Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 21 gennaio 2015, n. 1025
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MACIOCE Luigi – Presidente
Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere
Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18988/2011 proposto da:
(OMISSIS) ((OMISSIS)) C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4262/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 19/07/2010, r.g.n. 833/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/10/2014 dal Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il Tribunale, dopo aver evidenziato che il (OMISSIS) si era ingiustificatamente assentato dal lavoro in via continuativa dal 26 aprile al 4 luglio 2006, data in cui la (OMISSIS) gli aveva contestato l’assenza ingiustificata, ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’articolo 68 del regolamento del personale, approvato il 9 settembre 1992, a norma del quale e’ considerato dimissionario il dipendente che, senza dare la prevista comunicazione, si assenti senza giustificato motivo dal lavoro per un periodo superiore a 10 giorni lavorativi consecutivi.
Ha ritenuto che correttamente la societa’ aveva ravvisato nel comportamento del dipendente una implicita volonta’ di rassegnare le dimissioni ed ha aggiunto che nessun rilievo poteva essere attribuito al preteso stato confusionale del (OMISSIS). Ha rilevato, infine, che la (OMISSIS) aveva tenuto nei confronti del lavoratore un atteggiamento piu’ che benevolo, avendo tollerato un’assenza ingiustificata di ben 143 giorni, concedendogli la fruizione del piu’ favorevole trattamento di a spettati va al 50%, pur in assenza di qualsivoglia notizia da parte del (OMISSIS).
2. Avverso detta decisione ha proposto tempestivo appello il (OMISSIS) soccombente, rilevando che con la lettera del 4 luglio 2006 la societa’, nel richiedergli la trasmissione di certificati medici a giustificazione del suo stato di malattia, aveva riconosciuto l’avvenuta comunicazione dell’impedimento, effettuata telefonicamente dall’interessato. Ed infatti la societa’ nel periodo 26 aprile – 31 agosto 2006 aveva ritenuto la sussistenza della malattia, tanto che aveva corrisposto il relativo trattamento economico indicato in busta paga come “aspettativa per malattia 50%”. Non poteva, quindi, trovare applicazione l’articolo 68, comma 4, del regolamento (OMISSIS) perche’ esso si riferiva alla diversa fattispecie della assenza ingiustificata, accompagnata dalla omessa comunicazione di ragioni poste a fondamento della stessa. Ha sostenuto, quindi, che una volta esclusa la applicabilita’ dell’articolo 68 cit., nella comunicazione del 15 settembre 2006 doveva essere ravvisato un vero e proprio licenziamento, nella specie illegittimo perche’ intimato senza il rispetto delle garanzie difensive previste dalla Legge n. 300 del 1970, articolo 7. Ha quindi concluso per l’integrale accoglimento della domanda cosi’ come formulata nel primo grado di giudizio, chiedendo la reintegrazione, nel posto di lavoro in precedenza occupato ed il risarcimento dei danni Legge n. 300 del 1970, ex articolo 18.
Ha resistito all’appello la (OMISSIS) ed Editori che, nel costituirsi in giudizio, ha eccepito in via preliminare l’inammissibilita’ del gravame per difetto di specificita’. Nel merito ha fatto propria la motivazione della sentenza, impugnata, sostenendo la legittimita’ del provvedimento adottato, in quanto assunto nel rispetto delle previsioni del Regolamento del personale.
La Corte d’appello di Roma con sentenza del 7 maggio 2010-19 luglio 2010, in riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato l’illegittimita’ del licenziamento comunicato dalla (OMISSIS) – a (OMISSIS) con missiva del 15 settembre 2006 e ha ordinato per l’effetto alla societa’ appellata di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato. Ha condannato la (OMISSIS) a corrispondere a (OMISSIS), a titolo di risarcimento del danno, le retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del licenziamento sino alla effettiva reintegrazione, da quantificarsi in relazione all’importo mensile di euro 1.831,55, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali da calcolarsi a far tempo dalla data di maturazione dei singoli ratei sino al soddisfo. Ha condannato la (OMISSIS) al versamento dei contributi previdenziali a far tempo dalla data del recesso. Ha infine condannato la societa’ appellata a rifondere a (OMISSIS) le spese di entrambi i gradi di giudizio.
3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la societa’ con un unico motivo.
Resiste con controricorso la parte intimata, che ha anche depositato memoria.
2. Il ricorso e’ infondato.
In diritto va ribadito il principio gia’ affermato da questa Corte (Cass., sez. lav., 2 luglio 2013, n. 16507) secondo cui alle parti non e’ consentito di attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volonta’ di dimettersi, senza possibilita’ di prova contraria. Si e’ osservato che in tale ipotesi, invero, non si tratterebbe piu’ di dimissioni manifestate per facta concludentia – le quali presuppongono una volonta’ effettiva di dimettersi e la manifestazione di essa seppure in forma diversa dalla dichiarazione esplicita – ma della attribuzione convenzionale di un effetto giuridico tipizzato – la cessazione del rapporto – ad un determinato comportamento. Tanto le parti collettive non possono stabilire, atteso che il rapporto di lavoro puo’ estinguersi esclusivamente per le cause a tal fine previste dalla legge e non e’ permesso alle parti introdurre altre cause di estinzione del rapporto, stante il carattere inderogabile della disciplina legislativa limitativa dei licenziamenti.
