Un vizio del permesso di costruire

Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 28 agosto 2020, n. 5288.

La massima estrapolata:

Non è consentito sanare, né legittimare per il tramite di una semplice variante, un vizio del permesso di costruire, stante che nell’uno come nell’altro caso l’avallo postumo ha ad oggetto l’illecito, non il titolo edilizio; per intervenire sul provvedimento, infatti, occorre che l’Amministrazione agisca in autotutela che, ove si concretizzi in una convalida, avente efficacia ex tunc proprio in ragione delle sottese esigenze di economia dei mezzi dell’azione amministrativa e di conservazione, renderebbe legittimo l’intervento ab origine, senza necessità di alcuna sanatoria.

Sentenza 28 agosto 2020, n. 5288

Data udienza 28 luglio 2020

Tag – parola chiave: Atto amministrativo – Atto plurimo – Ammissibilità – Limiti – Edilizia – Sanatoria – Sanatoria ordinaria – Disciplina applicabile – Individuazione – Sanatoria del titolo edilizio illegittimo – Esclusione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6069 del 2010, proposto dalla Società -OMISSIS-., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Lu. Ro. e Pa. Ro., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ma. Pi. Do. in Roma, via (…),
contro
la signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati Ac. Ca. Fa. e Pi. Re., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (…),
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato To. Ce., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fi. La. in Roma, via (…), nonché, a seguito di rinuncia al mandato da parte dello stesso, dall’avvocato An. So., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fe. Di. in Roma, via (…),
la Regione Abruzzo, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…),
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente permesso di costruire in sanatoria e variante in corso d’opera.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della signora -OMISSIS-, del Comune di (omissis) e della Regione Abruzzo;
Vista l’ordinanza n. -OMISSIS-della sez. IV di questo Consiglio di Stato;
Vista la richiesta di rimessione in termini versata in atti dal Comune di (omissis) in data 9 maggio 2020, mai revocata;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 28 luglio 2020 tenutasi con le modalità di cui alla normativa emergenziale di cui all’art. 84, commi 5 e 6, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, come modificato dall’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 25 giugno 2020, n. 70, il Cons. Antonella Manzione e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, i difensori delle parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con l’appello in esame la Società -OMISSIS-. (d’ora in avanti, per comodità, solo la Società ), proprietaria di un terreno alla contrada “-OMISSIS-” nel Comune di (omissis) sul quale ha edificato un complesso immobiliare giusta permesso di costruire n. -OMISSIS-, ha impugnato la sentenza del T.A.R. per l’Abruzzo, n. 572 del 16 dicembre 2009, con la quale è stato accolto il ricorso presentato dalla controinteressata, signora -OMISSIS-, per l’annullamento del provvedimento del 2 maggio 2006, concernente contestuale sanatoria e variante in corso d’opera relativi ad interventi sullo stesso.
2. La sentenza appellata ha evidenziato da un lato la insanabilità delle opere, realizzate su sedime non di proprietà, tanto che la sanatoria aveva un’efficacia espressamente condizionata alla demolizione di parte di esse; dall’altro, l’impossibilità di agire in variante rispetto ad una progettualità non assentita, in quanto difforme da quella di cui al permesso edilizio originario, che teneva conto di indici di edificabilità calcolati in base ad una superficie complessiva, poi riscontrata non corrispondente al vero (mq. 3.052, laddove quella effettiva era pari a mq. 2.669). Da qui, la configurazione di un’ipotesi di “variazione essenziale”, necessitante in quanto tale di autonomo permesso di costruire.
3. La decisione è contestata con una pluralità di articolati motivi. L’errore di fatto sotteso all’intera impostazione della stessa, in particolare, sarebbe da rinvenire nella allocazione dei singoli interventi effettuati sul complesso nella sua interezza alla sanatoria, piuttosto che alla variante, con ciò disconoscendone indebitamente la assentibilità . Quanto alla variante, poi, la sua natura “pura”, anziché “essenziale”, riveniente dalla sostanziale omogeneità dell’intervento rispetto alla progettualità originaria, renderebbe da una parte inammissibile il ricorso di primo grado, per mancata impugnativa a tempo debito del permesso di costruire del 2004; dall’altra, del tutto legittima la scelta di avallo perpetrata dal Comune procedente. Ciò sia alla luce della normativa nazionale (art. 32 del T.U. sull’edilizia) che regionale (art. 5 della l.r. 13 luglio 1989, n. 52). In conclusione, le variazioni al progetto originario, compresa la rettifica della superficie del lotto, le conseguenti riduzioni delle superfici edificabili e le modeste modifiche della sagoma dell’edificio, considerate sia singolarmente, sia nel risultato complessivo dell’organismo edilizio, dovevano qualificarsi varianti comuni, e, perciò, in parziale difformità al progetto ed al permesso originari, sia nel profilo oggettivo ed ontologico, sia nel profilo ed agli effetti giuridici. Quanto all’asserito debordamento del muro di recinzione rispetto al confine della proprietà, ferma restando la preventivata demolizione in variante, e non in sanatoria, si tratterebbe di una pertinenza, e non di una porzione dell’edificio, al pari delle scale esterne e degli ingressi pedonali e carrabili. D’altro canto, la strutturazione complessa del provvedimento risponderebbe ad esigenze di economia procedimentale, da ultimo consacrate negli artt. 21 octies e 21 nonies della l. n. 241/1990, che avrebbero imposto di salvare gli effetti dell’atto, anziché pregiudicare anche economicamente il costruttore, dando applicazione sostanziale, seppure in forma sintetica, alla funzione dell’istituto della sanatoria e della vigilanza sull’attività edilizia in genere, in relazione ad un organismo edilizio (il progetto ridotto) che, in sé, il Comune avrebbe potuto assentire ab origine. Non esisterebbe, infine, alcun vincolo di natura idrogeologica la cui tutela sia affidata alla Provincia, né violazioni del coefficiente di impermeabilizzazione, né, in genere, del Regolamento edilizio e delle disposizioni urbanistiche vigenti.
In data 27 aprile 2020 la Società versava altresì in atti la determina n. -OMISSIS-con la quale il responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di (omissis), preso atto dell’avvenuta reiezione della propria domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza, presentata in via incidentale (ordinanza n. -OMISSIS-della sez. IV di questo Consiglio di Stato, citata in epigrafe), demandava all’Agenzia del territorio la stima delle opere, al fine di quantificare la sanzione pecuniaria dovuta ai sensi dell’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001.
