Lo sfruttamento diretto dell’azienda già appartenuta al “de cuius”

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza, 2 novembre 2020, n. 24197.

Nel caso in cui più eredi esercitino congiuntamente ed in via di fatto, lo sfruttamento diretto dell’azienda già appartenuta al “de cuius”, deve escludersi la configurabilità di una mera amministrazione di beni ereditari in regime di comunione incidentale di godimento e si è, invece, in presenza dell’esercizio di attività imprenditoriale da parte di una società di fatto, con l’ulteriore conseguenza che, in ordine alla responsabilità per i debiti contratti nell’esercizio di tale attività, restano prive di rilievo la qualità successoria delle persone anzidette e le eventuali limitazioni di responsabilità a essa correlate. L’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e società è infatti costituito dallo scopo lucrativo perseguito tramite un’attività imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento e in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni.

Ordinanza 2 novembre 2020 n. 24197

Data udienza 13 luglio 2020

Integrale

Tag/parola chiave: Rapporto di lavoro subordinato – Dipendente distributore di benzina – Mansioni di addetto alla pompa – Mansioni superiori – Attività di cassa e gestione contabile incasso – Differenze retributive – Legittimazione – Società di fatto costituitasi tra gli eredi – Successione nei rapporti giuridici dell’impresa individuale del decuius – Regolarizzazione – Società in nome collettivo – Responsabilità solidale fra socie e società anche per i crediti antecedenti – Prescrizione – Eccezione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 5164/2017 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), tutti personalmente ed in qualita’ di legali rappresentanti pro tempore e soci della societa’ ” (OMISSIS) S.N.C.”, domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS);
– intimata –
avverso la sentenza n. 1/2016 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA di SASSARI, depositata il 05/02/2016 R.G.N. 13/2014.

RILEVATO

Che:
(OMISSIS) conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Nuoro la s.n.c. (OMISSIS) nonche’ (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) ed esponeva di aver lavorato alle dipendenze della ditta (OMISSIS), presso il distributore ERG di Orosei con qualifica di operaia corrispondente al VI livello c.c.n.l. di settore e mansioni di addetta alla pompa. Deduceva tuttavia di essere stata adibita, a far tempo dal febbraio 1977, a mansioni superiori, avendo espletato attivita’ di cassa e di gestione anche contabile dell’impianto di distribuzione.
Alla stregua di tali premesse, chiedeva condannarsi parte convenuta al pagamento della somma di Euro 151.908,51 a titolo di differenze retributive spettanti per i titoli descritti, dal 1/1/1977 al 5/7/2001.
Nel costituirsi in giudizio, la societa’ eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, essendo il rapporto di lavoro de quo intercorso esclusivamente con (OMISSIS), deceduto nel (OMISSIS), mentre la societa’ si era costituita successivamente, con soluzione di continuita’ rispetto all’impresa gestita dal de cuius. Si costituivano quindi anche (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), quali eredi di (OMISSIS), instando per il rigetto del ricorso.
Il giudice adito rigettava la domanda. Detta pronunzia veniva riformata dalla Corte d’Appello di Cagliari, sez. distaccata di Sassari che, con sentenza resa pubblica il 5/2/2016, condannava la s.n.c. (OMISSIS) nonche’ (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), al pagamento in favore di (OMISSIS), della somma di Euro 198.295,10 a titolo di differenze retributive.
A fondamento del decisum, la Corte osservava che: il ricorso era ammissibile, perche’ coerente con il principio di specificita’ che lo governa, sancito dall’articolo 434 c.p.c.; vi era legittimazione passiva delle parti convenute giacche’ la societa’ di fatto, costituitasi fra gli eredi, era succeduta nei rapporti giuridici dell’impresa individuale del de cuius. Tale societa’ di fatto si sarebbe poi trasformata in societa’ in nome collettivo fra gli eredi, ex articolo 2297 c.c., con conseguente responsabilita’ solidale fra societa’ e soci anche per i crediti antecedenti alla regolarizzazione. La quantificazione delle differenze retributive spettanti in relazione alle mansioni superiori espletate, come desumibile dalle acquisizioni probatorie, potevano essere parametrate ex articolo 36 Cost., alla stregua dei contratti collettivi di categoria, non prodotti dalla lavoratrice, ma acquisiti ex officio ai sensi dell’articolo 425 c.p.c..
Avverso tale decisione la s.n.c. (OMISSIS) nonche’ (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), personalmente ed in qualita’ di legali rappresentanti p.t. interpongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
La parte intimata non ha svolto attivita’ difensiva.

