Tra persone legate da vincoli di parentela o di affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa

Corte di Cassazione, sezione lavoro civile, Ordinanza 30 settembre 2020, n. 20904.

La massima estrapolata:

Tra persone legate da vincoli di parentela o di affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa, con la conseguenza che, per superare tale presunzione, è necessario fornire la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l’assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l’onerosità.

Ordinanza 30 settembre 2020, n. 20904

Data udienza 3 luglio 2019

Tag/parola chiave: LAVORO ED OCCUPAZIONE – LAVORO SUBORDINATO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Presidente

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – Consigliere

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 28469-2015 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS) presso lo studio dell’Avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), quale titolare della omonima ditta individuale, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1621/2014 della CORTE – D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 27/11/2014 R.G.N. 906/2011.

RILEVATO

che la Corte territoriale di Bologna, con sentenza pubblicata il 27.11.2014, ha respinto l’appello interposto da (OMISSIS), nei confronti di (OMISSIS), avverso la pronunzia del Tribunale di Rimini n. 336/2010, depositata il 6.10.2010, con la quale era stato rigettato il ricorso della (OMISSIS), diretto ad ottenere il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti dall’1.5.1997 al 27.4.2005, le mansioni di commessa di 4 livello del CCNL del settore commercio ed il pagamento, in suo favore, delle retribuzioni non pagate, nella misura di Euro 177.973,93;
che per la cassazione della sentenza ricorre (OMISSIS) articolando quattro motivi, cui resiste con controricorso (OMISSIS);
che sono state depositate memorie nell’interesse di entrambe le parti;
che il PG non ha formulato richieste.

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si deduce: 1) la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c., in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e si lamenta che la Corte di merito avrebbe “violato la regola di giudizio riguardante la prova della subordinazione ignorando al proposito i principi di rilievo costituzionale di cui all’articolo 3 Cost., comma 2, articolo 35 Cost., comma 1, articolo 36 Cost., comma 1”, perche’ avrebbe erroneamente onerato la lavoratrice dell’onere di dimostrare il carattere subordinato della prestazione resa; 2) la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex articolo 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’articolo 2127 c.c. e all’epoca regolata dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369”, perche’ “la sentenza impugnata rende lecita l’interposizione nelle prestazioni di lavoro, espressione con la quale si intende parlare della fattispecie in cui un imprenditore scelga di non assumere direttamente i lavoratori dei quali ha bisogno per le esigenze della propria attivita’ produttiva, ma di farli ingaggiare da un altro soggetto (appunto l’interposto), per poi utilizzarne ugualmente la prestazione senza assumere nei confronti di chi lavora alcun obbligo ne’ responsabilita’”; 3) la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex articolo 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli articoli 2594 e 230 bis c.c., in connessione all’articolo 2094 c.c., in quanto la sentenza impugnata nega la subordinazione invece configurando un’associazione in partecipazione oppure un’impresa familiare tra la lavoratrice stessa ed il coniuge, mentre tale configurazione e’ incompatibile con le norme di legge sopra richiamate”; 4) “l’omesso esame circa la sussistenza del vincolo di subordinazione, che costituisce l’accertamento primario richiesto dalla ricorrente e al tempo stesso il presupposto fattuale e giuridico per l’accoglimento di tutte le altre domande avanzate dalla ricorrente”, per avere i giudici di merito omesso l’esame del fatto concernente l’esistenza o meno della subordinazione, oggetto principale della discussione intervenuta tra le parti;
che i motivi, da trattare congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, non sono meritevoli di accoglimento, essendo tesi, nella sostanza, a contestare la valutazione degli elementi probatori operata dai giudici di seconda istanza i quali, alla stregua di quanto e’ rimasto delibato, hanno negato la sussistenza, nella fattispecie, degli elementi che connotano la subordinazione ed hanno affermato che le modalita’ di svolgimento del lavoro della (OMISSIS) “non consentono di affermare l’automatica imputabilita’ all’impresa dell’associante delle predette prestazioni rese a favore dell’associato ( (OMISSIS)) dalla moglie (la (OMISSIS), appunto) nell’ambito di una collaborazione di tipo familiare ovvero anche ascrivibile al disposto dell’articolo 230-bis c.c., come invece sotteso nelle riproposte tesi dell’appellante. Sul punto l’interrogatorio delle parti e del (OMISSIS) (associato in partecipazione della nipote (OMISSIS) nella gestione di due negozi siti nel riminese) non attestano altro che una presenza comunque sopradica della (OMISSIS) presso i negozi e di suoi interventi non continuativi e non pregnanti di supervisione…. Che non contraddicono la devoluzione della gestione dell’attivita’ allo zio associato in conformita’ agli accordi intervenuti, prima e dopo la registrazione del contratto di associazione in partecipazione…”;
che va, altresi’, osservato, per quanto piu’ specificamente attiene al secondo motivo, che la ricorrente non ha osservato la prescrizione di specificita’ di cui articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’articolo 360, comma 1, n. 3 codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilita’, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimita’ (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. n. 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); peraltro, il motivo non appare centrato, in quanto nella sentenza impugnata non si “rende lecita l’interposizione di manodopera”, come affermato dalla ricorrente, ma si osserva motivatamente, come innanzi osservato, che gli elementi delibatori non consentono di acclarare che il rapporto di cui si tratta avesse i connotati della subordinazione;
che, nel caso di specie, i giudici di appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il profilo logico-giuridico, sono pervenuti alla decisione oggetto del presente giudizio, dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria espletata in primo grado (al riguardo, cfr., tra le molte, Cass. n. 18921/2012); pertanto, le doglianze articolate dalla parte ricorrente si risolvono, in sostanza, in una ricostruzione soggettiva del fatto, tesa a condurre ad una valutazione difforme rispetto a quella cui e’ pervenuta la Corte distrettuale, sulla base di una diversa lettura del materiale probatorio ed appaiono inidonee, per i motivi anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza oggetto del giudizio di legittimita’. Quest’ultima, peraltro, e’ del tutto in linea con gli arresti giurisprudenziali di questa Corte, poiche’, tra persone legate da vincoli di parentela o di affinita’ opera una presunzione di gratuita’ della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa; con la conseguenza che, per superare tale presunzione, e’ necessario fornire la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l’assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l’onerosita’ (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 8364/2014; 9043/2011; 8070/2011; 17992/2010; per cio’ che piu’ specificamente attiene a tutti gli indici di subordinazione, cfr., ex multis, Cass. n. 7024/2015). Ed al riguardo, in particolare, i giudici di seconda istanza hanno condivisibilmente affermato che le risultanze istruttorie non solo non hanno fornito alcun elemento per accertare il vincolo della subordinazione…, ma hanno dimostrato che l’attivita’ della ricorrente si inseriva in un rapporto di collaborazione familiare;
che, per tutto quanto esposto, il ricorso va rigettato;
che le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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