4. Si è costituita in giudizio l’originaria ricorrente in primo grado, per contestare la prospettazione di parte e riproporre i motivi di doglianza non valutati dal T.A.R. perché assorbiti negli altri, senza peraltro presentare allo scopo apposito appello incidentale. In particolare, nel ribadire la correttezza della sentenza impugnata, ha tuttavia evocato il contrasto dell’intervento conseguente alla demolizione del muro di contenimento con le N.T.A vigenti, avendo essa comportato una radicale modifica progettuale, avuto riguardo agli accessi ai garage, realizzati in dispregio delle regole sulla pendenza massima, nonché alle scalinate pedonali, incompatibili con la normativa sulla eliminazione delle barriere architettoniche. Di ciò sarebbe ampio riscontro documentale nella d.i.a. successivamente presentata dalla Società (19 giugno 2006) per “ottemperare” alle indicazioni previste nell’atto impugnato, nonché nella consulenza tecnica d’ufficio disposta nell’ambito di un procedimento penale scaturito con riferimento alla medesima fattispecie, proprio in relazione alle dichiarazioni apparentemente non veritiere contenute nelle istanze di parte. Risulterebbe infine confermata la mancanza del nulla osta idrogeologico, avendo l’Ispettorato Ripartimentale delle Foreste di Teramo, il cui provvedimento prot. n. -OMISSIS-era stato erroneamente equiparato, nel permesso rilasciato, alla prescritta autorizzazione idrogeologica, chiarito con nota del -OMISSIS-, trasmessa all’ufficio tecnico comunale, di non aver rilasciato alcun nulla osta, ma solo indicato “mere modalità di esecuzione dei lavori ai sensi dell’art. 20 comma 3 del r.d. 16 maggio 1926, n. 1126” e “nei soli riguardi tecnico forestali, fatto salvo ogni eventuale diritto di terzi ed autorizzazione di competenza”.
5. Si è costituito altresì il Comune di (omissis), con atto di stile. Con successiva memoria in controdeduzione, in difesa dell’operato dei propri uffici, ha sostanzialmente avallato la prospettazione della Società appellante. Ha pertanto riproposto anch’esso l’eccezione di inammissibilità del ricorso originario in quanto il permesso di costruire in variante e sanatoria del 2006 oggetto del processo non avrebbe dovuto essere considerato un provvedimento nuovo ed autonomo rispetto a quello del 2004. Quanto alle altre violazioni, ha ricordato come non si porrebbero più problemi di distanza dalla sede stradale, giusta l’avvenuta decadenza del relativo vincolo, sostanzialmente espropriativo, per decorrenza del termine; non sussisterebbe alcun vincolo idrogeologico, in quanto quello riveniente dal Piano territoriale paesaggistico (P.T.P.) della Provincia di Teramo costituirebbe indicazione per il Comune nella redazione del P.R.E., non disposizione di diretta applicazione per i singoli lotti, come chiarito dal dirigente del V Settore della Provincia di Teramo con propria nota n. -OMISSIS-; la percentuale di impermeabilizzazione del terreno sarebbe infine ampiamente rispettata.
Si è costituita infine la Regione Abruzzo, esclusivamente con atto di stile.
In vista dell’odierna udienza, differita su istanza del Comune medesimo, come da verbalizzazione alla precedente del 9 giugno 2020, sono stati versati in atti ulteriori documenti, ovvero prodotte note, al precipuo scopo di evidenziare la delicatezza della vicenda, che vede le unità immobiliari di cui si compone il complesso di cui è causa ormai alienate a singoli proprietari.
La Società a sua volta ha versato in atti la sentenza del Tribunale di Teramo, sezione staccata di Giulianova, n. -OMISSIS-, con la quale sono stati assolti tutti i dichiaranti la situazione di fatto sottesa alla richiesta di sanatoria e variante perché il fatto non costituisce reato ovvero per non averlo commesso. Da ultimo, ha ribadito la propria prospettazione nella memoria del 23 giugno 2020 e versato in atti note sostitutive di discussione in data 27 luglio 2020.
6. Alla pubblica udienza del 28 luglio 2020, la causa è stata trattenuta in decisione con le modalità di cui all’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18.

DIRITTO

7. Il Collegio ritiene l’appello infondato, e come tale da respingere.
8. Preliminarmente si rende necessaria una breve ricostruzione della fattispecie, che interseca plurime problematiche in fatto e in diritto in ragione della stratificazione delle istanze di parte per la realizzazione del medesimo complesso immobiliare e delle risposte, tutt’affatto chiare e coerenti tra di loro, del Comune di (omissis) (si pensi, a mero titolo di esempio, all’originaria reiezione delle istanze di “variante” o “sanatoria” -anche in tale circostanza non ne era chiaro il contenuto- presentate in data 30 agosto 2005 e 8 settembre 2005, di cui non è più traccia nell’atto impugnato, neanche allo scopo di evidenziare gli accorgimenti posti in essere dalla parte per superare le ravvisate criticità ). Occorre altresì precisare che gli articolati motivi di appello, se si eccettuano singole questioni di vincolo (idrogeologico) ovvero di rispetto di specifiche disposizioni urbanistiche (percentuale di impermeabilizzazione imposta, pendenza delle rampe di accesso, scalinate, peraltro non scrutinate espressamente dal primo giudice) possono essere esaminati congiuntamente, una volta individuata correttamente la cornice giuridica di riferimento. In sintesi, la ipertrofica e spesso non del tutto chiara ricostruzione di parte, riproduce l’altrettanto ambiguo contenuto delle istanze originarie, connotate dalla mancata distinzione dei singoli interventi, così da rimettere all’Amministrazione prima, al giudice poi, la loro corretta sistematizzazione. Manca, cioè, in atti, quella chiara linea di demarcazione non tanto e non solo tra ciò che è stato sanato e ciò di cui si è assentita la variazione; bensì, più a monte, tra ciò che si è chiesto di sanare e ciò che, invece, si voleva variare, che la Società pretenderebbe dal giudice. Al contrario, rileva la Sezione, l’onere di esplicitare il contenuto delle proprie istanze, sì da renderle intellegibili, a maggior ragione in ambito urbanistico-edilizio, governato da regole certe funzionali allo sviluppo armonico del territorio, non può che gravare sul richiedente. Le specificazioni progettuali, cui corrispondono distinte tipologie definitorie, si palesano necessarie, non essendo ammesso alcun pressapochismo descrittivo, siccome viceversa emergente da tutti gli atti di causa, nonché, da ultimo, dalla formulazione dell’appello, che in singoli passaggi diversifica ciascun intervento, salvo in altri perpetrare nuovamente la commistione tra gli stessi, enfatizzando la natura unitaria dell'”organismo” finale, quale manufatto comunque rispettoso della disciplina urbanistica del territorio. Come risulterà meglio chiarito nel prosieguo, l’apparente certezza della linea di demarcazione tra ciò che si voleva sanare e ciò che si voleva variare, riepilogata in una sorta di quadro sinottico a pag. 23 dell’appello, in chiave critica rispetto alla diversa ricostruzione effettuata dal giudice di primo grado, finisce per svanire nello sviluppo successivo del gravame, ove la necessità di dequotare la affermata “variazione essenziale” a variante semplice impinge necessariamente nella descrizione complessiva dell’intervento, riduttivo delle dimensioni originarie, conformativo alle effettive potenzialità edificatorie del terreno, adeguato al contesto riconfigurato con riferimento alla cornice territoriale e agli elementi architettonici qualificanti e dunque proprio per questo completamente diverso da quello assentito con il permesso di costruire originario.