CONSIDERATO

Che:
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 342 e 434 c.p.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si critica la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno ritenuto ammissibile il ricorso nonostante la mancanza dei requisiti essenziali di specificita’, non essendo dotato della attitudine alla confutazione logico-giuridica del fondamento della decisione.
2. Il motivo non e’ fondato.
La Corte di merito, nel proprio incedere argomentativo, si e’ conformata al principio consolidato nella giurisprudenza di legittimita’, secondo cui gli articoli 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal Decreto Legge n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilita’, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado; cio’ tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversita’ rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (vedi Cass. 16/11/2017 n. 27199 cui adde Cass. 30/5/2018 n. 13535), essendo sufficiente che il motivo d’appello esponga il punto sottoposto a riesame, in fatto ed in diritto, in modo tale che il giudice sia messo in condizione di cogliere natura, portata e senso della critica (cfr. Cass. 19/3/2019 n. 7675).
La Corte distrettuale ha infatti rimarcato che quando il legislatore del 2012 ha postulato, ai fini della ammissibilita’ dell’atto in appello, “l’indicazione delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”, non ha preteso la proposizione da parte appellante, di una sostituzione della motivazione della sentenza censurata con altra espressamente indicata nell’atto di gravame, ma la denuncia dell’ingiustizia della pronuncia “sotto il profilo della ricostruzione e richieda una nuova valutazione dei fatti sulla base degli esclusivi motivi indicati dall’appellante”.
In tal senso la statuizione si colloca nel solco del ricordato insegnamento e risulta espressa all’esito di un giudizio compiutamente modulato sulla scorta degli atti processuali, oggetto di accurata disamina, rientrando l’attivita’ interpretativa della domanda, e la specificita’ dei motivi di impugnazione, nei compiti propri del giudice di merito, verificabile dal giudice di legittimita’ solo indirettamente, sotto il profilo della correttezza giuridica del procedimento interpretativo e della logicita’ del suo esito (in tali sensi vedi Cass. 22/2/2005 n. 3538, Cass. 27/05/2014 n. 11828).
E gli esiti di siffatta attivita’ sono qui condivisi perche’ congrui e coerenti, oltre che conformi a diritto per quanto sinora detto.
3. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’articolo 425 c.p.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si deduce che l’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice del lavoro, quantunque amplissimo perche’ finalizzato alla ricerca della verita’, incontra dei limiti costituiti dall’adempimento degli oneri di allegazione dei fatti costitutivi, impeditivi o estintivi del diritto, configurandosi “un divieto di intervento diretto del giudice qualora la parte non abbia tempestivamente allegato i predetti fatti”. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimita’; i poteri istruttori del giudice, anche ex articolo 425 c.p.c., non possono, infatti, sopperire alle carenze della attivita’ di allegazione e di prova delle parti.
4. Il motivo e’ privo di pregio.
Vero e’ che, secondo i principi affermati in questa sede di legittimita’, la conoscibilita’ “ex officio” di un contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico postula una collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell’adempimento di un onere di allegazione e produzione, e’ assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell’onere della prova e sul contraddittorio che non vengono meno neppure nell’ipotesi di acquisizione giudiziale ex articolo 425 c.p.c., comma 4 (ex aliis, vedi Cass. 5/3/2019 n. 6394); ma e’ altrettanto vero che una questione siffatta attinente alle modalita’ di acquisizione del testo contrattualcollettivo, perde rilievo laddove, cosi’ come nella specie, il giudicante non abbia proceduto alla stretta applicazione delle disposizioni contrattuali, ma si sia limitato a proiettare nella fattispecie, sul piano quantitativo ed in via parametrica ai sensi dell’articolo 36 Cost. (vedi pag. 6 sentenza), i valori concordati dai contraenti con riferimento ai compensi corrispondenti alle qualifiche ivi enunciate, pervenendo ad una determinazione della retribuzione spettante alla lavoratrice, secondo un giudizio di adeguatezza che rinviene la propria fonte normativa nella citata disposizione costituzionale, intesa quale parametro esterno al contratto (arg. da Cass. 4/7/2018 n. 17421, Cass. 23/12/2016 n. 26953).