Si ha quindi che il recesso dal rapporto di lavoro subordinato puo’ attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, mentre non e’ possibile che le parti contraenti, collettive o individuali, introducano un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell’intenzione di recedere, che sia, pero’, svincolato dalla effettiva volonta’ del soggetto e che non ammetta la possibilita’ di prova contraria, giacche’ in tal caso la previsione negoziale si risolverebbe in una clausola risolutiva espressa del rapporto, inammissibile nell’attuale assetto della disciplina legale della risoluzione del rapporto di lavoro.
Si e’ anche precisato (Cass., sez. lav., 20 maggio 2000, n. 6604) che non puo’ escludersi che un comportamento tenuto dal lavoratore sia tale da esprimere la sua volonta’ di recedere dal rapporto di lavoro, ma cio’ implica un’indagine del giudice diretta ad accertare in concreto la volonta’ di recedere dal rapporto, restando incensurabile in sede di legittimita’ l’accertamento del giudice di merito congruamente motivato.
Parimenti si e’ affermato (Cass., sez. lav., 9 settembre 2011, n. 18523) che il lavoratore che agisce in giudizio per conseguire i rimedi contro il licenziamento illegittimo ha l’onere di provare l’esistenza del licenziamento, spettando al datore di lavoro provare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. Ove, peraltro, l’attuazione del rapporto di lavoro sia cessata in assenza di atti formali di licenziamento o di dimissioni e in presenza di contrapposte tesi circa la causale di detta cessazione, il giudice di merito deve, ai fini dell’accertamento del fatto, prestare particolare attenzione (indagandone la rilevanza sostanziale e probatoria nel caso concreto) anche agli eventuali episodi consistenti nell’offerta delle prestazioni da parte del lavoratore e nel rifiuto o mancata accettazione delle stesse da parte del datore di lavoro.
3. Nella specie la Corte d’appello – dopo aver richiamato la normativa interna posta dal Regolamento del personale (delibera del Consiglio di Amministrazione del 9 settembre 1992) che prevedeva all’articolo 68 che le dimissioni dovevano essere presentate per iscritto dal dipendente (comma 1), ma che era considerato dimissionario il dipendente che, senza dare la prevista comunicazione, si assentasse senza giustificato motivo dal lavoro per un periodo superiore a dieci giorni lavorativi consecutivi ovvero non riprendesse servizio entro il termine prefissatogli mediante apposita diffida (comma 4) – ha considerato che con missiva del 4 luglio 2006 la (OMISSIS) invitava il (OMISSIS) a trasmettere documentazione medica attestante il preteso stato di malattia, dando atto che, a suo tempo, la malattia medesima era stata comunicata telefonicamente dall’interessato.
Con la successiva lettera del 15 settembre 2006 la societa’ comunicava che la mancata trasmissione della documentazione sollecitata rendeva applicabile alla fattispecie l’articolo 68 del regolamento del personale, per cui il (OMISSIS) doveva ritenersi dimissionario, essendo rimasto ingiustificatamente assente per piu’ di dieci giorni.
Quindi dallo stesso contenuto della missiva del 4 luglio 2006 risultava che, in realta’, il (OMISSIS) aveva comunicato alla societa’ di trovarsi in malattia, sia pure solo telefonicamente e senza documentare l’impedimento, tanto che la (OMISSIS) aveva anche provveduto ad erogare il relativo trattamento economico, come emergeva inequivocabilmente dalle buste paga per mesi di aprile, maggio, giugno, luglio e agosto 2006.
Inoltre la lettera del 15 settembre 2006 non conteneva alcuna espressa diffida a riprendere servizio, ne’ faceva riferimento ad una presunta volonta’ del lavoratore di recedere dal rapporto.
Si versava quindi – ha motivatamente ritenuto la Corte d’appello – in una situazione di assenza ingiustificata che e’ concettualmente diversa dalla volonta’ del lavoratore di dimettersi e che in concreto non era affatto significativa di una volonta’ di quest’ultimo di porre fine al rapporto. Doveva infatti escludersi una siffatta volonta’ in ragione delle comprovate circostanze che il (OMISSIS), prima di assentarsi, avesse comunicato le ragioni dell’assenza ossia la malattia, sia pure senza documentarla, e che la societa’ avesse erogato il trattamento di malattia per tutta la durata dell’assenza; circostanze che rendevano inapplicabile la previsione regolamentare.
Si versava in una fattispecie di prolungata assenza asseritamente causata da malattia, la quale, in mancanza di idonea documentazione, doveva considerarsi ingiustificata ed avrebbe potuto esser posta a fondamento di un licenziamento disciplinare nel rispetto pero’ delle garanzie procedimentali di legge; cio’ che non e’ avvenuto avendo la societa’ ritenuto – erroneamente – che si versasse in ipotesi di dimissioni del lavoratore per fatti concludenti.
Correttamente la Corte d’appello ha considerato conclusivamente che la circostanza che il datore di lavoro fosse stato reso edotto dello stato di malattia escludeva che la fattispecie potesse essere ricondotta a quelle delle dimissioni espresse per fatti concludenti.
Si e’ trattato pertanto di un licenziamento per colpa, quindi disciplinare, che nella specie era illegittimo per ragioni di forma, ossia perche’ intimato – circostanza pacifica in causa – senza l’osservanza delle garanzie prescritte dalla Legge n. 300 del 1970, articolo 7.
4. Il ricorso va quindi rigettato.
Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.
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