La finalità correttiva che ha ispirato l’intera modifica, non potendo la riduzione della superficie edificabile e la necessità di arretrare il muro di recinzione/contenimento dalla sede stradale non implicare un riassetto complessivo dell’intervento emerge in particolare proprio con riferimento alle demolizione di quest’ultimo, non menzionata nella ridetta tabella riepilogativa, ma della quale si contesta comunque l’avvenuta riconduzione all’istanza di sanatoria da parte del primo giudice; salvo poi proporne un vero e proprio stralcio dall’intervento complessivo, in quanto riferita a mera pertinenza, inidonea ad incidere sul regime di sanabilità delle altre opere. Il tutto peraltro senza chiarire in che modo l’intervento sarebbe poi stato regolarizzato, al pari del resto degli altri adeguamenti effettuati sull’edificio (balconi, scale), per minimizzare l’inserimento nel contesto dei quali egualmente si tenta di segmentarne la portata, separandoli dall’opera complessiva. Né ridetta regolarizzazione può individuarsi nella d.i.a. successivamente presentata “in ottemperanza” alla variante/sanatoria, pur avendo la stessa ad oggetto la “ricostruzione del muro di contenimento sul lato nord con la definizione dei nuovi accessi, le nuove rampe di scale e le recinzioni”, non essendo ipotizzabile che un titolo edilizio, quale che ne sia la natura, necessiti, per avere piena efficacia, di un ulteriore titolo edilizio, salvo quest’ultimo si riferisca a diversi interventi estranei ed eterogenei rispetto al contenuto del primo.
Ad avviso del Collegio, l’intera ricostruzione dell’appellante appare dunque viziata dal tentativo di sfruttare l’unicità del contenitore, improvvidamente utilizzato dal Comune di (omissis) per assecondarne le richieste senza farsi carico di individuare i presupposti di ciascuno degli atti rilasciati, per duplicarne la funzione in maniera osmotica, sì da sanare o variare l’intervento, in singole parti e nella sua globalità, contestualmente e promiscuamente, in dispregio dei limiti concettuali e dogmatici rivenienti dall’esatto inquadramento di ciascuno dei due istituti invocati.
9. La Società appellante, dunque, ha realizzato un complesso immobiliare in località “Contrada -OMISSIS-” in forza del permesso di costruire n. -OMISSIS-. La superficie edificabile assentita veniva calcolata in mq. 1.523,40 sulla base di quella catastale dichiarata, pari a mq. 3.052. Il fabbricato era costituito da un piano interrato con destinazione autorimesse e fondaci, un piano terra destinato a residenze per complessivi mq. 707,20 e n. 9 appartamenti, un piano primo destinato a residenze per complessivi mq. 631,80 e n. 9 appartamenti, un piano secondo destinato a residenze per complessivi mq. 184,00 e n. 4 appartamenti, con copertura piana. La struttura architettonica era composta da tre corpi di fabbrica sfalsati in altezza l’uno rispetto all’altro a seguire l’andamento del terreno. In data 31 agosto 2005 e 8 settembre 2005 venivano presentate le due istanze già richiamate sub § 8, definite di varianti ancorché non ne risulti affatto chiara l’effettiva finalità, con le quali si ipotizzava una notevole riduzione dell’immobile, anche in termini di numero di appartamenti inclusi nello stesso, entrambe respinte dal Comune in data 9 dicembre 2005. Medio tempore, il Comune interveniva altresì in vigilanza con due distinte sospensioni dei lavori, rispettivamente in data 5 ottobre 2005, per rilevata assenza del nulla-osta per il vincolo idrogeologico; indi in data 22 novembre 2005, a seguito di rilievo celerimetrico effettuato dal proprio tecnico incaricato, che aveva accertato come le superfici del lotto di proprietà fossero inferiori rispetto a quanto riportato nelle superfici catastali (mq. 2.669,00), e che aveva altresì rilevato come il muro di contenimento e recinzione posto sul lato nord ricadesse per la parte più ad est per circa m.1,10 su zona destinata a strada.
Per completezza, va peraltro rilevato come nell’atto impugnato la superficie finale sia stata ulteriormente ridotta dalla Società “in via collaborativa”, portandola a mq. 2.612,00 per effetto della detrazione di mq. 57, relativi alla strada di piano, originariamente inclusi nel computo per ritenuta decadenza del relativo vincolo, giusta decorrenza dei termini di legge.