Questa affermazione attinente alla applicazione dei parametri retributivi ex articolo 36 Cost., non viene, peraltro, attinta dalla censura formulata e tale omessa impugnazione rende in via ulteriore inammissibile, per difetto di interesse, la relativa censura, essendo la statuizione non censurata divenuta definitiva e quindi non potendosi piu’ produrre in nessun caso il relativo annullamento (vedi, al riguardo Cass. 26/3/2010, n. 7375; Cass. 7/9/2017, n. 20910; Cass. 3/5/2019, n. 11706).
5. La critica poi, neanche puo’ essere validamente scrutinata con riferimento alla generica prospettazione della mancanza di una domanda di pagamento delle differenze retributive spettanti in relazione alla inferiore qualifica di attribuzione in sede di assunzione (v. pagg. 15-16 del ricorso), per l’inemendabile carenza del requisito di specificita’ che la connota.
I ricorrenti hanno infatti, omesso di riportare il tenore del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, neanche nelle sue parti salienti, cosi’ come dell’atto di appello, con il quale si deduce non fosse stata dispiegata alcuna specifica censura avverso il capo della decisione che aveva respinto la domanda attorea per le ragioni enunciate.
Sotto tutti i profili delineati, il motivo va, pertanto, disatteso.
6. Con il terzo motivo e’ denunciata violazione e falsa applicazione degli articoli 2112, 2248, 1292,754 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si stigmatizza la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno accertato la responsabilita’ solidale fra i soci e la societa’ data la diversita’ fra responsabilita’ parziaria degli eredi ex articolo 754 c.c. e responsabilita’ solidale dei soci ex articolo 2291 e 2112 c.c., integranti diverse causae petendi non deducibili con concorso cumulativo ex articolo 1292 c.c..
7. La censura e’ infondata.
Questa Corte, con orientamento risalente nel tempo, e privo di contrasti, ha chiarito che nel caso di comunione incidentale di azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte di uno o piu’ partecipanti alla comunione, e’ configurabile l’esercizio di un’impresa individuale o collettiva (nella forma della societa’ regolare oppure della societa’ irregolare di fatto), non ostandovi l’articolo 2248 c.c., che assoggetta alle norme degli articoli 1100 c.c. e segg., la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento.
Pertanto, nel caso in cui piu’ eredi esercitino – come nella specie congiuntamente ed in via di fatto, lo sfruttamento diretto dell’azienda gia’ appartenuta al “de cuius”, deve escludersi la configurabilita’ di una mera amministrazione di beni ereditari in regime di comunione incidentale di godimento e si e’, invece, in presenza dell’esercizio di attivita’ imprenditoriale da parte di una societa’ di fatto, con l’ulteriore conseguenza che, in ordine alla responsabilita’ per i debiti contratti nell’esercizio di tale attivita’, restano prive di rilievo la qualita’ successoria delle persone anzidette e le eventuali limitazioni di responsabilita’ ad essa correlate (vedi Cass. 27/11/1999 n. 13291). L’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e societa’ e’ infatti costituito dallo scopo lucrativo perseguito tramite un’attivita’ imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento ed in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni (vedi Cass. 6/2/2009 n. 3028).
