio, contemporaneo alla nascita della figlia M. , con F.F.P. . La Corte di appello in particolare, sulla base di tale circostanza ha ritenuto logicamente presumibile una relazione affettiva fra S.S. e F.F.P. , preesistente alla nascita della odierna controricorrente. Ugualmente inconferente rispetto alle censure mosse dalla ricorrente è la contestazione della rilevanza e attendibilità della circostanza per cui nella corrispondenza fra S.M. e l’odierno ricorrente F.P. quest’ultimo si rivolgeva alla prima chiamandola “sorella”. Secondo i ricorrenti tale circostanza non dovrebbe assumere alcun rilievo istruttorio perché altrimenti riverserebbe i suoi effetti sulle altre parti del giudizio, estranee ai rapporti personali di F.P. e S.M. e ignare delle ragioni ispiratrici della corrispondenza. Si tratta all’evidenza di una deduzione priva di fondamento, specificamente con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., dato che la rilevanza di un elemento di prova riferibile al comportamento di una delle parti non può essere limitata, con riferimento alle altre parti se non quando se ne ravvisi una oggettiva ininfluenza ai fini della dimostrazione del fatto controverso.

15. Infine la ricorrente contesta come contraria all’art. 116 c.p.c. la valutazione della Corte di appello in merito al rifiuto ingiustificato a sottoporsi alle indagini ematologiche. Come è stato correttamente ricordato dalla Corte di appello, la costante giurisprudenza di legittimità afferma che il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 secondo comma c.p.c., di cosi elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda di accertamento della paternità (cfr. Cass. civ. I sezione n. 27237 del 14 novembre 2008, cfr. anche Cass. civ. n. 5116 del 3 aprile 2003). Secondo le citate pronunce è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 13, 15, 24, 30 e 32 Cost. – del combinato disposto degli artt. 269 cod. civ. e 116 e 118 cod. proc. civ., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del DNA. Dall’art. 269 cod. civ., infatti, non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa. Inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della legge 31 dicembre 1996, n. 675.

16. Peraltro la motivazione della Corte salernitana, come si è ampiamente riferito, affianca tale richiamo al rilievo per cui, nel corso del processo, è stata acquisita una cospicua serie di elementi probatori che conducono al convincimento circa la effettiva paternità di F.F.P. nei confronti di S.M. . Privi di qualsiasi contenuto logico, riferibile alla violazione dell’art. 116 c.p.c. e al richiamo nella rubrica del secondo motivo di ricorso dell’art. 360 c.p.c., appaiono infine le ulteriori argomentazioni secondo cui: a) nella specie, sarebbe stato necessario compiere una serie di indagini genetiche in combinazione tra loro, b) la CTU costituisce un mezzo istruttorio e mai una prova in assoluto; c) le scienze fisiche e naturalistiche hanno natura probabilistica e quindi comportano il rischio di errore; d) la valutazione del rifiuto non può che essere condotta alla luce di tutte le risultanze processuali. Si tratta di deduzioni inidonee a mettere in discussione la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra la madre e la persona di cui si assume la paternità (Cass. civ. n. 11223 del 21 maggio 2014, n. 12971 del 24 luglio 2012, n. 5116 del 3 aprile 2003). Per altro verso va richiamata la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. sezione 1, n. 14462 del 29 maggio 2008) secondo cui l’efficacia delle indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA non può essere esclusa per la ragione che esse sono suscettibili di utilizzazione solo per compiere valutazioni meramente probabilistiche, in quanto tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche hanno natura probabilistica, anche quelle solitamente espresse in termini di leggi scientifiche, e tutte le misurazioni, anche quelle condotte con gli strumenti più sofisticati, sono ineluttabilmente soggette ad errore, sia per ragioni intrinseche (cd. errore statistico), che per ragioni legate al soggetto che esegue o legge le misurazioni (ed errore sistematico), spettando al giudice di merito, nell’esercizio del suo potere discrezionale, la valutazione dell’opportunità di disporre indagini suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini.

17. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in 5.200 Euro di cui 200 per spese. Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo del contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

 

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