L’atto impugnato nell’odierno procedimento consegue ad un’ulteriore istanza di parte, in data 3 gennaio 2006, di sanatoria e variante, peraltro priva di elaborati progettuali “quotati” (idonei, cioè, a rendere calcolabile la superficie effettiva del lotto e la percentuale di superficie edificabile), siccome stigmatizzato dal consulente d’ufficio nel parallelo processo penale scaturito dalla vicenda. Il Comune tuttavia, senza richiedere alcun chiarimento integrativo, ha rilasciato l’atto “a contenuto plurimo” in contestazione, con il quale ha contestualmente accolto sia l’istanza di sanatoria, che quella di variante, senza tuttavia specificare quale parte del provvedimento (e conseguentemente, dell’intervento) riferire all’una e quale all’altra. La inevitabile confusione -rectius, ambiguità – conseguitane ben fa comprendere la difesa civica nel giudizio di primo grado, laddove sostanzialmente ammette la portata radicalmente innovativa delle opere effettuate, sì da fare insorgere la Società appellante a difesa della inammissibilità dell’integrazione postuma di un provvedimento, asseritamente chiaro nei suoi diversi postulati. Chiarezza evidentemente non così incontestabile, se la stessa Amministrazione procedente ha finito per fornire una così divergente lettura dello stesso.
Va infine ricordato come al momento della richiesta della sanatoria il piano secondo non era tamponato e quindi, secondo la ricostruzione di parte, non si configurava l’esistenza di superficie edificata (o volumetria) per lo stesso: ciò spiega, ritiene la Sezione, la successiva modifica di destinazione d’uso, cristallizzando la superficie in quella già edificata, pari a mq. 1.305,70, così da garantire il rispetto del limite di mq. 1.306,00, rivenienti dall’indice di zona pari a 0,5 mq./m, moltiplicato per l’estensione della superficie del lotto, a quel punto definitivamente individuata in mq. 2.612.
10. Afferma dunque la Società che la distorta ricostruzione effettuata dal giudice di prime cure risentirebbe della contestata natura di atto a contenuto plurimo del provvedimento del 3 maggio 2006. In particolare, erroneamente sarebbe stata ascritta alla richiesta di sanatoria la demolizione del muro di contenimento, che invece, in quanto solo progettata al momento della presentazione dell’istanza, avrebbe dovuto essere assentita in variante. Ancor più in dettaglio, la sanatoria avrebbe riguardato tutto quanto già effettuato, ovvero la diminuzione delle superfici di copertura del suolo, con conseguente riduzione della lunghezza dell’intero fabbricato di m. 2,50 e delle superfici utili di piano da mq. 1523,40, a 1305,40, sì da renderle compatibili con la ridotta superficie fondiaria. A ciò sarebbe conseguita altresì la diminuzione delle unità abitative, passate da un totale di 22 a 17 e varie modifiche interne. La modifica della sagoma dell’edificio deriverebbe dunque sia dalla ricordata riduzione della lunghezza del fabbricato, che da ampliamenti dei balconi e degli accessi ai tre corpi di fabbrica. La variante invece avrebbe riguardato solo la sostituzione della tipologia della copertura, trasformata da piana in a falde, con conseguente modifica di destinazione d’uso del sottotetto. Infine, alla variante e non alla sanatoria, sarebbe da ascrivere la demolizione e il successivo arretramento del muro di recinzione, che oltre tutto, in quanto fisicamente e strutturalmente distinto dall’edificio principale, non avrebbe comunque potuto incidere sulla sanabilità dello stesso.
11. La ricostruzione, nella misura in cui omette di evidenziare la finalizzazione di tutti gli interventi al superamento della violazione degli indici di edificabilità contenuta nel permesso di costruire del 2004, e quindi la loro complessiva abusività, non è condivisibile.
12. Il T.A.R. per l’Abruzzo ha rilevato come l’atto impugnato (pur unitario nella forma) “avrebbe una duplice valenza, di sanatoria e di variante secondo le ordinarie tecniche giuridiche dell’atto plurimo”: essendo tale ricostruzione la tesi dello stesso Comune procedente, si è così confutato sul punto l’assunto della ricorrente, che ne rilevava l’intrinseca illegittimità . Nessuna pregiudiziale sistematica alla confluenza in un unico provvedimento di due distinte finalità è dato dunque rinvenire nella ricostruzione del primo giudice, che non a caso sviluppa la propria argomentazione distintamente per l’uno e per l’altro degli atti che lo compongono, senza evidenziare alcun riverbero di illegittimità derivata da tale sommatoria ex se considerata. Circostanza questa, rileva ancora il Collegio, meritevole di precisazioni, nel senso meglio esplicitato nel prosieguo.
Afferma la Sezione come in effetti non sia ravvisabile alcun principio o norma che precluda una simile ipotesi. L’ordinamento contempla, anzi, pacificamente la categoria degli atti a contenuto plurimo, cui è riconducibile quello impugnato, caratterizzati da un’unitarietà solo formale, ma non anche sostanziale, in quanto scindibili in molteplici atti di diverso contenuto, indipendenti l’uno dall’altro (cfr. T.A.R. per la Campania, sez. VIII, 17 febbraio 2010, n. 8718).
Ciò che occorre valutare tuttavia è la compatibilità in concreto della coesistenza di tali atti in quello che li riunisce, ovvero, più semplicemente, la mantenuta possibilità che ciascuno esplichi la sua finalità, senza attingerla ai contenuti dell’altro, a maggior ragione ove eterogeneo finanche nei presupposti.
Nel caso di specie, dunque, l’atto avrebbe la duplice e distinta funzione di sanare ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 parte delle opere in quanto realizzate in difformità dalla progettualità di cui al permesso di costruire del 2004 e di legittimare in variante quella ancora da realizzare. Senza tuttavia tenere conto che la variante presuppone ontologicamente un progetto assentito, che non può identificarsi in quello di cui si è chiesto nel contempo l’avallo postumo, stante la riscontrata illegittimità di quello originario.
Da qui l’affermazione del giudice di prime cure in forza della quale non è assentibile un aggiustamento necessario a ricondurre a legalità il permesso di costruire del 2004, irrimediabilmente viziato dall’erronea rappresentazione della realtà . La circostanza che tale errato dato di partenza sia stato dichiarato incolpevolmente, ovvero, più propriamente, senza dolo, in quanto tratto dalle carte catastali, siccome affermato dal giudice penale (sentenza del Tribunale di Teramo, cit. supra) non ne implica il superamento, essendo in forza dello stesso falsata l’intera configurazione del manufatto, sia in termini di estensione, che di allocazione sul lotto di riferimento.