E questo e’ il caso che si e’ nella specie verificato, avendo la Corte di merito accertato che tutti i partecipanti alla comunione avevano proceduto al diretto sfruttamento della azienda, cosi’ configurandosi l’esercizio di un’impresa collettiva, secondo i principi innanzi richiamati in base ai quali, ove l’impresa sia esercitata da tutti i coeredi, l’originaria comunione incidentale si trasforma in una societa’ sia pure irregolare o di fatto (cfr. Cass. 11/4/2019 n. 10188).
Il richiamo disposto dai giudici del gravame al concetto di sfruttamento economico dell’azienda, rimanda ad una nozione di fine speculativo e di lucro nell’esercizio della attivita’ imprenditoriale, da cui discende, quale giuridico corollario, ed alla stregua dei summenzionati principi, il riferimento a tutti i partecipanti, degli utili e delle perdite relativi. In tale prospettiva deve, dunque, ritenersi priva di pregio la critica formulata da parte ricorrente con la quale si prospetta l’erroneita’ della pronuncia per vizio di sussunzione della fattispecie concreta nell’ambito della disciplina di cui all’articolo 2297 c.c., invece che in quella dell’articolo 2948 c.c., in tema di comunione di mero godimento.
Alla stregua delle sinora esposte considerazioni, deve ritenersi, pertanto, non sussista soluzione di continuita’ fra la snc (OMISSIS) eredi, rispetto alla impresa individuale del de cuius, serbandosi il nesso fra responsabilita’ solidale fra la societa’ ed i soci anche per i crediti antecedenti alla regolarizzazione.
Gli approdi sul tema delibato ai quali e’ pervenuta la Corte distrettuale, conformi a diritto per quanto sinora detto, resistono, dunque, alla censura all’esame.
8. Il quarto motivo concerne omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 4, ex articolo 112 c.p.c..
Ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di vagliare l’eccezione di prescrizione sollevata tempestivamente in primo grado e riproposta in sede di gravame, come desumibile dal tenore degli atti riprodotti per il principio di autosufficienza.
9. Il motivo e’ fondato.
Premesso che l’omessa pronunzia si sostanzia nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto (vedi Cass. 8/10/2014 n. 21257) non puo’ denegarsi che la pronuncia gravata sia affetta da siffatto error in procedendo.
Risulta, infatti, riprodotto il tenore della memoria difensiva depositata in primo grado con la quale si formulava eccezione di “prescrizione estintiva che si fosse realizzata per l’inerzia della ricorrente”, e quello dell’atto di appello con il quale veniva reiterata – con riferimento alla durata quinquennale del termine applicabile alla domanda di pagamento delle differenze retributive – con la precisazione che per le asserite differenze retributive, giusto il termine breve ex articolo 2948 c.c., si sarebbe verificata la prescrizione in relazione ai crediti maturati sino al 4/7/1996.
In tal senso va altresi’ rimarcato che la critica risulta ritualmente formulata, in coerenza con l’insegnamento di questa Corte secondo cui la parte, che deduca con il ricorso per cassazione, il mancato esame dell’eccezione di prescrizione, e’ tenuta, oltre a far riferimento al momento in cui la stessa e’ stata proposta ai fini della sua ritualita’ (ex articolo 416 c.p.c., comma 2), a specificare – per consentire al giudice di legittimita’ di valutare la decisivita’ della sollevata questione – le condizioni ed i presupposti necessari per accertare se la prescrizione sia decorsa o meno, sicche’ non puo’ limitarsi a censurare genericamente, violando il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, la mancata pronuncia sulla sollevata eccezione da parte del giudice del gravame (cfr. Cass. 7/10/2014 n. 21083).
Ritenuto che in nessuna parte della motivazione della sentenza impugnata vi e’ traccia di argomentazione riferibile alla questione considerata, ne’ si puo’ indurre che la stessa sia stata decisa implicitamente dal giudice, la sentenza impugnata va dunque cassata in relazione a detto ultimo motivo con rinvio alla Corte distrettuale designata in dispositivo cui si demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso in relazione al quarto motivo e lo rigetta nel resto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Cagliari, Sezione Distaccata di Sassari, anche per le spese del giudizio di legittimita’

 

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