12.1. L’istituto del cd. accertamento di conformità, o sanatoria ordinaria, nella disciplina dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 (ma ancor prima in quella dell’art. 13 della l. n. 47/1985), concerne la legittimazione postuma dei soli abusi formali, cioè di quelle opere che, pur difformi dal titolo (od eseguite senza alcun titolo), risultino rispettose della disciplina sostanziale sull’utilizzo del territorio, non solo vigente al momento dell’istanza di sanatoria, ma anche all’epoca della loro realizzazione. La sanabilità dell’intervento, in altri termini, presuppone necessariamente che non sia stata commessa alcuna violazione di tipo sostanziale, in presenza della quale, invece, non potrà non scattare la potestà sanzionatorio – repressiva degli abusi edilizi prevista dagli artt. 27 e ss. del d.P.R. n. 380 del 2001. Anzi, proprio la doverosità dell’esercizio di siffatta potestà, costantemente affermata dalla giurisprudenza, rafforza quanto appena detto circa la sanabilità, attraverso gli artt. 13 e 36, delle sole violazioni formali. Non può ammettersi, infatti, a pena di introdurre una contraddizione all’interno dello stesso corpus legislativo, che il legislatore da un lato imponga all’Amministrazione di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall’altro acconsenta a violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono – sul piano urbanistico – quelle conseguenti ad opere per cui non esista la cd. doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell’opera per valutare la sussistenza dell’abuso.
12.2. La cd. variante in corso d’opera costituisce invece una modalità per adeguare un progetto in itinere prima della chiusura dei lavori ad esigenze pratiche riscontrate in corso di esecuzione. L’art. 22, comma 2, ultimo periodo, del d.P.R. n. 380/2001 prevede a tale riguardo che esse costituiscano “parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale” e siano realizzabili mediante d.i.a. (oggi s.c.i.a.) quelle che “non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire”. La norma è stata successivamente novellata dall’art. 30, comma 1, lett. e), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, indi dall’art. 17, comma 1, lett. m), n. 1), del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito a sua volta con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014 n. 164 e, da ultimo, dall’art 3, comma 1, lett. f), n. 3), del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, sicché il riferimento alla modifica della sagoma rileva solo qualora si tratti di edificio sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
Come la Sezione ha già avuto modo di precisare, la relativa categoria concettuale è stata invero prevalentemente ricavata dalla giurisprudenza, laddove ha affermato che le modifiche, sia qualitative che quantitative apportate al progetto originario, possono considerarsi “varianti in senso proprio” soltanto quando quest’ultimo non venga comunque radicalmente mutato nei suoi lineamenti di fondo, sulla base di vari indici quali la superficie coperta, il perimetro, la volumetria nonché le caratteristiche funzionali e strutturali (interne ed esterne) del fabbricato (cfr. Cons. Stato, sez. II, 14 aprile 2020, n. 2381; id., 22 luglio 2019, n. 5130).
12.3. La disciplina sanzionatoria degli abusi nelle costruzioni, che completa la parte definitoria degli interventi, contempla tre fattispecie ordinate secondo la loro gravità, per le quali è comunque prevista, almeno in via astratta, l’ingiunzione a demolire l’opera realizzata: l’ipotesi di interventi in assenza di permesso o in totale difformità ; l’ipotesi intermedia di variazioni essenziali dal titolo edilizio; l’ipotesi residuale della parziale difformità da esso.
Il combinato disposto degli artt. 31 e 32 del T.U.E., parifica l’esecuzione di opere in variazione essenziale a quella effettuata in assenza di titolo e nella versione vigente ratione temporis individua ridetta variazione essenziale nella realizzazione di un organismo edilizio:
– diverso per destinazione d’uso che implichi variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968;
– con aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
-con modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;
– con mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito;
– costruito in violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
La determinazione in concreto dei casi di variazione essenziale è affidata alle regioni nel rispetto di tali criteri di massima.
12.4. Il concetto di variazione essenziale attiene dunque alla modalità di esecuzione delle opere e va pertanto distinto dalle “varianti”, che pur attinendo alla stessa, consentono di adeguare il titolo autorizzativo originario. Mentre, dunque, le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante (rectius, a d.i.a., in luogo della presentazione della quale il privato può optare per la richiesta di titolo esplicito), complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire; le varianti essenziali, caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dal richiamato art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di un permesso di costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto al primo, e per esso valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr. Cassazione penale, sez. III, 27 febbraio 2014, n. 34099).
In base alla norma, dunque, si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione; si configura invece la difformità parziale quando le ridette modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative minori. Detto altrimenti, per distinguere la concessione in variante dalla nuova concessione occorre che le modifiche quantitative e qualitative siano compatibili con il disegno globale che ha ispirato il progetto originario in modo che la costruzione stessa possa considerarsi regolata dalla originaria concessione, mentre quando il progetto originario risulta modificato in modo rilevante per quantità e qualità rispetto a quello originariamente assentito ricorre l’ipotesi di una variante essenziale.
12.5. L’ammissibilità di atti a contenuto plurimo non implica la possibilità di commistione tra atti, avuto riguardo in particolare all’intrinseca natura degli stessi. Come affermato dalla giurisprudenza di merito con riferimento al procedimento speciale di variante di cui all’art. 5 del d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, ispirato peraltro alla medesima logica di semplificazione invocata dall’appellante come ispiratrice della scelta di sintesi del Comune, ridetto divieto di commistione appare particolarmente pregnante proprio ove venga all’evidenza la sommatoria contenutistica con un provvedimento di sanatoria (cfr. sul punto T.A.R. per la Calabria, 19 dicembre 2014, n. 2206).
Neppure in tale ipotesi, cui non a caso è riconosciuta “natura eccezionale”, si è ritenuto assentibile in sanatoria un intervento nel contempo variando la incompatibile destinazione di piano. Ciò in quanto “Alla luce della natura “speciale” del procedimento derogatorio ex art. 5 D.P.R. n. 447 del 1998 e della natura ampiamente discrezionale del potere con esso esercitato, deve pertanto escludersi che tale istituto possa essere equiparato in sostanza – come auspicato da parte ricorrente – a quello dell’istituto del permesso di costruire in deroga, che trova il suo attuale modello nel cd. accertamento di “doppia conformità ” previsto dall’art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia); istituto finalizzato invece a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza titolo abilitativo, ma doppiamente conformi alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, in relazione sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell’istanza”. Costituisce infatti jus receptum che per il rilascio della sanatoria l’Amministrazione è chiamata a svolgere una valutazione vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile. In tale ipotesi, cioè, almeno in linea generale e fatte salve le ipotesi particolari e temporanee di condono che hanno natura eccezionale e che sono state individuate con rigorosa tassatività dalle singole leggi istitutive, senza possibilità di integrazione con diverse fattispecie previste da altri corpi normativi, “l’unico schema applicabile è quello riconducibile all’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001” (cfr. sul punto Consiglio di Stato, Ad. Plen., 4/2009), cui non è equiparabile il procedimento della cd. variante semplificata di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 447 del 1998, “che è invece orientato ad altra finalità, ovvero quello di semplificare o rendere più celere la modifica dello strumento urbanistico e dunque, da ultimo, favorire l’installazione di strutture produttive, con un meccanismo procedurale ana a quello previsto dall’art. 19 del D.P.R. n. 327 del 2001” (v. ancora T.A.R. per la Calabria, n. 2206/2014, cit. supra; in senso conforme, cfr. T.A.R. Puglia, sez. III Lecce, 14 gennaio 2010, n. 146). Ciò che appare possibile, dunque, è far convergere formalmente in un unico atto due provvedimenti distinti, ma non pretendere di mischiarli anche contenutisticamente, come di fatto avvenuto nel caso di specie. La variante urbanistica “di nicchia” cui allude la richiamata disciplina S.U.A.P. finisce per risolversi nella riconosciuta possibilità di rilascio del titolo edilizio in deroga alla disciplina preesistente, pur adeguando la stessa contestualmente a tale avallato stato di fatto: e tuttavia essa non si spinge mai fino a “coprire” ex post l’abuso, che per sua precisa essenza costituisce il “prodotto finito” di un comportamento ormai esaurito, i cui effetti illeciti permangono, sì da non tollerare commistioni valutative con adeguamenti pro futuro.
13. Chiarito quanto sopra, occorre ora ricondurre al paradigma normativo l’atto adottato dal Comune di (omissis): è innegabile che l’opera realizzata costituisce un organismo edilizio totalmente diverso da quello assentito con il permesso di costruire del 2004, in quanto la necessitata riduzione della superficie edificata, tale da rendere il progetto conforme alla disciplina urbanistica vigente, si è risolta, tra l’altro, nella minore dimensione del manufatto, in lunghezza e in altezza, con sostanziale eliminazione di un piano a destinazione abitativa, trasformato mediante modifica della copertura del tetto. E’ ovvio che all’organismo finale si è addivenuti senza soluzione di continuità realizzando i tre corpi di fabbrica principali, ed arrestandone poi la edificazione al primo piano: ma lo è egualmente che esso non corrispondeva da subito al progetto assentito, per cui da un lato era da considerare interamente abusivo, ai fini della sanatoria; dall’altro, la variante, se circoscritta alla sola parte ancora da realizzare, veniva ad innestarsi non sulla progettualità originaria, siccome completamente disattesa, ma su quella che si è chiesto di sanare, ovvero su un titolo incerto e comunque inesistente al momento della presentazione dell’istanza. Ne discende, all’evidenza, l’intrinseca contraddittorietà in concreto della pretesa complessità dell’atto impugnato sin dal suo nascere. Da qui, la riproposta problematica della legittimità dell’atto plurimo, nella evidentemente percepita difficoltà di adattare un paradigma astrattamente ammissibile e in concreto neppure contestato, ad una fattispecie connotata da una tale eterogeneità contenutistica da non tollerare una disciplina sostanzialmente unitaria, perché promiscua.
14. L’appellante, dunque, ritiene errata la ripartizione per oggetto effettuata dal giudice di prime cure, che non avrebbe ben separato la parte da sanare, in quanto già realizzata, da quella ancora da realizzare, seppure in difformità dalla progettualità originaria. E in effetti il T.A.R. per l’Abruzzo riconduce alla prima anche la demolizione con conseguente arretramento del muro, in quanto realizzato su strada pubblica, laddove la sanatoria non può che riferirsi ad abusi ultimati, senza condizionarne certo il rilascio alla eliminazione di parte di essi, in quanto ostativi all’applicazione della relativa normativa. Afferma il primo giudice che “a seguito del primo accertamento sarebbe scaturito il provvedimento di sanatoria ex art. 36 DPR 380/01, mentre il secondo accertamento avrebbe determinato l’adozione della variante, mediante cui si sarebbe adeguato il progetto (in disparte la questione del vincolo idrogeologico) “… alla superficie fondiaria così come rilevata dal tecnico incaricato dal Comune di (omissis)”; più in particolare le varianti al permesso di costruire originario avrebbero riguardato “una diminuzione del numero degli appartamenti da 22 a 17”, una “diversa copertura del fabbricato a due falde invece che piana e quindi una riduzione dell’altezza di circa 3 metri”, nonché “modifiche alla sagoma con l’introduzione di logge” (pagg. 4-5 memoria del 19.7.06 del Comune)”. Ricostruzione questa “incontestata in atti e comunque proveniente dalla stessa P A intimata”. Come si vede, dunque, non soltanto la demolizione del muro è ritenuta richiesta in sanatoria, ma la progettualità ridotta nella sua interezza costituirebbe pretesa variante in corso d’opera, laddove ad avviso dell’appellante l’inquadramento andrebbe ribaltato. Salvo poi, rileva la Sezione, frammentare tale riduzione in due fasi, di cui la prima (consistente nella realizzazione del manufatto fino all’ultimazione del primo piano), da sanare; la seconda (copertura a falde, anziché piana, quale conseguenza dell’avvenuto esaurimento della superficie edificabile disponibile), da avallare come variante, senza peraltro indicare rispetto a quale progettualità di base.
15. Da quanto sopra detto, emerge chiaramente, ritiene la Sezione, l’erroneità dell’assunto di partenza su cui si basa la prospettazione della Società, cui il Comune di (omissis) ha dato seguito fin dall’adozione del provvedimento impugnato: i diversi ed eterogenei profili contenutistici ivi confluiti non ne legittimano certo l’osmosi reciproca, dovendo al contrario ciascuno dei due atti mantenere la propria autonomia contenutistica e strutturale.
Paradossalmente, rileva infatti il Collegio, è proprio da tale assunto che consegue l’inutilità del sottile intervento di cesoia tra tipologie di interventi effettuati che l’appellante pretenderebbe dal giudice di prime cure, senza tuttavia a sua volta neppure chiarire in maniera inequivoca che tipologia di abuso ha posto in essere e rispetto a quale progettualità già assentita intenda agire in variante. La circostanza che l’intervento realizzato fosse difforme totalmente dal permesso di costruire illegittimamente rilasciato, ma mai rimosso in autotutela; laddove la variante ne costituiva in realtà il coerente completamento, seppure basata su una condotta, e non su un progetto assentito, rende di per sé l’una e l’altra inammissibili, in quanto comunque incardinate su una situazione viziata in diritto, non solo mutata di fatto.
Nel caso di specie, cioè, a fronte dell’originario permesso di costruire del 2004, riferito ad un’opera la cui superficie edificabile era stata calcolata sulla base della estensione catastale del lotto, la Società pare avere realizzato autonomamente il ricalcolo, edificando in conformità ad un ipotetico titolo, poi richiesto in sanatoria (a quel punto, integrale). Ciò peraltro non, come affermato dall’appellante, nell’ottica della leale collaborazione che deve improntare il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione, bensì all’esito dei controlli del Comune e delle verifiche del tecnico comunale scaturitene e della sostanziale tolleranza dell’Amministrazione, che non ha fatto seguire alla sospensione dei lavori la prevista ingiunzione demolitoria.
Che tale sia la corretta ricostruzione della vicenda, trova del resto conferma nello stesso atto di appello, ove, dopo avere insistito sulla necessità di collocare correttamente abusi da sanare e variazioni da effettuare, la Società riconosce espressamente la mancanza di un valido titolo di legittimazione originario, tanto da tentare di elevare a comportamento virtuoso la propria condotta abusiva, volta a ricondurre l’intervento, seppure assentito, nell’alveo della legalità, rappresentato dalla “riduzione” della portata del medesimo, e dal rispetto degli effettivi indici di edificabilità assentibili.
L’incontestato vizio di origine del permesso del 2004 viene dunque dequotato a “mero errore formale”, del quale tuttavia non si è inteso richiedere la rettifica alla stessa Amministrazione che lo aveva commesso, se non ex post, ad intervento edilizio già ultimato, sub specie di sanatoria. La “correzione” del permesso del 2004, dunque, sarebbe stata effettuata, per esplicita ammissione della Società, “fin quasi al completamento, senza tenere conto del dato “catastale” contenuto nel progetto e nel permesso originari”. Salvo poi pretendere di neutralizzare tale ultimazione, indispensabile per potere aspirare al condono, per innestarvi la variante, evidentemente agganciata dunque al progetto del 2004, seppure interamente superato.
Consapevole, dunque, dell’inammissibile intreccio di profili di fatto e di diritto confusi nell’atto impugnato, la Società riconosce allo stesso una valenza di sanatoria delle condotte illecite, e di contestuale rettifica del premesso primigenio. Rettifica confermativa, tuttavia, di cui non è traccia nel permesso sanatoria/variante del 2006, che continua a richiamare menzionare il permesso del 2004 come perfettamente legittimo ed efficace.
16. L’improprio richiamo ai principi concernenti la salvaguardia degli effetti dell’atto viziato, ovvero la sua convalida o sanatoria, di cui agli artt. 21 octies e nonies della l. n. 241/1990, non fa che confermare la ricostruzione effettuata, evidenziando l’indebita commistione riveniente dalla prospettazione di parte tra presunta necessità di preservare gli effetti di un atto invalido, e legittimazione postuma della condotta posta in essere sulla base dello stesso.
Laddove, infatti, il Comune avesse voluto attribuire all’errata individuazione della superficie del lotto la valenza di un vizio formale, come tale sanabile, avrebbe dovuto manifestare chiaramente tale volontà, indicando anche in maniera specifica ed inequivoca l’atto da ratificare e il profilo di illegittimità, oltre che l’interesse pubblico sotteso alla convalida. Agendo retroattivamente, il Comune avrebbe così “sanato” anche l’intervento, privando di disvalore il comportamento tenuto fino a quel momento dalla Società, seppure evidenziato all’esito di attività di vigilanza, ovvero isolando in maniera netta eventuali residui aspetti illeciti da sanare. Anzi, a ben guardare, ove si fosse trattato esclusivamente di ricondurre a legittimità un atto, non un comportamento, neppure si sarebbe posta l’esigenza di sanare alcunché, perdendo la condotta di parte la propria connotazione di illegittimità ex tunc. In sintesi, solo riconoscendo l’atto del 2004 affetto da un vizio non afferente al suo contenuto sostanziale (quale invece si palesa l’errata indicazione della superficie fondiaria, necessaria per il calcolo di quella edificabile, nonché l’invasione della sede stradale) si sarebbe potuta ipotizzare una convalida che per ragioni di economia dei mezzi dell’azione amministrativa e di conservazione dei relativi effetti giuridici si sarebbe sommata finanche ad autonomi effetti sanati di altre singole opere in difformità . Il che, tuttavia, non è avvenuto nel caso di specie. Correttamente, pertanto, il T.A.R. ha da ultimo rilevato la “divaricazione paradossale fra la qualificazione giuridica data al provvedimento e la reale portata giuridica, che allo stesso l’amministrazione intenderebbe implicitamente dare”. Affermazione che la Sezione fa propria e condivide.
17. Alla luce di quanto sopra, non è chi non veda come, vuoi che si sostenga che l’esecuzione dell’opera in totale difformità dal permesso di costruire del 2004 sia stata sanata fino al primo piano, vuoi che la si voglia “dequotare” interamente o nella sola parte finale a mera variante della progettualità originaria, si è totalmente al di fuori dagli ambiti di operatività di entrambi gli istituti evocati, singolarmente o cumulativamente intesi.
L’avvenuta individuazione del vizio costituito dalla errata rappresentazione dello stato di fatto avrebbe casomai implicato la rivisitazione in autotutela del titolo del 2004, anche su impulso di parte. L’abuso, dunque, come sinteticamente riconosciuto dal T.A.R. per l’Abruzzo, non si è concretizzato in una qualsiasi difformità dal permesso di costruire, bensì nella conformazione ad un ipotetico titolo, ancora inesistente, rispettoso, a differenza del primo, dei vigenti parametri urbanistici. La circostanza che la localizzazione del complesso immobiliare sia grosso modo la stessa, e così la struttura fisica distribuita su tre corpi di fabbrica, un piano interrato e tre piani fuori terra, ancorché l’ultimo non più destinato ad appartamenti, l’altezza e la destinazione d’uso residenziale, non implica affatto la sovrapponibilità tra i due interventi, che divergono per molteplici elementi, la dimensione superficiaria in primis, e, a cascata, tutto quanto necessario ad adeguare il complesso alla stessa, da valutare in maniera necessariamente unitaria, e non scorporandone ulteriormente a piacimento le singole componenti, anche minimali, come avvenuto perfino per il muro di recinzione/contenimento.
18. Ma vi è di più . Il confuso coacervo descrittivo nel quale si innesta la richiesta di parte, vuole cristallizzato un manufatto rispondente ai limiti di edificabilità superficiaria assentibili secondo la disciplina urbanistica vigente: la modifica, dunque, si innesterebbe non sulla progettualità del 2004, ma su quella, contestualmente assentita in sanatoria, del 2006. Quanto detto, rileva ancora il Collegio, appare ontologicamente incompatibile con la nozione stessa di variante “pura” o in corso d’opera. Essa infatti presuppone uno stato di progetto formalizzato ed avallato con riferimento al quale, in corso di esecuzione, si rendono necessari adeguamenti minimali: non, come nel caso di specie, uno stato di fatto non “coperto” da alcun titolo edilizio, per il quale si è chiesta la sanatoria sull’assunto, attraverso la stessa, di eliminare i vizi del titolo originario.
Il richiamato art. 22, comma 2, del T.U.E. consente la realizzazione di varianti mediante la semplice presentazione di una d.i.a., pur facendo salva la facoltà della parte di avvalersi del più “pesante” titolo edilizio costituito dal permesso di costruire (comma 7), siccome parrebbe accaduto nel caso di specie. Anche assumendo a progetto originario quello, non ancora assentito, in sanatoria, e limitando la portata del provvedimento in parte qua alle modifiche delle coperture da piane a capanne, con ciò si è determinato un diverso metodo di calcolo delle altezze, “conseguente alla trasformazione dei secondi piani da abitativi a servizi e soffitte”. E ancora: “va ricordato che la (prevista) trasformazione delle coperture, fisicamente da piane a capanna, dei secondi piani e la loro trasformazione funzionale, da residenziale a servizi, è stata richiesta in variante, non in sanatoria, in quanto ancora da eseguire al momento della presentazione dell’istanza” (pag. 24 dell’atto di appello). Con ciò pretermettendo che ridetta modifica di destinazione d’uso non era mai assentibile in variante, giusta la formulazione dell’art. 22, comma 2, vigente ratione temporis.
19. Afferma infine la Società che il giudice di prime cure avrebbe errato in particolare con riferimento alla presunta occupazione della sede stradale, riferendo l’ipotizzato arretramento del muro di recinzione ancora una volta alla sanatoria, piuttosto che alla variante, con la conseguenza del ritenere la prima inammissibile in quanto condizionata alla demolizione dell’abuso, piuttosto che alla sua salvaguardia.
Sul punto, l’appellata insiste nell’enfatizzare la portata dell’intervento, da non stralciare dal contesto in quanto pienamente inserito nello stesso, sì da determinare una rivisitazione dell’intera progettualità, con nuova dislocazione delle rampe di accesso ai garage.
Rileva il Collegio come, anche a prescindere dalla consistenza dell’intervento, certamente non limitato al mero spostamento di una recinzione, ma implicante un’assai più corposa modifica dello stato dei luoghi, di esso non è individuata con precisione la allocazione. Solo la affermata circostanza della sua realizzabilità futura supporta l’inquadramento di parte quale richiesta in variante, anziché in sanatoria. Il paradosso, tuttavia, è che al riguardo si avrebbe una effettiva variante alla progettualità del 2004, tale tuttavia da eliminare un ulteriore profilo di illegittimità della stessa, in quanto riferita ad un’occupazione abusiva del sedime stradale. Essa, cioè, al pari della sanatoria, avrebbe funzione di convalida postuma e non esplicitata di un vizio, ancora una volta derubricato a mera pecca formale, sì da consentire, ora per allora, la sua sanatoria. Il che non è la funzione ascrivibile alla variante che non può andare ad incidere, emendandolo da vizi, sul progetto originario, all’interno della cui cornice deve comunque muoversi.
Quanto detto non può che valere anche per le scale esterne all’edificio e per gli ingressi pedonali e carrabili che si affacciano sulla strada (privata): la loro rivendicata natura di pertinenze a servizio dello stesso e non di sue porzioni mal si concilia con la modifica di sagoma dell’immobile, ovvero comunque con la loro inclusione nella progettualità originaria dalla cui -radicale-modifica mutuano la ipotizzata configurazione finale.
20. Le considerazioni che precedono consentono la reiezione delle riproposte questioni di inammissibilità del ricorso di primo grado in ragione della mancata impugnativa del permesso originario del 2004: se è innegabile, infatti, che quest’ultimo risultava viziato ab origine per espressa ammissione di parte appellante dall’errata indicazione della superficie fondiaria e dall’invasione della strada comunale, lo è egualmente, per quanto ampiamente esposto, che con l’atto del 2006 se ne è radicalmente superata la prospettazione, dando vita ad un provvedimento autonomo perfino ove inteso come confermativo del precedente, avendone rivalutato con istruttoria autonoma i relativi contenuti.
21. Per quanto sopra detto, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto e, per l’effetto, debba essere confermata la sentenza del T.A.R. per l’Abruzzo n. -OMISSIS-.
Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
Resta ferma la possibilità per il Comune di (omissis) di rieditare gli atti annullati, epurandoli dai vizi rilevati, con ciò rideterminando anche correttamente, se ne ritenga sussistenti i presupposti, l’importo dell’oblazione, non risultando neppure chiara la tipologia e la consistenza dell’abuso sulla base del quale lo stesso è stato determinato.
22. Sussistono giuste ragioni per compensare le spese nei confronti del Comune di (omissis) e della Regione Abruzzo. Con riferimento invece alla appellata esse seguono la soccombenza e sono determinate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del T.A.R. per l’Abruzzo n. -OMISSIS-.
Condanna la Società appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore dell’appellata signora -OMISSIS-, che liquida in complessivi euro 3.000,00 (tremila/00), oltre oneri accessori, se dovuti; compensa le spese nei confronti del Comune di (omissis) e della Regione Abruzzo.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la Società appellante.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 luglio 2020, tenutasi con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Fabio Taormina – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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